Repubblica 5.2.16
Qui Stalingrado: escono i taccuini dal fronte di Grossman
I diari di Vasilij il più grande reporter di guerra di tutti i tempi
Si
offrì volontario subito dopo l’aggressione della Germania e fu
scartato: era miope, goffo e impacciato Ma poi si ritrovò in prima linea
come cronista
di Bernardo Valli
I lettori di
“Vita e destino” trovano nei taccuini di Vasilij Grossman le radici del
grande romanzo non ancora scritto. E neppure immaginato. Ne sentono gli
intimi palpiti, come quelli di un embrione umano. Battiti quieti,
regolari, agitati, drammatici che annunciano le pagine dalle quali
emergerà l’imponente racconto della sfida tra nazismo e stalinismo,
durante la seconda guerra mondiale. Il corrispondente di guerra non è
una professione, è un’attività
che il reporter di mestiere oppure
occasionale, di solito uno scrittore, svolge in determinate situazioni
se ha le qualità quasi indispensabili: un fisico robusto, la capacità di
lavorare in luoghi scomodi, non sempre sicuri, e la curiosità, questa
sì indispensabile, del cronista. A eccezione di quest’ultima, la
curiosità, Grossman non aveva in apparenza nulla di quel che doveva
distinguere un romanziere incaricato di raccontare la vita reale di un
esercito e le sue battaglie.
Aveva trentacinque anni quando nel
giugno del 1941 la Germania di Hitler attaccò di sorpresa la Russia di
Stalin, con la quale era legata dal patto di non aggressione
Molotov-Ribbentrop, concluso due anni prima. Era un ingegnere chimico
con un’esperienza nelle miniere dell’Ucraina orientale, nel Donbass, a
Stalino oggi Doneck. Poi aveva scoperto la vocazione letteraria ed era
stato ammesso nell’Unione degli scrittori, privilegiato club nel regime
sovietico.
Michail Bulgakov aveva apprezzato il suo racconto Nella
città di Berdicev, ma Grossman aveva soprattutto attirato la benevola
attenzione di Maksim Gor’kij, che non si era troppo soffermato sullo
scarso interesse del giovane autore per il realismo socialista di cui
lui, Gor’kij, era il custode. Il laureato in chimica convertito alla
letteratura amava Cechov e Tolstoj (negli anni al fronte avrà spesso con
sé un solo libro,
Guerra e Pace), e non era iscritto al partito
sebbene pensasse che soltanto il comunismo sovietico fosse in grado di
affrontare il nazismo e l’antisemitismo.
Subito dopo l’aggressione
tedesca, Grossman si offrì volontario. Ma fu scartato. Era sovrappeso,
miope, impacciato nei movimenti, camminava con una canna da passeggio.
Non aveva nulla del soldato e aveva l’aspetto tipico dell’intellettuale
ebreo, cosi come appariva nelle caricature dell’epoca. Lo descrisse così
un altro grande giornalista russo, con le sue stesse origini e con
l’esperienza della guerra di Spagna. Il’ja Erenburg considerava Grossman
un amico leale, avevano reagito insieme all’antisemitismo sovietico dal
quale erano stati personalmente feriti, ma non si impediva di
sottolineare il suo carattere maldestro e ingenuo. Capitava a Grossman
di dire di punto in bianco a un collega: «Perché ti sei messo a scrivere
così male?». Oppure a una donna: «Ma sei invecchiata parecchio negli
ultimi mesi».
Come la fragile figura fisica nascondeva la forza
del carattere, il coraggio e l’interesse per la vita militare presto
evidenti appena messi alla prova, così la mancanza di tatto nei rapporti
formali non gli ha poi impedito di conquistare la simpatia dei
combattenti, fino a diventare un giornalista popolare sui vari fronti in
cui si fermava a lungo, condividendo disagi e pericoli dei semplici
soldati. La curiosità lo induceva ad ascoltare, sapeva tacere, e
intervenire soltanto con qualche interrogativo. Aveva quel che distingue
un prete nel confessionale e un buon cronista.
