sabato 6 febbraio 2016

il manifesto Alias 6.2.16
Il saluto militare
Ultraoltre. La luce del divino che abbaglia gli occhi del fedele e lo costringe a coprirseli, la luminosità del sacro è sopportabile solo per un momento, e da lontano. Ecco come e perché nasce il gesto
statuette votive (Museo di Heraklion, Creta)
Raffaele K. Salinari
Edizione del
06.02.2016
Pubblicato
6.2.2016, 0:34
Aggiornato
5.2.2016, 18:03
Chi visitasse il museo di Heraklion a Creta, potrebbe posare lo sguardo su di una serie di statuette votive risalenti al periodo cosiddetto prepalaziale (IV-III millennio a.C.) effigiate in una strana posa: rigide sull’attenti sembrano intente a fare il «saluto militare», portando la mano di taglio sulla fronte. Il gesto si ripete identico in diverse figurine bronzee, alcune delle quali sono inclinate, ora in avanti ora indietro rispetto al loro baricentro, quasi fossero fotogrammi isolati da uno stesso film. L’insieme si compone così nell’effetto di un continuo movimento oscillatorio, come di chi tenesse una postura religiosa quale ancora oggi è possibile vedere durante alcune preghiere o processioni, ad esempio quelle ebraiche davanti al Muro del Pianto a Gerusalemme.
La prima riflessione che queste statuine sollecitano è proprio quella della coincidenza tra il loro gesto ed il «saluto militare». Com’è noto la spiegazione comunemente data è che l’atto marziale sia collegato all’usanza di alzare la celata dell’elmo per mostrare il volto. In realtà ritroviamo la stessa gestualità molto prima che venissero in uso le armature, dato che già gli antichi centurioni romani usavano salutare i superiori in questo modo. Il sostanziale isolamento del mondo militare da altri contesti, resosi indispensabile sia per mantenere la compattezza gerarchica, sia per preservarne la logica e le tradizioni da influenze esterne, è d’altra parte un fenomeno che si ritrova, anche con le stesse definizioni, in altre «istituzioni totali», a partire da quelle religiose: basti pensare alle «legioni di Cristo» o ai «Generali» del vari Ordini.
Dalle forti analogie tra mondo militare e mondo ecclesiale, possiamo così risalire alla genuina natura di questo gesto che, come abbiamo visto nelle statuette votive di Candia, appartiene certamente in origine all’ambito della sacralità estatica caratteristica della civiltà minoica, mentre oggi rimane come puro formalismo, svuotato cioè di quella carica visionaria che probabilmente lo ha generato. D’altronde, come dice giustamente Roger Caillois nel suo I giochi e gli uomini, ogni volta che una grande cultura riesce ad emergere, nel nostro caso quella Greca, patriarcale, imperialista e guerriera, nel suo soppiantare l’antica civiltà minoica, si riscontra una sensibile regressione delle forme della religiosità estatica: esse vengono svuotate della loro antica importanza, respinte alla periferia della vita pubblica, ridotte a ruoli sempre più modesti e intermittenti, se non addirittura clandestini e illeciti, oppure confinate nell’ambito limitato e regolato dei giochi.
Qui scorgiamo un aspetto centrale del passaggio storico dalla civiltà minoica, che poggiava le sue basi su un matriarcato «più che di autorità, di comprensione e di prestigio muliebri», a quello «brusco e buio» di tipo patriarcale dominato dai Dori – «barbari senza remissione» – come li definiva Momolina Marconi. Per l’evoluzione storico-mitologica di queste diverse fasi, dal neolitico sino all’invasione achea del XIII secolo a.C., rinviamo all’introduzione a I miti greci del «bardo» Robert Graves, cantore della Dea Bianca, che disegna mirabilmente il passaggio da un mondo ed una religiosità matrilineare, ad una patriarcale – dalla Grande Dea a Zeus – per poi arrivare alle religioni monoteiste attuali. Ma è proprio in questo particolare tipo di religiosità, e della visione che da essa scaturiva, che dobbiamo ricercare le origini sacre del gesto di portare la mano di taglio alla fronte.
