Repubblica 4.2.16
Che cosa manca al piano per i poveri
di Chiara Saraceno
CON
molti anni di ritardo sulla gran parte dei Paesi dell’Unione europea,
l’Italia sembrerebbe finalmente avviata ad introdurre nel proprio
sistema di protezione sociale una garanzia di reddito minimo per chi si
trova in povertà assoluta, ovvero per chi non riesce a soddisfare i
propri bisogni essenziali: quattro milioni circa di persone (di cui un
milione sono minori), secondo le stime Istat, distribuite in 1.470.000
famiglie. Il condizionale è d’obbligo, perché gli stanziamenti previsti
per questa misura per l’anno in corso, ma anche a regime, sono molto
ridotti e, per un aspetto fondamentale (le misure di attivazione),
precari.
Da ciò discendono due conseguenze. La prima è che non
tutti gli individui (neppure tutti i minori) e le famiglie in povertà
assoluta riceveranno sostegno. I 600 milioni di euro stanziati per
quest’anno, che salgono ad 800 se si tiene conto anche della messa a
regime dell’Asdi destinata ai disoccupati poveri che perdono diritto
alla indennità di disoccupazione (Naspi), basteranno, secondo i calcoli
dello stesso ministero, a coprire solo 280.000 famiglie — poco più di un
quinto delle famiglie stimate in povertà assoluta. La copertura dei
minori sarà molto più alta, il 50% circa, perché si è deciso di
concentrare il sostegno sulle famiglie con minori. Ma anche così, mentre
si lasciano fuori ingiustamente molti adulti privi di mezzi, senza
essere in grado di offrire loro un lavoro decente in tempi brevi, si
esclude dal sostegno la metà dei minori poveri, con conseguenze
prevedibili sulle loro opportunità nel medio e lungo periodo.
La
percentuale di poveri assoluti che potranno ricevere sostegno si alzerà
un po’ negli anni successivi, dato che si prevede di portare lo
stanziamento a un miliardo e mezzo a partire dal 2017, ma rimarrà sempre
minoritaria: attorno al 30% secondo alcune stime. Anche se, come
speriamo, la ripresa continuasse e facesse uscire dalla povertà assoluta
una quota di individui e famiglie, difficile pensare che ciò riguardi
più della metà di chi oggi è povero.
La seconda conseguenza del
modo in cui è stata pensata questa misura e i suoi finanziamenti è che
mancheranno le risorse anche per quella parte cui pure il ministro del
Lavoro Giuliano Poletti a parole tiene molto, al punto da far credere
che si tratti di una novità tutta italiana: le misure di attivazione
(“inventate” e messe in pratica da diversi decenni in quasi tutti i
Paesi che hanno un reddito di garanzia per chi si trova in povertà). Nel
piano del governo, infatti, queste dovrebbero essere organizzate, come è
giusto, dai servizi territoriali e finanziate dalle risorse del fondo
sociale europeo. Come è noto, il fondo sociale, oltre ad avere criteri
di utilizzo stringenti, è destinato progressivamente a ridursi e
scomparire. Gli enti locali che oggi provvedono con proprie risorse a
garantire un qualche sostegno ai poveri con l’introduzione di una misura
nazionale potrebbero, è vero, destinare quelle risorse alle misure di
attivazione. Ma ciò non vale per tutti. Ed anche quelli che già
provvedono potrebbero trovarsi a dover integrare la troppo ridotta
misura statale per garantire un sostegno economico a tutti i poveri
assoluti e non solo ad alcuni, senza avere più risorse per le misure di
attivazione e di formazione adeguata del personale che deve definirle e
monitorarne l’attuazione.
Questi sono i limiti più gravi del piano
di contrasto alla povertà messo a punto dal governo. Essi inducono a
temere che non siamo di fronte ad un lento avvicinamento ad una garanzia
di reddito e di inclusione sociale per tutti i poveri assoluti, ma solo
ad un sostegno al reddito per una piccola porzione di questi, con
scarse garanzie anche per la messa a punto delle necessarie politiche di
attivazione.
Ce n’è tuttavia almeno un altro. Si pensa ad una
erogazione in somma fissa. Con la fascinazione per la cifra degli 80
euro di cui sembra vittima questo governo, si pensa infatti di dare ai
pochi “fortunati” che avranno un Isee sotto i 3mila euro annui, almeno
un figlio minore e qualche altra caratteristica ancora da definire, per
poter restringere la platea dei potenziali beneficiari, 80 euro mensili a
testa (fino ad un massimo di 400 per famiglia), senza scale di
equivalenza e senza riguardo per l’ampiezza dello scarto tra l’Isee
effettivo di una famiglia e la soglia dei 3mila euro. Decisione
incomprensibile, che produrrà ulteriori disuguaglianze tra poveri: non
solo tra chi ha accesso al beneficio e chi no, ma tra chi è più o meno
distante dalla soglia. Su questo sfondo molto problematico, si inserisce
la delega al governo per il necessario riordino delle misure
assistenziali. Un riordino opportuno e necessario, che tuttavia
richiederebbe chiarezza su che cosa è assistenza e che cosa vi rientra,
una chiarezza che in Italia è lungi dall’essere scontata.