Repubblica 6.2.16
L’indulgenza dell’occidente
di Bernardo Valli
CINQUE
anni fa piazza Tahrir, nel cuore del Cairo, a due passi dal Nilo, si
riempiva di migliaia di egiziani inneggianti alla libertà e alla
democrazia. Assistendo quel giorno di fine gennaio alla manifestazione
improvvisa, impetuosa ma non violenta, in cui non risuonavano i soliti
richiami religiosi, non mi sfiorò neppure l’idea che in diciotto giorni
quella folla disarmata avrebbe scalzato dal potere Hosni Mubarak,
presidente da trent’anni.
EQUANDO questo accadde, non fui il solo a
sorprendermi del ruolo decisivo svolto dalla quasi onnipotente società
militare. Sia pur riluttante essa sembrava aver interrotto la tradizione
che riservava ai suoi rappresentanti sulle sponde del Nilo il posto di
capo dello Stato. Dalla proclamazione della Repubblica, nel 1952, il
rais era sempre stato un uomo in divisa: Naguib, Nasser, Sadat, Mubarak.
Ed ecco che la società militare rinunciava alla vocazione bonapartista,
coltivata dall’epoca ottomana. E lasciava al suffragio universale il
democratico diritto di scegliere il primo cittadino della Repubblica.
In
realtà era una concessione temporanea. Era un abbaglio credere che
l’elezione dell’islamista Mohammed Morsi, oggi in galera, potesse essere
rispettata fino alla legittima scadenza. I generali hanno lasciato alle
avanguardie democratiche il tempo di sognare la vittoria e ai Fratelli
musulmani, più popolari, di appropriarsene trionfando alle elezioni. E
di dimostrare poi, molto presto, la loro incapacità a governare. Nei
cinque anni ci sono stati referendum caotici, due parlamenti eletti, due
presidenti e migliaia di morti. È stata una “ricreazione”, ricca di
speranze, illusioni, inganni e sangue, alla quale la società militare ha
messo fine con la forza. Ha riportato più che l’ordine la disciplina,
uccidendo gli avversari e riempiendo le prigioni, e riassumendo tutti i
poteri in realtà mai abbandonati.
I cicli rivoluzionari sono
lunghi e imprevedibili. Le restaurazioni non riescono sempre a spegnere
del tutto i fermenti della rivolta originaria. I quali possono
riemergere a distanza. Ma per ora la saga dei generali ha ripreso al
Cairo. Continua il racconto dei rais in uniforme. Il sessantenne
Abdul-Fattah al-Sisi, autentico prodotto della società militare, è stato
il regista dei cinque anni iniziati in piazza Tahrir. Non li ha sempre
dominati, ha seguito gli avvenimenti con l’attenzione di una casta di
ufficiali che insieme al nobile compito di difendere i confini della
nazione, si riserva anche l’incombenza meno popolare ma più redditizia
di vegliare all’ordine interno. Ed è quest’ultima missione che
soprattutto l’impegna, attraverso un’attività spesso di intelligence. In
cui è compresa l’azione psicologica. Quest’ultima favorita dal fatto
che le forze armate, non particolarmente distintesi nei conflitti con
Israele, sono invece versate a varie attività commerciali e industriali:
pozzi di petrolio, alberghi, apparati turistici, tenute agricole,
ospedali. Sono insomma proprietarie di larga parte delle attività
economiche. E quindi sono dispensatrici di occupazioni a tutti i
livelli.
Il presidente Sisi ha frequentato accademie in Arabia
Saudita e negli Stati Uniti. Dove ha avuto la possibilità di fare un
confronto tra una società occidentale liberale e la sua società
musulmana. Questa esperienza non ha relativizzato la sua fede
nell’Islam. Al contrario l’avrebbe rafforzata. Egli è un musulmano
devoto, le donne della sua famiglia portano il foulard islamico, ma è
anche un militare che non ha tollerato la concorrenza dei Fratelli
Musulmani e la loro goffa inesperienza. Ha salutato l’elezione di Morsi
ma ben presto l’ha messo in disparte, come un semplice politicante,
intrigante e incapace. Pochi mesi dopo, repressi i Fratelli musulmani, e
dichiaratili fuori legge, si è fatto eleggere alla presidenza con una
valanga di voti in larga parte probabilmente autentici, poiché incarnava
l’esercito e quindi l’ordine di cui il-Paese sentiva il bisogno. Il
presidente Sisi è anche un moralista rigido per quanto riguarda i
costumi della società. Quando in piazza Tahrir fu controllata
all’improvviso la verginità delle donne che la frequentavano, fu lui a
spiegare come l’iniziativa volesse garantire l’innocenza dei militari
accusati di stupro. Gli oppositori e i gruppi interessati ai diritti
dell’uomo stimano a quarantamila i detenuti nelle carceri egiziane. E
denunciano torture sistematiche. Segnalano inoltre un importante numero
di persone scomparse.
Prelevate dalla polizia senza alcun
controllo giudiziario. Alcune ricompaiono dopo avere subito evidenti
violenze. Le perquisizioni che appaiono arbitrarie, compiute da gruppi
tollerati ma senza alcuna impronta ufficiale, nelle società editoriali,
nei circoli culturali, negli ambienti artistici mobilitano gli avvocati
che hanno tuttavia un’azione molto limitata. I metodi sbrigativi,
giustificati con la sicurezza, non investono soltanto gli ambienti
sospetti di salafismo radicale o di jihadismo ma anche liberali, ancora
legati allo spirito di piazza Tahrir.
L’Egitto usufruisce di una
vasta indulgenza: è alleato scomodo ed essenziale. Se il regime militare
risultasse seriamente minacciato dai salafisti radicali e dai jihadisti
l’intera regione ne risentirebbe. E nel caso di un probabile intervento
in Libia, per snidare lo Stato islamico che si è installato lungo la
costa mediterranea, l’Egitto sarebbe una base indispensabile. La
necessità e la morale non vanno d’accordo.