La visione della Dea
Per ricostruirne la scaturigine, dunque, dobbiamo necessariamente partire dal momento cultuale in cui queste statuette sono state forgiate: era il tempo in cui nell’area del Mediterraneo dominava il culto della Grande Dea che, al tempo stesso, emanava e raccoglieva in sé, componeva e ricombinava dentro una figura unificante, tutti gli aspetti della creazione, delle cose visibili così come di quelle invisibili: la pánton genéthla della religiosità arcaica. Nella Creta minoica il numinoso, cioè la percezione del Principio generatore universale, non era separato e neppure separabile dalla vita di ogni giorno: le sue manifestazioni, a partire da quelle che nella cultura greca verranno poi attribuite a Dioniso, il dio-archetipo della «vita indistruttibile», erano immediate, in altre parole visionarie e mistiche. Kerényi riporta nel capitolo Gestualità minoica del suo Dioniso, un giudizio di H. A. Groenewegen-Frankfort che, per così dire, illumina, attraverso un’analisi delle forme d’arte, la concezione religiosa da cui sarebbero poi nati i gesti originati da queste visioni e che ritroveremo, «civilizzati», in quelli profani odierni, «saluto militare» compreso. L’arte cretese, dice lo studioso, non conosceva quella tremenda distanza fra l’essere umano e il trascendente, che poteva indurre nell’uomo la tentazione di cercare una via d’uscita dallo spazio e dal tempo.
Altrettanto poco conosceva la magnificenza e la vanità delle semplici azioni umane che sono legate al tempo e allo spazio. A Creta gli artisti non hanno conferito consistenza al mondo dei morti facendone un’ombra del mondo dei vivi, non hanno eternato gesta superbe, e neppure hanno elevato attraverso i loro templi una modesta pretesa ad essere presi in considerazione dagli dei. Questa concezione dell’esistenza che include la morte impediva, come vedremo più avanti, l’emergere di quella forma di malessere diffuso nelle nostra civiltà di aspiranti immortali che Freud denominò Das Unheimliche, il «perturbante».
Là, e là soltanto – contrariamente a quanto accadde in Egitto e nell’Asia Minore – la pretesa umana di svincolarsi dal tempo fu disprezzata, dando luogo alla più totale adesione alla leggiadria della vita che il mondo abbia mai conosciuto. Poiché vita significa movimento, la bellezza del movimento era intessuta in quella trama di forme viventi che si definiscono «scene naturalistiche»; questa bellezza si mostrava nei corpi umani occupati nei loro giochi severi e ispirati da una presenza trascendentale, giochi liberi e insieme conformi alle regole, senza alcuno scopo, proprio come senza scopo è il tempo ciclico. Tra questi giochi spiccano l’altalena e le acrobazie con i tori, ma soprattutto il dondolamento su se stessi o appesi ad un albero sacro: la forma più semplice di produrre una condizione estatica. Roberto Calasso, nelle Nozze di Cadmo ed Armonia, sottolinea come il «mistero a Creta, era palese, e nessuno tentava di nasconderlo». Le «cose innominabili» erano spalancate dinanzi agli occhi di tutti. E così, se continuiamo a risalire verso la fonte della gestualità legata al culto della Grande Dea, troviamo che il gesto su cui stiamo indagando è esattamente uno di quelli determinato dalla sua visione estatica, per cui si potrebbe dire che un tale movimento – contemporaneamente spontaneo e limitato – sia ispirato dalla sua presenza trascendente, anzi, sia in qualche modo questa stessa presenza.
