Repubblica 7.2.16
Secoli di teologia e mosse politiche per ricomporre il grande scisma
Dalla Bolla d’Unione del 1439 agli appelli per la difesa “unita” della cristianità di fronte all’avanzata dell’Islam
di Silvia Ronchey
LA
ricomposizione dello scisma tra le chiese ha nella storia un concreto
precedente: la Bolla d’Unione che nel 1439, al concilio di
Ferrara-Firenze, fu letta da Bessarione, allora delegato bizantino, e
dal cardinale Cesarini, rappresentante di papa Eugenio IV. Dopo secoli
di tentativi, sembrava abolito quel “colpo di forbice” (“scisma”, dal
greco schìzo, “tagliare in due”) che aveva diviso la cristianità nel
1054, al tempo del cardinale di Silvacandida, legato di papa Leone IX, e
di Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli. La motivazione della
reciproca scomunica tra papa e patriarca era politica. Silvacandida
reiterava l’antica pretesa del primato petrino, rivendicando la
supremazia del vescovo di una chiesa, quella di Roma, che si era fatta
stato. Cerulario voleva imporsi sul proprio stesso imperatore, vero capo
della chiesa in uno stato, quello bizantino, in cui il clero era stato
estromesso dal potere secolare.
Non erano meno politici gli altri
assunti dogmatici dello scisma: a parte il celibato dei preti o la
questione delle azzime, al centro era, e tutt’oggi è, la questione del
Filioque.
Concili e concili, nell’era delle dispute trinitarie,
avevano discusso sottilmente la processione dello Spirito Santo, per
accordarsi alla fine che procedeva dal Padre attraverso il Figlio (per
Filium). La bizzarra pretesa, emersa nella lontana e selvatica Spagna
dei secoli bui, che il divino Pneuma procedesse dal Padre “e dal Figlio”
( Filioque, appunto) non era una reale alternativa alla conclusione dei
grandi padri conciliari. Il Filioque cattolico era un’interpolazione
incolta che non si poteva neanche includere tra le tante definizioni
erronee della teologia trinitaria. Ma quella svista, che stravolgeva il
credo niceno-costantinopolitano, era stata difesa per i loro buoni
motivi dai papi del tempo di Carlo Magno, che aveva imposto un suo
piccolo “sacro romano impero” rivale di quello fino ad allora egemone,
Bisanzio.
Su questa forzatura il papato aveva prosperato e
rafforzato la sua influenza sull’Europa. L’assunzione del Filioque a
bandiera dello scisma era dunque teologicamente pretestuosa quanto
eminentemente realpolitica.
Altrettanto realista, in un tempo di
incalzante avanzata islamica, era stata la Bolla d’Unione di Firenze. La
contropartita del trasformismo dogmatico di Bessarione era la grande
spedizione militare delle potenze europee per evitare che Costantinopoli
cadesse in mano ai turchi, effetti-vamente organizzata da Roma ma
fallita a Varna nel 1444 per una di quelle variabili caotiche di cui è
fatta la storia. Senza il tradimento di alcuni mercanti genovesi
l’Unione di Firenze avrebbe forse retto, il mondo cristiano non sarebbe
rimasto scisso. Ma la storia non si fa con i “se”. Dopo la carneficina
di Varna l’Unione fu vista in Occidente come una maledizione. In Oriente
era stata già denunciata, non solo dal clero costantinopolitano ma
anche e soprattutto dalla rampante chiesa russa.
Isidoro di Kiev,
che insieme a Bessarione l’aveva concertata, fu rinchiuso nella fortezza
del Gran Principe di Mosca. Non si sa come riuscì a fuggirne, ma lo
fece e raggiunse Roma, dove divenne “cardinale orientale” della curia.
Ancora alla vigilia della caduta di Costantinopoli celebrò a Santa Sofia
una grande messa “a chiese unite”. Poi combattè sugli spalti, fu
sconfitto, si salvò e scrisse al papa che il demonio islamico puntava
all’Europa e “minacciava di entrare a San Pietro”. Era un’esagerazione
ma va detto che la caduta di Costantinopoli del 1453 ebbe sul mondo un
effetto traumatico paragonabile a quello della caduta delle Torri
Gemelle: insinuò un terrore dell’islam e un’islamofobia che solo pochi
illuminati come Nicola Cusano o il papa umanista Pio II cercarono di
attenuare. Con la Seconda Roma ampiamente islamizzata, il primato della
cristianità orientale passò alla Terza Roma, Mosca.
Le nozze tra
Ivan III e Zoe Paleologìna trapiantarono in Russia la successione
dinastica dei “cesari”, saldandola ulteriormente all’ortodossia. La
dottrina teologico- autocratica della Terza Roma zarista, sostenuta da
Ivan il Terribile, si perpetuerà fino all’impero comunista. Nell’era
moderna non sarà più la chiesa greca, languente sotto la turcocrazia, ma
quella russa, legata a uno stato forte, il vero ostacolo al primato dei
papi. Terza sponda nel duello tra impero ottomano e potenze europee,
Mosca non revocherà mai la chiusura all’Unione manifestata fin
dall’inizio dal suo clero.
Fin dall’incontro di Gerusalemme con il
patriarca di Costantinopoli Bartolomeo nel maggio 2014, Bergoglio ha
annunciato una celebrazione congiunta tra cattolici e ortodossi del
concilio di Nicea del 325, che diciassette secoli fa espresse la
formulazione originaria del credo. Ultimo di un crescendo di messaggi
alla chiesa russa, preliminare al concilio panortodosso di giugno, il
gesto di apertura al patriarca Kyril appare, nella strategia ecumenica
di Francesco, un aiuto non solo al dialogo tra ortodossi e cattolici ma
anche a quello interno tra ortodossi, condizionato dalla loro complessa
storia.
Oggi che a porsi come difensore della cristianità nel
mondo islamico in fiamme è di nuovo, come secoli fa, uno “zar”’, la
mossa di Francesco appare di nuovo un richiamo alla Realpolitik: la
migliore arma che la chiesa ha saputo usare nella storia quando ha
guardato non alle questioni interne, ma ai grandi rivolgimenti del
globo.