La Stampa 6.2.16
Quella prigione segreta dentro Il Cairo
Il racconto di un amico egiziano: “Così hanno ammazzato Giulio”
“È
successo anche a me, mi hanno portato in una cella e torturato con
elettrodi Le ferite sul suo corpo sono come le mie”. Oggi la salma in
Italia. Due arresti
di Francesca Paci
«Giulio è
stato ucciso così»: a raccontare cosa potrebbe essere avvenuto
all’italiano Regeni è uno dei suoi amici egiziani, originario di El
Fayoun. Chiede l’anonimato, ci parla tradendo evidente tensione. Ci dice
quanto è avvenuto a lui stesso per descrivere cosa è «probabilmente
successo anche a Giulio»: «Sono venuti a prendermi a casa una sera verso
le 19, hanno messo tutto sottosopra, hanno preso l’hard disk del pc, mi
hanno bendato e legato le mani dietro la schiena e poi mi hanno
caricato in macchina, un’auto grande, grigia. Non potevo guardare fuori
dal finestrino ma ho riconosciuto la strada, stavamo andando alla
borgata “6 Ottobre” e l’ho capito subito perché ho delle persone care
che abitavano laggiù.
E so bene dove si trova la “prigione” in cui
la “sicurezza dello stato” interroga e tortura la gente. Temo che sia
lo stesso posto in cui, passando per qualche commissariato di Giza, è
stato portato anche il mio amico, vostro connazionale, Giulio con esiti
penosamente diversi dal mio, dai segni lasciati sul suo corpo riconosco
una firma che mi è tristemente nota».
Il ragazzo che parla ha
l’età di Giulio Regeni, ed è stato arrestato più volte, l’ultima pochi
mesi fa. Nella cerchia di amici e conoscenti Omar non si rassegna per
non aver iniziato subito la campagna sui social alla scomparsa di Giulio
(«Lo avremmo salvato come il comico Islam Gewish, invece tenendo il
profilo basso abbiamo perso tempo, Giulio è morto poco prima che lo
ritrovassero, il sangue era ancora fresco»), ma è il racconto di questo
giovane medico di Fayoun a gettare la luce più sinistra sulla tragica
vicenda.
Mentre i coniugi Regeni sono prossimi a tornare in Italia
dove oggi arriverà la salma, l’amico di Giulio ci spiega cosa succede
dentro quelle caserme: «I primi due giorni mi hanno tenuto in un bagno,
per terra, un sandwich al giorno e acqua. Non mi picchiavano. Dicevano
che sapevano dei miei contatti e io ripetevo che non sapevo nulla.
Minacciavano di ammazzarmi, di violentare mia madre e le mie sorelle, la
prima tortura è toglierti la dignità. Poi mi hanno portato in una cella
sotterranea dove sono rimasto al buio per altri 8 giorni e lì si sono
tolti i guanti. Hanno usato l’elettricità perché sotto gli 80 volt
lascia meno segni e giacché io avevo contatti con i media sapevano che
avrebbero dovuto ammazzarmi perché una volta libero non li mostrassi.
Quando usano il taglierino vuole dire che hanno deciso che non esci vivo
da lì. Le scariche duravano alcuni minuti, dopo perdevo i sensi.
Ricordo che dormivo, sonni vuoti, non pensavo a nulla ma sebbene non sia
credente per la prima volta mi sono ritrovato a pregare. Ero certo di
morire. Le scosse elettriche me le mettevano sulla schiena, nella parte
bassa, vicino ai reni, e sulle ginocchia: sentivo il corpo come
“shakerato”, sarà stato per isteria ma ridevo e poi svenivo. Un giorno
mi hanno bendato di nuovo e sotto casa mi hanno detto di scendere e non
voltarmi indietro a guardarli o sarebbero tornati e non avrei più potuto
parlare. Ho aspettato, sono risalito. Subito dopo sono andato al
supermercato, avevo bisogno di toccare, letteralmente toccare, il
formaggio, i succhi di frutta, le scatolette di fagioli, non credevo che
avrei potuto farlo mai più». Tiene gli occhi bassi, parla mangiandosi
le parole e le unghie: «Giulio non ha potuto farlo più. Io sono egiziano
ok, ma lui no, non era nemmeno la sua causa, è morto per noi».
Poche
ore prima la capitale egiziana aveva dato l’ultimo saluto al
ricercatore italiano scomparso il 25 gennaio in un clima di paura
diffusa, palpabile. Gli amici di Giulio sono sfingi, gli attivisti,
anche i più loquaci, stanno in silenzio, i loro cellulari squillano a
vuoto. I compagni del corso all’American University, quasi tutti
stranieri sui 25 anni, sono stretti intorno alla migliore amica di
Giulio, Noura Wahby, velo bianco sul capo, molto più magra delle foto in
compagnia di lui che ha diffuso sui social quando ha dato l’allarme.
Come mamma Regeni, piange senza freni e abbraccia a lungo il corpo del
ragazzo coperto da un lenzuolo e da fiori rossi e bianchi: «Amava questa
città, amava noi».
Sono stati i suoi studi sulle rivendicazioni
operaie a ridurlo in quel modo, tagli di lama sotto gli occhi, le
orecchie e il naso, bruciature e segni di elettrodi sul corpo? Amy
Austin Holmes, docente all’American University Cairo, dove da settembre
Giulio era di casa, ammette: «Insegno dal 2008 e devo ammettere che non
mai stato cosi difficile e pericoloso condurre ricerche qui come ora.
Conosco numerosi studenti che sono stati arrestati, detenuti o impediti
dall’entrare in Egitto e molti di loro lavorano agli stessi temi di
Giulio, il lavoro e la politica in Egitto». Eppure, ragiona in un caffè
di Zamalek un altro amico, le domande sono più delle risposte: «Giulio
sapeva quello che faceva, al suo compleanno gli abbiamo regalato una
torta con sopra il disegno di quel Marx che apprezzava tanto ma lui non
ha mai condiviso la foto sui social, conosceva la sicurezza egiziana,
non si è mai messo a rischio».
Qualcuno fra gli amici azzarda
delle ipotesi: l’hanno preso per caso, o un regolamento di conti. Oppure
è un regolamento di conti interno, la frangia dei servizi che vuole
fare fuori Sisi e che spera di farlo entro pochi mesi con l’aiuto di una
parte dell’esercito ha tirato fuori il cadavere il giorno in cui il
Presidente era a colloquio con gli imprenditori italiani. Intanto ci
sono stati due arresti. Fonti della polizia fanno filtrare che siano due
«criminali» comuni. E cominciano a circolare voci su una presunta
omosessualità di Giulio lasciando intendere che l’omicidio potrebbe aver
un movente sessuale. Ma non c’è alcuna conferma indipendente. Quello
che sappiamo è che Giulio Regeni aveva una ragazza in Ucraina e che era
andato a Kiev a trovarla da poco. E uno degli ultimi sms prima di
sparire era stato inviato a lei.