sabato 6 febbraio 2016

Repubblica 6.2.16
Katainen: “Flessibilità e investimenti l’Italia ha già ottenuto più degli altri il vero traguardo è risanare i conti”
Il vice presidente della Commissione responsabile del piano Juncker: “I progetti già finanziati nel vostro Paese produrranno tremila posti di lavoro”
intervista di Andrea Bonanni

«La flessibilità non è per sempre. Si tratta di una deviazione temporanea lungo il percorso di risanamento dei conti pubblici. Ma ricordiamoci che, alla fine, l’obiettivo del pareggio strutturale di bilancio deve essere raggiunto nei tempi previsti». Jyrki Katainen, già primo ministro finlandese, è il vice-presidente della Commissione europea responsabile per investimenti, lavoro e competitività. È lui che deve mettere in pratica il famigerato “piano Juncker”: il Fondo europeo per gli investimenti dotato di 350 miliardi che dovrebbe stimolare la crescita economica in Europa e che molti, in Italia, considerano un fallimento. Quando era alla guida della Finlandia, Katainen si era guadagnato la fama di falco del rigore. Ora, nel suo ufficio al decimo piano della Commissione, usa toni più moderati e si attiene alle posizioni ufficiali dell’esecutivo comunitario. Ma si capisce che, al fondo, non ha cambiato idea.
Vicepresidente, il governo italiano dice che la flessibilità è un diritto, non una concessione che può essere data o revocata a discrezione...
«La flessibilità, in termini generali, è uno scostamento temporaneo dagli obiettivi di bilancio che viene accordato per migliorare le capacità di un Paese a risanare la propria posizione. Deve servire a correggere una situazione specifica. Non è una deroga che si possa portare avanti indefinitamente, nè una autorizzazione a non rispettare l’obiettivo del pareggio strutturale di bilancio, che vale per tutti, e che deve essere raggiunto nei tempi previsti».
E nel caso italiano?
«L’Italia è il solo Paese dell’Ue che beneficia della clausola di stabilità. Ha ottenuto un margine di scostamento per sostenere le riforme, molto positive, del governo. Poi un ulteriore margine per poter fare investimenti produttivi. Poi ha chiesto un ulteriore scostamento per far fronte all’emergenza rifugiati. E ancora un altro per le misure anti-terrorismo e per la politica culturale. Siamo di fronte ad una domanda significativa di flessibilità, che non ha riscontro negli altri Paesi. Ora dovremo guardare con grande attenzione a queste richieste ».
Quali sono le sue perplessità?
«In Italia il debito pubblico è molto alto. Quando i cittadini italiani pagano le tasse, gran parte dei loro soldi va per rimborsare gli interessi su questo debito. Abbiamo detto: proviamo a rilassare la disciplina di bilancio sul debito per favorire gli investimenti e i consumi. Ma se la situazione non si corregge, allora vuol dire che c’è qualcosa di sbagliato. Se si riducesse il debito, ci sarebbero più soldi per i contribuenti, o per finanziare l’educazione e la ricerca. E si devono fare le riforme strutturali per rilanciare l’economia. Se siamo in una unione economica e monetaria, tutti devono sentirsi responsabili anche per gli altri europei: e se tutti rispettassero gli obiettivi di bilancio, la nostra economia europea sarebbe molto più forte».
Veniamo al piano europeo per gli investimenti. Molti in Italia lo considerano un fallimento. Hanno ragione?
«L’Italia e la Francia sono i due Paesi che più utilizzano i crediti messi a disposizione dal Fondo per gli investimenti strategici. In sei mesi, da quando siamo operativi, l’Italia ha già lanciato con il Fondo sette grandi progetti che vanno dall’industria alle ferrovie, dalle autostrade alla ricerca. In totale, con un finanziamento iniziale di 1,3 miliardi, si dovrebbero mobilitare 4,3 miliardi di investimenti e creare oltre tremila nuovi posti di lavoro. Inoltre, sempre attraverso il Fondo, si sono fatti accordi con le banche italiane per 3,5 miliardi di finanziamenti che dovrebbero beneficiare quindicimila piccole e medie imprese. Dunque in sei mesi abbiamo mobilitato finanziamenti in Italia per 7,8 miliardi di euro su un totale europeo che finora ha raggiunto i 50 miliardi».
Eppure la Ue critica l’Italia per la sua mancanza di competitività...
«L’Italia è un grande mercato, con grandi imprese di dimensione globale e una buona domanda. Ma è anche vero che deve migliorare la sua competitività. Lo dimostra il fatto che la crescita economica in Italia è più bassa della media europea. Certe strutture non sono funzionali ».
Quali?
«Per esempio il sistema giudiziario: troppo lento. Su questo il governo italiano ha fatto molto e sta ancora lavorando. E’ anche molto benvenuta la riforma della Pubblica amministrazione: ce n’era davvero bisogno. In generale il governo indica buone riforme. Ma il problema è la loro effettiva messa in opera».
Quali sono le principali difficoltà che incontrate?
«La gente non ci conosce ancora abbastanza. Gli industriali, le banche, non sanno che ci possono contattare direttamente. Anche le Regioni sono un attore importante. In Francia e in Spagna sono molto attive nel lanciare progetti in partnership con i privati. In Italia invece non ci sono ancora grossi progetti regionali. Vorrei incontrare i dirigenti delle regioni italiane per spiegare loro quali sono le opportunità che offriamo».
Ma non le sembra che 350 miliardi per tutta la Ue siano pochi?
«Dalla crisi del 2008 l’Europa soffre di un calo negli investimenti di circa trecento miliardi all’anno. Con i nostri 350 miliardi in tre anni, noi copriamo circa un terzo di questo gap. Il resto deve essere coperto da riforme strutturali che liberino risorse per lo sviluppo. In molti casi, a frenare la ripresa degli investimenti sono problemi specifici nazionali, sui quali noi non abbiamo una competenza diretta».
Pensate di aumentare la disponibilità del Fondo?
«Il piano ha una durata di tre anni e non pensiamo ad aumentare la sua capacità. Ma dopo i primi tre anni potrà essere prorogato: tutto dipenderà dai risultati che saremo riusciti a produrre».