La visione smeraldina
E infatti, come dice Pavel Florenskij nel suo saggio sulle icone, Le Porte regali, tradotto in italiano da Elémire Zolla, l’immagine iconica è quella che permette a chi la guarda di riconnettersi con l’invisibile luce che permea tutte le cose: la luce del sacro, per lo studioso russo segnatamente quello «incarnato» della tradizione cristiana. È dunque nello sguardo dell’Icona che si concentra la sua capacità simbolica, quella cioè di costituirsi come vera e propria «soglia» ontologica che l’osservatore può traguardare per accedere all’essenza immutabile dell’Anima Mundi.
Un esempio, nell’arte cristiana, è certamente quello della Madonna con Bambino e Santa Margherita del Parmigianino (1530), attualmente presso la Pinacoteca di Bologna. Qui l’intensità dello sguardo che si scambiano il piccolo Gesù e la Santa restituisce la possibilità stessa della Visione ma, forse, la chiave di volta del dipinto è quella dell’Angelo che guarda lo spettatore come ad attirare il suo sguardo. Chi sia questa figura angelica è ancora oggetto di controversia; noi azzardiamo una ipotesi seguendo le connessioni cabalistiche proposte da Giulio Camillo che, nel suo Theatro, stabilisce una corrispondenza tra le Sefiroth e le schiere angeliche, in particolare tra la terza detta Bina, e Metatron, il «principe del volto divino». Chi meglio di lui potrebbe, in effetto, sostenere nei confronti della nostra visione il ruolo di messaggero, di anghelos, mediatore tra l’attuale e l’eterno?
Egli ci guarda come attraverso la sua aura, e dunque ci ri-guarda, così come la Santa attira verso di sé il volto del piccolo Gesù sostenendone il mento con la mano affusolatissima e sensuale per essere tutta nel fuoco dei suoi occhi. Per restituire la carica simbolica di questi gesti Francesco Giorgio Veneto, nel suo In Scripturam sacram problemata, trattando della visione immediata di Dio, usa l’espressione «visio facie ad faciem». Il altre parole se ci identifichiamo con questi sguardi ne veniamo illuminati noi stessi: lo sguardo «è» la visione. Ma, non essendo noi dei Santi, anzi, come diceva Melisso seguace di Parmenide, «noi essendo anime volgari che non sopportano i raggi della divinità», lo sguardo a tutti possibile è invece quello «ermetico», da Ermes dio del mutamento e degli scambi, che permette di trasmutare la realtà fenomenica nel suo ris/volto, individuare quei nessi, la «trama nascosta» eraclitea, che unisce tra loro tutte le cose, trovare la correspondance di cui parla Baudelaire.
Come annuncia Florenskij qui, come in altre questioni metafisiche, il punto di partenza e ciò che già sappiamo dentro di noi: infatti anche in noi la vita nel visibile si alterna a quella nell’invisibile, come nel sogno, anche se questa percezione può essere totalmente e lucidamente vissuta solo «nell’attimo del tempo». E non è forse questo «attimo» che l’artista coglie e riverbera nei momenti di ispirazione, come nelle figurine votive di Candia? E, come nello sguardo di Santa Margherita, non è forse la significanza del gesto stesso a dirci che la Dea esiste? E non è allora il nostro modo trasmutante e trasmutato di guardare le cose che può restituircene il volto nascosto, cioè quella sostanziale unità che le unisce e che ci unisce ad esse?
Di sguardo ermetico parla in termini felicemente «sovversivi» Paolo Mottana, Direttore del Master in Culture simboliche della Bicocca che, nel suo La visione smeraldina, delinea le coordinate per una vera e propria «pedagogia dell’Immaginale», come ad indicare una pratica per la quale Platone usa la parola greca ópsis, che vuol dire a un tempo «atto del vedere, visione, occhio e sguardo». Attraverso l’ópsis ciò che è immateriale, l’anima, l’essenza, che così diventa reale e visibile ci fa tornare in noi: «ritorna in te stesso e guarda», dice Plotino (Enneadi I,6,9,4-8).