Il generale David
Ortenberg, direttore di Krasnaja zvezda, il quotidiano dell’Armata
rossa, esitò prima di mandare al fronte quello scrittore tanto malandato
e così poco tagliato per la vita militare. Ma Ortenberg, pur non
trovandolo simpatico, puntò alla fine sul suo talento e il suo
entusiasmo, capì che queste virtù erano essenziali e avrebbero fatto
dell’intellettuale distratto un ottimo inviato in guerra. Lo affidò a
compagni più giovani ed esperti e lo mandò al fronte per Stella Rossa,
il giornale letto ogni mattina da Stalin e da milioni di russi.
All’inizio gli atteggiamenti poco marziali e la mancanza di
addestramento suscitarono forse ironia tra gli ufficiali e i soldati in
cui si imbatteva. Ma in breve tempo Grossman perse venti chili, diventò
un bravo tiratore, e, irrobustito, imparò ad affrontare fatiche e
pericoli con una disinvoltura che gli altri reporter, ancorati agli
stati maggiori, cominciarono a invidiargli. Per i giornalisti americani e
inglesi accampati a Mosca i suoi articoli dal fronte davano notizie
preziose. Per loro era in quegli anni il miglior corrispondente di
guerra. Penso lo sia stato in assoluto durante la Seconda guerra
mondiale. Quel che scriveva contribuiva a fare di Stella Rossa il
giornale più diffuso. Secondo Erenburg, Stalin aveva un forte interesse
per la letteratura ma non condivideva l’ammirazione di molti per
Grossman. Pare lo sospettasse di internazionalismo leninista, accusa
quasi equivalente a quella di trockismo. In realtà il dittatore si
sarebbe risentito del fatto che il suo nome non figurasse mai negli
articoli di quel corrispondente poco rispettoso del culto della
personalità.
Grossman cominciò a scrivere i taccuini ( Uno
scrittore in guerra, Adelphi, a cura di Antony Beevor e Luba
Vinogradova, traduzione di Valentina Parisi) il 5 agosto 1941 quando
mise piede per la prima volta nella zona di guerra. Fu assegnato al
Fronte centrale creato di gran fretta, durante la precipitosa ritirata
dell’Armata Rossa davanti alle divisioni corazzate tedesche del generale
Guderian.
Subisce il primo bombardamento aereo nella stazione di
Gomel, centro industriale nel Sud-Est della Bielorussia, non lontano
dalle frontiere russa e ucraina. E l’incursione è ancora in corso quando
lui annota le prime impressioni: «Una mucca, i sibili delle bombe,
incendi, donne... Un forte odore di acqua di colonia – da una farmacia
centrata da una bomba – sovrasta a un certo punto la puzza di bruciato,
ma solo per un istante». Descrive i colori del fumo, i tipografi che
compongono il giornale alla luce degli edifici in fiamme, un giovane
giornalista stupido che sforna luoghi comuni, frasi prese dalla
propaganda.
Con semplicità e passione, Grossman si sofferma sui
dettagli, lasciando appena trapelare l’angoscia e lo sconcerto che
crescerà in lui man mano che si rende conto dell’impreparazione
dell’Armata rossa di fronte all’aggressione tedesca.
Grossman è
tuttavia un patriota. Ai militari è proibito tenere diari personali, nel
timore che cadano in mano al nemico nel caso l’autore venga preso
prigioniero. Lui disubbidisce e annota con puntiglio, quasi
quotidianamente, anche quello che la censura non gli passerebbe. Né
perdonerebbe. Descrive il comandante di battaglione al quale i suoi
soldati gridano “rammollito” perché resta sdraiato e spaurito sull’erba
durante un attacco aereo del ne- mico. Racconta anche con ammirata
sobrietà, del tenente ferito che rifiuta di essere evacuato perché dice
di avere ancora abbastanza voce per comandare la compagnia.
