Repubblica 5.2.16
Gli squadroni della morte
di Carlo Bonini
Improbabile che gli autori appartengano alla criminalità comune o al terrorismo islamico
Il 25 si parlò dell’arresto di un giovane straniero.
I sospetti su 007 e squadroni della morte
NON
esiste in realtà alcun mistero su come sia stato assassinato Giulio
Regeni. La cortina di bugie con cui il ministero dell’Interno e le
autorità di polizia egiziane tentano per 24 ore di dissimulare la
verità, per occultare o comunque confondere il movente dell’omicidio,
non regge.
NON regge alla prova delle prime, inconfutabili
circostanze di fatto che è possibile fissare in questa storia.
Interpellate da “Repubblica”, tre diverse e qualificate fonti
(diplomatiche, investigative e di intelligence) descrivono le condizioni
del cadavere del ragazzo (trasferito ieri sera nella morgue
dell’Umberto I, l’ospedale italiano al Cairo) con un medesimo aggettivo:
«Indicibili». Evidenti i segni di tortura sul corpo. Ustioni di
sigaretta, la mutilazione di un orecchio, incisioni da taglio, ecchimosi
profonde e diffuse. Esattamente come riferito nell’immediatezza del
ritrovamento del cadavere dai magistrati della Procura di Giza, Hosam
Nassar e Ahmed Nagi, frettolosamente e goffamente smentiti dal generale
Khaled Shalabi, capo del dipartimento di indagini di polizia
giudiziaria, e dal portavoce del ministero dell’Interno, nel tentativo
di accreditare un’inverosimile confusione tra le tracce lasciate da una
morte tanto “lenta” quanto atroce con quelle di un incidente stradale.
C’è
di più. Giulio Regeni — proseguono le fonti di “Repubblica” — non solo è
stato vittima di uno scempio, ma, come apparso evidente a chi ha potuto
constatare lo stato di decomposizione del cadavere, è morto non molto
tempo dopo essere stato sequestrato (il 25 gennaio non lontano da piazza
Tahir). «Diversi giorni prima del 3 febbraio», quando il corpo è stato
ritrovato sul ciglio della strada che collega il Cairo ad Alessandria.
Chi ha ucciso Giulio, dunque, ha avuto ad un certo punto fretta di
liberarsi del cadavere. E lo ha fatto con una goffa messa in scena.
Abbandonandolo nudo dalla cintola in giù, per poter accreditare prima un
«delitto a sfondo sessuale» (questo il tenore delle prime informazioni
trasmesse dalla polizia egiziana alle nostre autorità nella notte di
mercoledì), quindi la pista della criminalità comune e, infine, la
storia di cartapesta dell’incidente stradale.
L’ULTIMA CORRISPONDENZA
Sapere
come è stato ucciso Giulio Regeni non equivale a indovinare chi lo ha
ucciso. Ma certo offre un indizio robusto che consente di escludere con
ragionevole certezza sia la matrice terroristica (la morte rituale
islamista dell’infedele non prevede cadaveri abbandonati
clandestinamente e, soprattutto, ai boia islamisti l’osservanza coranica
vieta il fumo e lo strumento di tortura dei mozziconi di sigaretta) che
quella della criminalità comune, nelle cui leggi universali è scritto
che ci si manifesti per avere un riscatto del proprio ostaggio.
E
dunque, a meno di non voler accreditare il gesto di uno psicopatico di
cui non c’è traccia nella vita e nelle relazioni intrecciate da Giulio
al Cairo, resta una sola altra possibile mano. Quella mossa dal movente
“politico”. Che trova un primo, significativo riscontro. Nell’ultima
mail inviata il 9 gennaio al quotidiano “il manifesto”, con cui aveva
cominciato a collaborare con pseudonimo scrivendo un articolo a doppia
firma pubblicato nel dicembre scorso, Giulio si raccomandava e
confessava la sua paura. «Se decidete di mettere il mio nuovo articolo,
mettetelo con lo pseudonimo, perché sono preoccupato». Preoccupato,
evidentemente, della pressione che aveva cominciato ad avvertire sui
contatti egiziani con cui lavorava alla sua tesi in economia. Ma anche
della pressione sull’ambiente dei professori e dei ricercatori
dell’American University (che frequentava) i cui cellulari, da ieri,
sono rimasti significativamente muti alle chiamate dalla redazione del
“manifesto”.
POLIZIA, SERVIZI E PARAMILITARI
La paura
confessata per mail da Giulio, non appare insomma neutra. Né lo sono il
luogo e la data della sua scomparsa (il 25 gennaio, quinto anniversario
della rivolta di piazza Tahir), in coincidenza con una serie di retate
condotte dal regime di Al Sisi sugli oppositori. Il che porterebbe la
ricerca degli assassini dritta dritta agli apparati di sicurezza del
Paese. La Polizia e il famigerato Mukhabarat, il Servizio segreto. Non
fosse altro perché almeno due testimonianze raccolte al Cairo
riferirebbero di un giovane occidentale arrestato nel centro della città
proprio quel 25 gennaio di cui non c’è traccia nelle carceri cittadine.
Si
obietta che se davvero Giulio fosse stato eliminato da Polizia o
Servizi, nessuno ne avrebbe fatto ritrovare il corpo. A maggior ragione
in quelle condizioni. Ma, a ben vedere, l’argomento non è in grado di
smontare l’ipotesi della mano e del movente politici. Come spiega una
nostra qualificata fonte di intelligence, «In Egitto, la situazione
degli apparati di sicurezza è, diciamo così, fluida». Non è da
escludere, insomma, che Giulio sia finito nelle mani di qualche
squadrone della morte o, comunque, di qualche unità paramilitare o di
polizia che, probabilmente, non ha neppure capito chi aveva fermato e
nelle cui mani non ha resistito alle torture. Un fatto è certo. Con
l’arrivo oggi al Cairo di un team di investigatori italiani (militari
del Ros dei carabinieri e dello Sco della Polizia) il tempo per gli
egiziani di trovare dei “colpevoli” plausibili per l’omicidio di Giulio
si accorcia. E non sarà facile. A maggior ragione se i suoi assassini
dovessero avere argomenti “convincenti” con il regime di Al Sisi per non
essere consegnati alla giustizia italiana.rte