È dunque la luce del divino che abbaglia gli occhi del fedele e lo costringe a coprirseli. È stata la l’oscillazione, documentata dalla postura delle statuette votive di Candia, a farlo entrare in contatto con l’epifania; ma la luminosità del sacro è sopportabile solo per un momento, e da lontano. Ecco come e perché nasce il gesto. Nel caso della Grande Dea della Zoé, e qui sta l’arcano, è questa unità tra umano e divino che viene simboleggiata dall’atto di schermarsi gli occhi al cospetto della sua luce incommensurabile: il gesto stesso diviene così una sua ipostasi. È dunque la sua essenza simbolica a presuppore la possibilità di epifanie: tutti i gesti che si compiono nell’esperienza visionaria di una epifania sono autentici, non ripetitivi, genuinamente simbolici, diversamente da quelli stereotipati del culto, che non possiede più il carattere originario della visione, anche se cerca di suscitarla. Da qui l’attuale meccanicità del «saluto militare», che riprende solo l’aspetto secolarizzato della sottomissione gerarchica al superiore e la necessità che questi, per mantenere il suo carisma, sia visto, ma da lontano.
Il tramonto del gesto sacro
Ma essere immersi nel ciclo della Vita, essere esposti all’estatica visione della Dea, intesa come prismatica ipostasi della Zoé, porta certamente a confrontarsi con l’irrazionale che vi regna, con l’angoscia dell’imponderabile. Torna qui la riflessione di Valéry quando diceva che ogni vera metafisica esige che l’uomo sia partecipe di uno spettacolo che in qualche modo lo esclude. La ricerca della trance visionaria, dice ancora Caillois, assoggetta nell’uomo discernimento e volontà, ne fa il prigioniero di estasi esaltanti, di rapimenti mistici che lo dispensano dall’essere «solo un uomo» ma, proprio per questo, rischiano di annientarlo. Basterebbero, a questo proposito, le parole di Maria Maddalena de’Pazzi, la mistica visionaria che, alla fine del ‘500, colloquiava con Dio, quando descrive, con le sue parole trasgressive, lo stato d’animo dell’estasi come: «una quiete crudele e furiosa». Non a caso i mistici sono sempre stati tendenzialmente emarginati, se non chiaramente perseguitati, in ogni religione; specie in quelle dove il clero ha voluto amministrare la spiritualità, essi rappresentano infatti un pericolo potenziale proprio per la loro immediatezza.
Che siano i Sufi islamici o i mistici cristiani, essi sono invisi alla gerarchie ecclesiali, esattamente come un soldato che discute gli ordini lo sarebbe ai ranghi dell’esercito. Dalla volontà di sottrarsi al potenziale pericolo dell’immediatezza sarebbe dunque nata la nostra civilizzazione, figlia del pensiero Greco con la sua razionalità, per quanto sempre intrisa di ascendenze irrazionali, come ci fa notare Dodds nel suo I Greci e l’irrazionale. Da questa progressiva razionalizzazione, e gerarchizzazione, del pensiero occidentale sul Mondo, arriviamo alla sfida che segna la nostra modernità tecnologicamente orientata, il grande esperimento che ora si rivela un inganno tragico: la sostituzione del divino con l’umano, il superamento del limite della vita, il diniego della morte come parte costitutiva della vita.
E così che si edifica la «grande rimozione» che oggi alimenta l’enorme macchina edonistico-consumogena con la conseguente trasformazione della natura in un insieme di materie prime inanimate, da utilizzare per il nostro crescente controllo sulla biosfera, e non certo come un insieme animato col quale vivere in con/senso, e dal quale trarre suggerimenti per orientare il nostro stesso modello di civiltà. Giorgio De Santillana, nel suo saggio sul Fato antico, sintetizza che la gravità di questo percorso non risiede tanto nel distacco dalla Natura, per certi versi consustanziale all’intelligenza umana ed alla sua volontà di comprensione, quanto nell’aver cancellato dalla nostra visione il Cosmo che ci contiene ed esprime – il Fato degli antichi appunto – nel quale le leggi di natura erano da conoscere perché immutabili nella loro perfetta interazione. In questa visione delle relazioni uomo mondo non c’è posto per il numinoso, certamente non per la sua visione diretta, immediata, e dunque, non avendo luogo, questa visione semplicemente «non ha luogo»: non c’è allora nessuna necessità di «schermare lo sguardo dell’anima».
