domenica 7 febbraio 2016

Repubblica 7.2.16
I tabù del mondo
Quell’Io affamato che va alla guerra contro il suo corpo
Spesso la letteratura psicoanalitica accosta la figura dell’anoressica a quella di Antigone: entrambe seguono il puro desiderio, entrambe non accettano compromessi
Ma se l’eroina di Sofocle si sacrifica per amore fraterno, la persona che non mangia sfida la morte solo per affermare se stessa. Diventando ancora più schiava
Questa situazione patologica contiene un insegnamento profondo: la vera libertà non consiste mai nel rigetto di un vincolo; è invece nella sua accettazione
di Massimo Recalcati

Nella letteratura psicoanalitica la figura inquietante dell’anoressia è stata più volte accostata a quella di Antigone. Come la protagonista della tragedia di Sofocle che difende con intransigenza il suo desiderio di dare sepoltura al corpo del fratello pagandone il prezzo con la propria vita, alcuni autori hanno voluto vedere nella scelta anoressica quella stessa intransigenza, il desiderio “puro”, contrario a ogni forma di mediazione, di Antigone. Anche nell’anoressia, infatti, il soggetto non è disposto a cedere, a rinunciare al suo desiderio. Il suo sciopero della fame rende impossibile ogni trattativa. Il suo “no!” non è dialettico, non contempla il dubbio. L’anoressica nel suo rifiuto di alimentarsi manifesta una decisione che sembra priva di incertezze: «D’ora in avanti mi fiderò solo delle mie ossa; d’ora in avanti deciderò io cosa potrà entrare o uscire dal mio corpo!».
Come in nessuna altra malattia mentale, nell’anoressia il tabù della morte è valicato: per difendere il proprio diritto a esistere il soggetto sfida le leggi della natura, contesta l’istinto, si riduce a pelle ed ossa, non si lascia vincere dalla fame, mette a repentaglio la sua vita. L’esperienza clinica rivela ordinariamente la difficoltà a far retrocedere l’anoressica dalla sua decisione ostinata di rifiutarsi al nutrimento anche se questo rifiuto mette in pericolo la sua vita. Non ritroviamo qui la stessa inflessibilità di Antigone? Anche l’anoressica, come l’eroina di Sofocle, mostra che la vita umana eccede sempre quella animale. Se la vita animale persegue il soddisfacimento immediato dei propri bisogni primari (mangiare, respirare, dormire), quella umana non può accontentarsi. Non solo di pane, come ricorda la Bibbia, vive l’essere umano. Esiste un altro nutrimento ed è il nutrimento del desiderio.
È a questo che aspira l’anoressica di fronte a un Altro che sembra interessarsi solo dei suoi bisogni. È la lezione drammatica che possiamo ricavare dal celebre e sadico sperimento “psicologico” organizzato dall’imperatore “illuminato” Federico II. Con l’intenzione di scoprire quale lingua fosse all’origine di tutte le lingue, l’imperatore “intellettuale”, appassionato della caccia col falco, affida dei neonati alle cure di balie anonime chiedendo loro di non rivolgere mai alcuna parola ai piccoli. In questo modo si sarebbe individuata la lingua più originaria, che sarebbe dovuta sorgere spontaneamente nei bambini senza subire nessun condizionamento. Risultato: tutti morti. Senza il segno del desiderio dell’Altro, senza cure capaci di riconoscere il soggetto nella sua particolarità insostituibile, senza quella “grazia dell’attenzione” che, secondo Simone Weil, definisce il gesto più autentico dell’amore, la vita umana si spegne, s’ammala e muore.
È questa la posta in gioco ultima dell’anoressia: il rifiuto ostinato di nutrirsi vuole segnalare l’eterogeneità irriducibile tra il piano dei bisogni e quello del desiderio. Di fronte a genitori, madri o padri, indifferenti alla particolarità della sua esistenza, ella rivendica il diritto di essere considerata come un soggetto del desiderio attraverso il rifiuto di soddisfare i suoi bisogni. Una mia paziente rimproverava i suoi genitori di considerarla solo come un “tubo digerente” da riempire. È la verità che l’anoressia custodisce: la vita umana non si alimenta di oggetti, ma di segni. Il suo rifiuto caparbio dell’oggetto è infatti un modo, per quanto distorto, di invocare la presenza del segno d’amore, il segno del riconoscimento del suo desiderio. Per questa ragione Winnicott ricordava che quando i bambini manifestano dei disturbi dell’appetito hanno sempre dei dubbi sull’amore dei loro genitori.
Eppure la scelta di Antigone non può che apparire diametralmente opposta a quella anoressica. Antigone, infatti, non mette al centro della sua scelta, come fa invece l’anoressica, il proprio Io: ella scende viva nella tomba nel nome dell’amore per il fratello rinunciando all’attaccamento al proprio io. In Antigone l’Io appare decentrato, scivola di lato, non è un idolo feticistico al quale consegnarsi come invece accade nell’anoressia contemporanea, la quale, al contrario di Antigone, vive esclusivamente per il proprio Io. La sua volontà inflessibile non agisce per difendere il valore sacro dell’amore fraterno, ma per sostenere il culto narcisistico del proprio corpo magro.
L’oltrepassamento del tabù della morte porta così in due direzioni opposte: Antigone sacrifica la propria esistenza alla Legge non scritta dell’amore per il fratello, mentre l’anoressica sfida il tabù della morte per ricattare l’Altro da cui dipende, per gettare i suoi genitori nell’angoscia, per affermare un’impossibile autonomia. Il suo è un platonismo disperato che in realtà tende a ribaltarsi in un materialismo cieco. Non c’è nessuno spiritualismo nell’anoressia contemporanea ma solo infatuazione narcisistica per il proprio Io. La sua concezione della libertà resta adolescenziale perché rifiuta ogni limite, ma in questo modo, essa si rovescia nel suo contrario: per liberarsi dalla prigione del corpo essa diviene schiava del proprio corpo. L’ideale di una indipendenza assoluta — al quale vanamente si dedicano i suoi sforzi — si ribalta, come spesso accade nell’adolescenza patologica, in una dipendenza rovinosa. Non mangiare non libera dal cibo ma fa del cibo una vera e propria ossessione che occupa i pensieri dell’anoressica giorno e notte. In questo dobbiamo vedere un insegnamento profondo: la vera libertà non consiste mai nel rifiuto del vincolo, ma nella sua accettazione.