Repubblica 4.2.16
Una riforma dei beni culturali che tratta il paesaggio come una “bad company”
di Salvatore Settis
C’era
una volta la Costituzione, con il perentorio articolo 9: «La Repubblica
tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».
Quando lo approvò la Costituente, su proposta di Concetto Marchesi
(Pci) e di un giovane democristiano, Aldo Moro, quelle parole erano
chiare. Erano la «costituzionalizzazione delle leggi Bottai» (Cassese),
ma anche delle relative strutture, le Soprintendenze, espressamente
menzionate in Costituente: questa l’interpretazione della Corte
Costituzionale (269/1995). E non è vero che, come vogliono interpreti
mediocri, la prima parte dell’art. 9 («La Repubblica promuove lo
sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica») parli di
“valorizzazione”, nozione giuridica introdotta decenni dopo, peraltro
«al fine di promuovere lo sviluppo della cultura» e non di far cassa,
secondo il Codice dei Beni culturali (art.6). Vanto del nostro
patrimonio è la diffusione capillare, donde la natura territoriale delle
Soprintendenze, che per la Corte «salvaguardano beni cui sono connessi
interessi primari per la vita culturale del Paese e la fruizione da
parte della collettività».
Ma il blocco delle assunzioni ha
svuotato i ruoli, il personale è invecchiato, i bilanci falcidiati da
tagli micidiali. Voluta dalla politica, la crisi della tutela viene
rinfacciata a chi l’ha subita, i funzionari del ministero. Come in una
tela di Penelope, le strutture vengono fatte e disfatte da riforme a
raffica: Veltroni (1998), Melandri (2001), Urbani (2003), Rutelli
(2007), Bondi (2009). Ma con Franceschini l’accanimento terapeutico
batte ogni record. A lui va riconosciuto il merito di aver avviato
l’assunzione di 500 funzionari (comunque meno di quanti ne andranno in
pensione nel frattempo) e di aver ottenuto qualche incremento di
bilancio (ma tra quanti decenni raggiungeremo non dico i livelli della
Francia, ma quelli della stessa Italia fino al 2008?). Ma non è un
merito fare e disfare il ministero con colpi di mano, codicilli in
Finanziaria, riforme- missile a due o tre stadi. A un’istituzione, come a
un’impresa, non giovano la precarietà, l’arbitrio del potere, le
decisioni dietro le quinte.
Quando nella legge di stabilità spuntò
sotto Natale una “normetta” che autorizza il ministro «alla
riorganizzazione, anche mediante soppressione, fusione o accorpamento,
degli uffici dirigenziali, anche di livello generale, del ministero», il
disegno era sopprimere le Soprintendenze archeologiche (e la relativa
Direzione generale), accorpandole con Belle arti e Paesaggio. Perché,
invece, non vengano accorpate le restanti direzioni generali (dieci!) è
un mysterium fidei che sfugge alla comprensione degli umani.
Contorcendosi come un’anguilla, il Superiore Ministero prima accorpa tre
tipi di Soprintendenza in un anno, poi triplica i sottosegretari in una
notte. Prima spiega che porre i soprintendenti alla «dipendenza
funzionale» dai prefetti (legge Madia) non li esautora, ora insinua che
azzerare le Soprintendenze archeologiche serve a “resistere” ai prefetti
nelle conferenze dei servizi. Prima sussurra che il silenzio-assenso
targato Madia non è poi così grave, ora sostiene che spegnere le
Soprintendenze archeologiche è «necessario e urgente per attuare il
silenzio assenso».
Vano spacciare per innovativi questi
accorpamenti vintage: la tutela guidata dai prefetti è datata 1860, ma
nel 1907 la L. 386 stabilì che (al contrario) i prefetti coadiuvano le
Soprintendenze nella tutela. Quanto alla fusione di Archeologia e Belle
arti (sperimentata con pessimi risultati dal 1923 al 1939), è la
fotocopia del modello attuato in Sicilia con esiti fallimentari, che il
ministero non si è degnato di analizzare. Sarebbe stato interessante,
visto che la Sicilia è la sola regione indipendente dal ministero, che
la “perse” senza fiatare (ministro Spadolini) nel 1975, otto mesi dopo
la sua fondazione. Ma accorpare le Soprintendenze mortifica la
professionalità, uccide la specificità delle competenze, depotenzia la
tutela. Solo un forte accrescimento del personale potrebbe bilanciare
questa sciagura: ma come è mai possibile, se la stessa norma vieta
tassativamente «nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica»?
La
neo-tutela “modello Franceschini” ha una strategia, la valorizzazione, e
una tattica, la tripartizione delle strutture. Al vertice, i venti
“super- musei” con nuova filosofia di gestione; un gradino più sotto,
gli assai disomogenei “poli museali”; infine, le Soprintendenze
territoriali. Ci sono, è vero, buone pratiche “globali” con cui devono
misurarsi i musei italiani: ma essi sono diretta espressione del
territorio (non lo è il Metropolitan, né il Louvre), e perciò il loro
divorzio dal terreno che li alimenta non è una buona idea. Immaginata da
menti a digiuno di ogni esperienza sul campo (sia in museo che sul
territorio), questa riforma si presta all’effetto-annuncio, ma inciampa
alla prova dei fatti. Che accadrà delle Soprintendenze, se i loro
archivi e biblioteche sono trasferiti ai musei? Se vengono sfrattate
dalle sedi, passandole ai musei? Che succede dei materiali in deposito,
condannati a traslochi e shock inventariali? E senza personale né
risorse i nuovi inventari chi li fa? Soprattutto: data la primogenitura
dei musei che è il chiodo fisso del ministro, come si distribuisce il
personale, che ne sarà della tutela sul territorio? Vogliamo davvero
distinguere una good company (i musei) e una bad company (le
soprintendenze e la cura del territorio), pronta a essere liquidata?
Segnali
contraddittori vengono dal Palazzo: il Consiglio di Stato boccia la
conferenza dei servizi se applicata all’autorizzazione paesaggistica
(come vuole la legge Madia), e la Corte Costituzionale dichiara
incostituzionali vari punti dello “Sblocca- Italia”. Intanto il governo
capovolge la proposta Catania sul consumo dei suoli: gli oneri di
urbanizzazione non “devono” ma “possono” essere usati per spese di
urbanizzazione: cioè saranno usati per la spesa corrente («una
istigazione alla distruzione dei suoli agricoli», commenta Paolo
Maddalena). E un appello contro la legge Madia al Capo dello Stato di
sette costituzionalisti (fra cui Gustavo Zagrebelsky), in prima su
questo giornale, è rimasto senza risposta; né ha detto una sillaba in
merito la stessa Madia o il capo del suo ufficio legislativo, Bernardo
Mattarella. Rafforziamo pure i musei, ma il tallone di Achille della
tutela è il paesaggio, su cui si accaniscono le peggiori cupidigie. E il
paesaggio non si difende nei musei, ma nelle Soprintendenze. Renzi (da
sindaco) ha inveito contro i soprintendenti («una delle parole più
brutte del vocabolario », scrive nel suo Stil novo, 2012), e si fa
presto ad attriburgli il progetto di smantellare la tutela del
territorio. Mi rifiuto di crederlo. Da Renzi (presidente del Consiglio)
dobbiamo attenderci il rispetto del ruolo costituzionale della tutela.
Se non se ne desse un segnale cestinando l’improvvida “normetta”
natalizia, la bad company sarebbe il governo, non le Soprintendenze.