Ma questa assenza del numinoso dalla nostra percezione diretta, estatica, se ci mette al riparo dall’esposizione alla sua terribilità, ogni Angelo è tremendo ci ricorda Rilke, produce a sua volta altre perturbazioni. In definitiva il decadimento del sacro dal nostro orizzonte visuale, ed il conseguente svuotamento simbolico dei suoi gesti ricongiungenti, genera a sua volta una visione «perturbata» delle relazioni natura-cultura, che mette a repentaglio il nostro stesso equilibrio psichico, ammorbato dalla volontà di affermazione prometeica e di sottrazione all’ordine superiore delle cose. Freud, nel suo saggio sul «Perturbante» (1919), cita a proposito una definizione di Schelling secondo cui questo sentimento sarebbe legato a qualcosa di segreto che torna a galla, rimarcando, da padre della psicanalisi, come nulla di più segreto permane nell’anima dell’uomo della paura della morte e dunque sia proprio questa rimozione, che continuamente riaffiora, a perturbare tutta la nostra psicosfera.
E allora, se il «progresso» è questo passaggio da una visione, ed organizzazione, della società governata dall’estasi e dalla consapevolezza di una comune appartenenza alla Zoé, ad una in cui ci si affida alle scienze esatte ed al pensiero raziocinate – per sua natura incapace a comprendere l’Ombra e dunque tutto ciò che si muove seguendo ragioni diverse da quelle della pura razionalità economica – ebbene non possiamo meravigliarci che il Mondo dentro e fuori di noi sia ridotto a ciò che nella Cabbala viene definito in termini spirituali klippoth, guscio, una pseudorealtà privata della comunione tra le sue molteplici anime, un insieme di Idoli, di Loghi, che giocano con la nostra percezione a sembrare Simboli.
Apollineo e dionisiaco
«L’anima si inebria del visibile e, perdendolo di vista, si estasia sul piano dell’invisibile – questa è l’abolizione dionisiaca dei ceppi del visibile. Sollevata che si sia in alto, nell’invisibile, essa cala di nuovo nel visibile e a questo punto le vengono incontro ancora le immagini simboliche del mondo invisibile – i volti delle cose, le idee: questa è la visione apollinea del mondo spirituale». Cosi ci dice Florenskij e sembra che solo le droghe, oggi, possano ricondurci verso quella strada: una scorciatoia in realtà impervia e molto pericolosa, dato che sul cammino psichedelico sono molte le Maschere che si spacciano per Volti. Anche in questo caso ci vuole una robusta disciplina immaginale, in altre parola un intento di visione, una fede cioè, come dice ancora Florenskij: una «certa convinzione di cose invisibili», che riesca a combinare apollineo e dionisiaco, per sollevare la mente dalle immagini agli archetipi.
Ora, le droghe, quelle psicotrope in particolare, sono sempre state supporti importanti per la comprensione umana del mondo; hanno contribuito a tendere il nostro arco sensorio sino a rompere con le loro frecciate le false dualità che ci opprimono, ma al contempo ci proteggono: conscio/inconscio, persona/cosmo. Le droghe psicotrope e psichedeliche agiscono come un processo alchemico interiore, immaginale: fluidificano le concrezioni della mente mentre fissano in immagini i pensieri volatili, «poste all’incrocio tra senziente e sensibile», come scriveva Merleau-Ponty. Nulla a che vedere con i composti chimici «da sballo» che servono l’effetto opposto.
