lunedì 8 febbraio 2016

Repubblica 8.2.16
L’ombra di una nuova recessione affossa il dollaro e inguaia l’Europa
Le banche di tutto il mondo perdono quota e questo è un ulteriore elemento di instabilità
L’economia americana cresce solo dello 0,7% e la moneta unica è ai massimi dell’ultimo anno rispetto al biglietto verde. La Fed rinvierà l’aumento dei tassi: export europeo e Paesi emergenti in difficoltà
di Federico Rampini

NEW YORK. La cavalcata al rialzo del superdollaro si è interrotta di colpo. La moneta americana si è indebolita in modo significativo; rilanciando l’euro che ha raggiunto i massimi da un anno. Come si spiega l’inversione di tendenza così repentina? Chi ci guadagna, chi ci perde? La causa di fondo è il rallentamento della crescita americana, che crea incertezze sulle prossime mosse della Federal Reserve. L’impatto più immediato è sulla “guerra delle valute”. Tra i danneggiati ci sono i Paesi europei e in particolare gli esportatori italiani che di un euro debole continuano ad avere bisogno. Tirano un sospiro di sollievo – forse solo momentaneo – i Paesi emergenti schiacciati dal peso di debiti in dollari.
L’eccesso di debolezza che ha spinto il dollaro al ribasso la scorsa settimane, ha le sue cause dentro l’economia Usa. L’ultimo trimestre del 2015 si è chiuso con una crescita asfittica (+0,7%) una frenata rispetto alla velocità di crociera durante la prima parte dell’anno. A gennaio le nuova assunzione sono state solo 151.000, inferiori alle previsioni e al di sotto della media 2015. Che succede? Forse si sta semplicemente concludendo un ciclo. Una ripresa americana durata quasi sette anni è già matura, dal dopoguerra ad oggi pochi periodi di crescita sono durati di più. Sarebbero quasi maturi i tempi per una recessione. Se è così ha ragione il coro di critiche che accusa la Fed di avere sbagliato i tempi: quando a dicembre ha deciso il primo rialzo dei tassi dal 2008, potrebbe avere anticipato la “fine della ricreazione”. Adesso i mercati si sono auto- convinti che la Fed sia pentita di quella mossa. Si attendono che a marzo non annunci ulteriori rialzi dei tassi. La politica monetaria americana in tal caso verrebbe “congelata”: tutto fermo, in attesa di capire se sta arrivando la temuta recessione.
Questo scombussola lo scenario globale. Fino alla fine dell’anno scorso, si dava per scontato che si sarebbe aperta una forbice nei tassi d’interesse: sempre più su quelli americani, sempre più giù (perfino sotto zero) dall’Eurozona al Giappone. L’apertura di quella forbice dei rendimenti spingeva i capitali verso gli Stati Uniti, in cerca d’interessi maggiori. Di conseguenza il dollaro si rivalutava su quasi tutte le altre monete. Buona notizia per l’export europeo, reso meno caro e più competitivo dal superdollaro. Pessima notizia per i Paesi emergenti: negli anni del boom tante imprese dalla Cina al Brasile si sono indebitate in dollari (costava poco, e all’epoca erano le monete emergenti a rafforzarsi); ora devono restituire interessi e capitali su quei debiti, in una moneta diventata pesante. C’è poi il legame molto stretto fra petrolio e dollaro, per cui un dollaro forte tende ad accentuare il ribasso petrolifero, quindi a impoverire tanti petro- Stati dal Golfo alla Russia al Venezuela. Le Borse in tutto questo hanno visto una ulteriore fonte di instabilità. Tra gli ulteriori fattori di crisi: le banche di tutto il mondo perdono quota e dunque torna ad esserci un rischio-finanza non solo in Italia; sui ribassi delle Borse pesa la liquidazione di interi patrimoni accumulati negli anni scorsi dai Paesi del Golfo; infine è questione di tempo prima che si schianti nei default pubblici o privati qualche “anello debole” tra le economie emergenti. Il rischio è un po’ meno acuto sul fronte della finanza pubblica, cioè delle bancarotte di Stato; i soggetti più fragili sono grandi imprese dei Paesi emergenti che vendettero junk-bond a gogò. Non aiutano a rasserenare i mercati né i dubbi persistenti sullo stato di salute reale dell’economia cinese; né la sensazione che le politiche monetarie di “quantitative easing” in Giappone e nell’Eurozona tardino a diffondere i benefici nell’economia reale. Il dilemma della Fed è quello che concentra l’attenzione dei mercati. La politica monetaria americana continua ad esercitare un’influenza esorbitante sul resto del mondo. Negli anni passati fu promossa a pieni voti: nella versione Usa, il “quantitative easing” fu davvero decisivo per innescare il ciclo di crescita e far scendere la disoccupazione sotto il 5%. Ma con due problemi. Uno è che l’immensa liquidità generata dalla Fed tra il 2008 e il 2014 in parte si è riversata fuori dai confini, è andata a gonfiare bolle speculative nei Paesi emergenti. L’altro problema è che i tassi americani restano ancora di poco superiori allo zero. Se dovesse arrivare una recessione a fine anno, i margini per politiche espansive della Fed sarebbero pericolosamente esigui.