È a
Stalingrado, dove gli ordinano di andare un anno dopo, nell’agosto del
‘42, che egli intensifica gli appunti sul suo taccuino. Stremato dalla
fatica e dalle emozioni prima di prendere sonno riassume quel che ha
visto nella giornata. Non si accontenta degli articoli che manda a
Stella Rossa, al suo diario riserva quel che non può essere pubblicato
sul giornale. Nelle pagine private, che tiene per sé, mette la pura
verità senza alcun ritocco.
La battaglia di Stalingrado è la sua
esperienza più intensa. E rivelatrice. Egli passa cinque mesi, fino al
gennaio ‘43, nella città che si stende sulla riva occidentale del Volga.
E il Volga sarà un filo conduttore di Vita e destino, il romanzo cui
l’autore non pensa ancora. Una ventina d’anni dopo, da poco ultimato,
quando è ancora un manoscritto, sarà subito sequestrato dai censori
sovietici. Verrà tuttavia pubblicato lo stesso, postumo, nel 1980 in
Occidente, dove erano arrivate clandestinamente una o due copie.
I
cultori di Vita e destino, troppo pochi rispetto alla grandezza
dell’opera, cercano nei taccuini le tracce del futuro romanzo. Il Volga
non è soltanto un filo conduttore di cui si serve il narratore: per lui è
soprattutto l’arteria principale della Russia che fa affluire sangue
vitale a coloro che si immolano nell’assedio. Lo sottolineano
giustamente i curatori della raccolta di scritti sparsi di Grossman. Lui
era un idealista ed era convinto che l’eroismo dimostrato dall’Armata
rossa, del quale era stato un testimone, non avrebbe condotto unicamente
a una vittoria militare decisiva per il conflitto mondiale in corso.
Pensava che avrebbe cambiato radicalmente anche la società sovietica.
Insieme al nazismo e all’antisemitismo sarebbero stati sconfitti gli
organizzatori del Gulag, l’Nkvd, i processi abusivi, persecutori,
promossi da Stalin e poi dai successori. La battaglia di Stalingrado,
con il sangue versato, avrebbe avuto l’effetto di una catarsi.
Le
note dei taccuini prendono forma in Vita e destino. Sentendosi liberi,
perché certi di essere condannati a morte, i soldati e gli ufficiali
dicono quel che vogliono. Non si curano delle spie e dei commissari
politici. Tanto che uno di questi, Krymov, in servizio a Stalingrado,
pensa di essere arrivato in un paese, in un reame, senza partito. Lui
stesso sente la libertà come nei primi giorni della rivoluzione.
Per
Grossman a Stalingrado doveva nascere la democrazia. La delusione lo
conduce al dialogo che in Vita e destino mette di fronte l’SS Liss e il
vecchio leninista Mostovskoi.
E che è una pagina chiave
dell’opera. Il tedesco Liss sostiene che i due sistemi sono due specchi
che riflettono immagini identiche. Il nazismo ha fondato il suo
totalitarismo sull’idea nazionale, il comunismo sulla nozione di classe.
Questa la differenza originaria. Ma poi l’internazionalismo comunista è
degenerato in un nazionalismo di Stato che non lo distingue troppo dal
suo avversario.
Nel dopoguerra Grossman subisce due affronti che
inaspriscono la sua avversione per il regime sovietico e che lo portano a
considerarlo nella pratica simile al nazismo. Lo feriscono la campagna
antisemita, fra il ‘49 e il ‘53, e la proibizione di raccontare lo
sterminio degli ebrei in Russia (di cui è stata vittima sua madre).
Benché molti campi nazisti siano stati liberati dall’Armata Rossa, Mosca
non vuole che si sottolinei il sacrificio degli ebrei e vuole che tutti
i morti siano russi e basta. La partecipazione di cittadini sovietici,
di varie nazionalità, al massacro nei territori occupati dai tedeschi, è
una realtà che disturba.
I giudizi di Grossman sul regime si
appesantiscono senza intaccare il patriottismo che l’aveva animato a
Stalingrado. Anche se l’eroismo russo sul Volga è stato tradito.
IL LIBRO Uno scrittore in guerra di Vasilij Grossman ( Adelphi, traduzione di Valentina Parisi pagg. 471, euro 23)