Nietzsche, nella Gaia scienza, propone una storia delle droghe come storia del sentire; ogni periodo dell’umanità ha avuto le sue droghe, i suoi stupefacenti di riferimento, spesso identificati con le divinità del ciclo vita/morte. Coleridge, un frequentatore del laudano, così poetizza il ruolo ricongiungente degli stupefacenti, nel suo L’arpa eolia: «E che dir poi se tutte le cose della natura animata, non fossero che arpe vere e proprie di diversa foggia, il cui brivido si traducesse in pensiero mentre sovra esse passasse, plastico e immenso lo stesso soffio intelligibile, anima di ciascuno ed al contempo Dio di tutti?». Questa sinestesia aiuta il transito della soglia, il ricongiungimento, la visione del sacro.
Anche le luci psichedeliche che emanano dalle vetrate colorate delle cattedrali, unite al salmodiare ininterrotto dei fedeli ed ai loro digiuni, sono ancora oggi i residuali strumenti della stessa visionarietà sacramentale. Non abbiamo lo spazio per analizzare qui le deviazioni contemporanee da questi cammini, ma possiamo dire che l’uso odierno degli stupefacenti è tutto all’interno del mondo secolarizzato che ci circonda e ci attraversa, e dunque che l’effetto prodotto da questi operatori non può che essere degenerato, come tutto ciò che oramai afferisce al «Regno della quantità», secondo la celebre definizione dell’Occidente desacralizzato coniata da René Guènon. Ecco perché, già nel passaggio epocale, paradigmatico, da una visione immediata della Zoé, ad una mediata dalla presenza della soggettività umana nel mondo, vediamo emergere l’emblematica figura di Dioniso, il dio dell’ebbrezza, con la sua droga, il vino.
«Cosa è Dioniso», cosa simboleggia a quel punto della storia del sacro nel Mediterraneo? A quale esigenza culturale e cultuale risponde il dio della Zoé? Una risposta possibile nasce non solo dall’ipotesi accademica che egli rappresenti il punto intermedio nel processo di progressiva soggettivazione della bios umana che, lentamente, smette di essere solo spettatrice estatica della visione divina – di «giocare per la Dea» – per prendere posto da protagonista sulla scena del mondo, ma dalla necessità attuale di avere una divinità alla nostra portata per sperimentare ancora la via dell’ebbrezza, della visione estatica. Non a caso il cristianissimo Padre Florenskij lo inserisce tra le sue figure di riferimento insieme al «gemello» Apollo.
Se la danza minoica sul toro, la «vertigine» del dondolio, portavano l’uomo più vicino alla divinità anche a prezzo del rischio mortale, adesso la bios umana, nel suo processo di soggettivazione, ha bisogno di una divinità «umana» che combini estasi ed archetipo della «vita indistruttibile» con la presenza dell’uomo nella storia; che faccia da specchio, con il suo ciclo, non solo a quello della Natura, ma della vita umana caratterizzata, che vuole essere anch’essa celebrata. Così nasce Dioniso e si afferma il suo avvento: nelle celebrazioni, nel culto del dio che nasce, muore e rinasce, si rispecchia finalmente l’umanità.
Ognuno di noi allora può sempre cercare e vivere momenti dionisiaci, la cui determinante essenziale altro non è che la percezione immediata ed istantanea di tutti gli opposti che la vita contiene: un precipitarsi nella totalità dell’essere senza frapposizioni di sorta. A questa dimensione, seppure per un solo momento, si accede però solo attraverso quella che Florenskij chiama la «visione apollinea del mondo spirituale», in altre parole l’intento deliberato e la consapevole disciplina immaginale del ricercare il ricongiungimento con l’Anima Mundi. Evidentemente nulla a che fare con lo sbattere dei tacchi degli scarponi mentre si porta la mano alla fronte salutando un qualsiasi Generale.