Repubblica 7.2.16
La diplomazia dell’incontro tra il Papa e Kyril
Il
dialogo è frutto di una consapevolezza condivisa: i cristiani devono
rendere conto delle loro divisioni e degli sforzi per superarle
di Enzo Bianchi
Priore della Comunità monastica di Bose
NON
IL caso, non le coincidenze, ma il paziente lavoro di tante persone, le
preghiere di molti fedeli, la risoluta volontà dei due primati e le
circostanze storiche hanno fatto sì che questo abbraccio avvenisse non
in Europa, non di fronte alle folle ortodosse o cattoliche mosse dallo
straordinario evento, ma nell’isola caraibica, in un aeroporto, luogo
laico per eccellenza, agorà dell’era contemporanea, spazio evocativo di
viaggi, di arrivi e di partenze, dove le persone si incrociano ma non si
conoscono, ma anche luogo simbolico di decolli verso nuovi orizzonti e
prospettive. Quella disponibilità palesata dalla presenza di osservatori
del patriarcato di Mosca al concilio Vaticano II, quell’auspicio
portato a Roma dal metropolita Nikodim morto tra le braccia di Giovanni
Paolo I, quell’anelito coltivato da una parte e dall’altra
dell’ex-cortina di ferro in modo particolarmente intenso dopo la caduta
del regime sovietico, quel desiderio alimentato dagli sforzi di Giovanni
Paolo II e dalla sapienza di Benedetto XVI è oggi una realtà, al
contempo frutto di anni laboriosi e germe di messe ancora più
abbondanti.
Giovanni Paolo II aveva sognato il viaggio a Mosca e
furono compiuti tentativi significativi, ma sempre ci si era confrontati
con il diniego della chiesa ortodossa russa che ripeteva: «i tempi non
sono ancora maturi». Di fatto, la memoria dei conflitti
patriottico-religiosi tra Polonia cattolica e Russia ortodossa e la
difesa degli uniati greco-cattolici in Ucraina da parte di un papa
polacco non dissipavano la diffidenza. Si era progettato un incontro al
monastero benedettino di Pannonhalma in Ungheria, poi in Austria,
qualcuno aveva ventilato l’incontro attorno alla Sindone a Torino… ma di
fatto nessuna ipotesi era risultata praticabile.
Che cosa,
allora, ha accelerato questo incontro, preparato con discrezione da
mesi, ma annunciato all’ultimo momento? Chi segue fin dall’inizio
l’intensificarsi dei rapporti tra Roma e Mosca, chi conosce cosa anima
semplici scambi di cortesie o messaggi apparentemente rituali di
vicinanza e fraternità, può pesare la portata di questo incontro al di
là di ogni calcolo geo-religioso o di realpolitik. È un incontro che è
frutto sì di sapiente tessitura diplomatica, ma prima e più ancora di
una consapevolezza condivisa: i cristiani devono rendere conto delle
loro divisioni e degli sforzi per superarle non a un’istanza
internazionale, ma alla precisa volontà del loro unico Signore. Le
ricadute concrete anche al di fuori dello spazio ecclesiale ci saranno,
senz’altro, ed estremamente significative, ma più decisive ancora
saranno le conseguenze sul piano del dialogo ecumenico e della ricerca
dell’unità dei cristiani.
Non si parlerà di problemi teologici —
per questo c’è da anni la commissione mista cattolico-ortodossa, e
nessuna singola chiesa ortodossa è abilitata a dialoghi teologici
bilaterali — ma soprattutto dei problemi carichi di sofferenza dei
cattolici e degli ortodossi in Ucraina e dei cristiani perseguitati in
Medio Oriente che chiedono solidarietà e aiuto. È significativo,
comunque, che la chiesa greco-cattolica in Ucraina abbia adottato solo
ora, dopo ventidue anni, ciò che era stato siglato tra cattolici e
ortodossi a Balamand nel 1993: “il rifiuto dell’uniatismo come metodo di
ricerca dell’unità perché opposto alla tradizione comune delle nostre
chiese”.
Anche il metropolita Hilarion nel presentare l’evento ha
ricordato che motivi di tensione permangono, soprattutto nell’intricata
questione ucraina, così come spinte alla solidarietà si fanno urgenti
nei Paesi dove i cristiani, indipendentemente dalla loro confessione,
sono vittime di soprusi, violenze e persecuzioni. Ma nell’ottica
cristiana, il principale fattore di avvicinamento non sono le avversità
che sorgono dentro o fuori lo spazio ecclesiale, né le opportunità
strategiche di ipotetiche sante alleanze, bensì la volontà di
ristabilire quella comunione fraterna che è il segno grande che
caratterizza i discepoli di Cristo. Una concordia non “contro”, non in
opposizione a nemici esterni, ma frutto di una comune conversione al
Signore della pace e dell’unità. I cristiani non perseguono l’unità
perché conviene loro così da essere molto più numerosi, più forti in
modo da contare maggiormente tra i potenti di questo mondo: la
perseguono perché è la precisa volontà di Gesù stesso, secondo i Vangeli
l’ultimo precetto da lui affidato ai suoi discepoli.
È facile
immaginare che questo incontro avrà un peso ragguardevole anche sui
lavori del prossimo sinodo panortodosso: non perché foriero di
qualsivoglia ingerenza del vescovo di Roma nelle questioni interne al
cristianesimo d’oriente, ma perché capace di favorire un clima di
dialogo e di reciproca comprensione anche all’interno della stessa
ortodossia. Non a caso, il primo a rallegrarsi di questo annuncio è
stato proprio il patriarca ecumenico Bartholomeos. La schietta
cordialità di rapporti da subito instauratasi tra Francesco e
Bartholomeos — il primus inter pares dell’ortodossia — potrà ora
caratterizzare anche le relazioni con il primate della chiesa ortodossa
con il maggior numero di fedeli. Una volta che due sguardi si incrociano
e due cuori si parlano, infatti, è difficile che il gelo e la distanza
tornino a far sentire la loro morsa.
Che poi questo incontro
avvenga a Cuba — isola un tempo simbolo della guerra fredda che stava
per trasformarsi in conflitto nucleare, se non fosse stato per l’audace e
profetico intervento di un altro papa, Giovanni XXIII — là dove pochi
mesi or sono, con il contributo decisivo di papa Francesco, è caduto un
altro muro simbolico, è uno di quei segni dei tempi che è doveroso
cogliere: come sarebbe stato possibile proseguire nel diniego di un
abbraccio tra fratelli nella stessa fede quando persino agguerriti
nemici storici decidono di riprendere a parlarsi? Lì, nell’aeroporto di
quell’isola, si manifesterà l’efficacia della convinzione di papa
Francesco, che possiamo definire santamente testarda: tra fratelli
cristiani non si può non incontrarsi. Memore delle parole di Gesù — “Se
uno ti chiede di fare un miglio, tu fanne con lui due” (Mt 5,41) —
Francesco non ha chiesto che il patriarca si muovesse verso di lui a
Roma — come hanno già fatto tutti gli altri patriarchi — non ha chiesto
di andare in Russia, suscitando magari la sensazione di trionfo
sull’antico nemico sovietico scomparso, ma ha detto: dove il patriarca
vuole, quando vuole, come vuole. Un’autentica obbedienza al Vangelo e
nient’altro.