La Stampa 5.2.16
Danton contro Robespierre, processo al Novecento
Nel
suo allestimento del dramma di Büchner, Martone mette in scena il
fallimento della Rivoluzione e della grande scommessa di creare l’uomo
nuovo: un testo del 1835, ma parla anche del Secolo breve
di Giovanni De Luna
È
un processo quello che va in scena con Morte di Danton di Georg
Büchner. Sotto accusa c’è la Politica e con la Politica la Rivoluzione,
il suo atto fondativo. Sul palcoscenico si impongono Robespierre da un
lato, Danton dall’altro. Il primo rivendica tutta la grandezza della
Politica e della Rivoluzione; nella loro azione implacabile è la Virtù
che agisce, chi vi si oppone è solo un misero schiavo del Vizio, «il
Vizio è il segno di Caino dei regimi aristocratici». La Virtù deve
dominare anche attraverso il Terrore, perché «la Rivoluzione è come le
figlie di Pelia: fa a pezzi l’umanità per ringiovanirla».
Il bene
contro il male: quelli che tradiscono la Rivoluzione lo fanno perché
cadono nel Vizio, è «gente che in genere viveva nelle soffitte e adesso
viaggia in carrozze e fa sconcezze con ex marchese e baronesse». Nel
disegno grandioso dell’Incorruttibile, l‘uomo può sottrarsi alla
schiavitù delle passioni, alla sua fragilità naturale, per costruire la
propria grandezza, e riplasmare la sua essenza, in una visione in cui
una rigida pedagogia autoritaria si intreccia con un disperato slancio
di speranza.
Contro Robespierre si erge Danton che sprezzantemente
lo chiama «poliziotto del cielo». «Non siamo noi che abbiamo fatto la
rivoluzione, è la rivoluzione che ci ha fatti», gli dice. La rivoluzione
non appartiene agli uomini che l’hanno avviata. È come una cieca forza
della natura che li ha ghermiti e scrollati per poi lasciarli andare
attoniti, sgomenti. Così come si è scatenata, è destinata a placarsi. E
tutto sarà come prima: «Domani sarà come oggi, e dopodomani e via di
seguito tutto come al solito». No, nessun delirio di grandezza è
permesso agli uomini: «Siamo marionette, i cui fili sono tirati da forze
sconosciute; quanto a noi, niente, non siamo niente! Solo spade con le
quali combattono gli spiriti…».
Cambiare gli uomini, cambiare la
Natura, o accettarli così come sono. Tra queste due opzioni, Il
Novecento ha scelto la prima. E, con Mario Martone che propone il testo
di Büchner, è proprio il Novecento a finire sul banco degli imputati
assieme a Robespierre. Proprio il «secolo dei totalitarismi» con la sua
ambizione prometeica, con la sua grande scommessa di creare «l’uomo
nuovo», di violentare a modificare le coordinate naturali o divine in
cui da sempre sembrava essere stato inscritto il destino dell’umanità.
La Politica, il Lavoro, lo Stato, il Partito, tutte queste maiuscole
hanno definito l’universo granitico del Novecento. E non soltanto nel
campo dell’agire politico e dell’ideologia. Il «secolo del fordismo» è
stato anche quello della generalizzazione alla totalità delle relazioni
umane dei metodi e dei valori della produzione industriale, diventati il
centro motore della vita sociale.
Tutto questo si è sbriciolato
sotto le macerie del muro di Berlino. Mario Martone sembra avere
intessuto il suo rapporto con la storia all’insegna di questa
consapevolezza. È stato il fallimento delle «magnifiche sorti e
progressive» ad avvicinarlo a Leopardi. È stato il naufragio
dell’«artificialismo politico» a fargli riscoprire ora l’Ottocento di
Büchner. Morte di Danton è del 1835, La ginestra fu scritta un anno
dopo. Appartengono entrambe al loro tempo ma ci parlano anche di oggi.
Allora
il lucido pessimismo di Leopardi sceglieva come bersagli le utopie
rassicuranti del suo secolo, la meschinità di un progresso adorato,
invocato, accettato acriticamente con tutto il suo carico di illusioni e
menzogne. E Martone ce lo ha riproposto con un film bello e coraggioso
come Il giovane favoloso e con la messa in scena, ancora più coraggiosa,
delle Operette morali. Ma era stato già così con l’altro suo film
risorgimentale, Noi credevamo: per elaborare il lutto di antiche
sconfitte non serve rimpiangere il passato, il nostro passato, quello
del Novecento. Meglio scavare alla ricerca di quali avrebbero potuto
essere le possibili alternative a quel passato e custodire gelosamente
l’invito leopardiano a distinguere, oggi, quella che è la realtà da
quella che è la rappresentazione della realtà.