mercoledì 3 febbraio 2016

Repubblica 3.2.16
Rondi
Cinema e intrighi di potere nell’Italia che non c’è più
Escono i monumentali diari (1947-1997) del veterano della critica Mezzo secolo di lottizzazioni, registi militanti, censure, grandi dive
di Natalia Aspesi

Fu il suo «sempre compianto amico Giulio Andreotti» a suggerirgli di tenere un diario, come faceva lui stesso, dicendogli «annotare tutto è, specie in particolari circostanze, quasi una necessità » (in molti casi, si può insinuare, una necessità ricattatrice). E Gian Luigi Rondi,
dalla tumultuosa vita culturale e istituzionale, protetto ma anche sorvegliato speciale della politica in tempi in cui, pare impossibile, la politica soprattutto democristiana, era tanto più invasiva e potente di oggi, gli ubbidì immediatamente. E il primo gennaio del 1947, a 26 anni, iniziò quasi ogni sera a scrivere tutto della sua vivacissima giornata piena di incontri (e trame), ma quel diario, una testimonianza affascinante e importante di un’epoca in cui la politica onnivora credeva ancora nella cultura e nella necessità di possederla, si è interrotto nel 1997. Dice oggi Gian Luigi Rondi: «Dal 1993 ero stato presidente della Biennale, non avevo mai tempo di fermarmi, a riflettere e a scrivere, e così mi passò l’abitudine, forse anche la voglia». Cinquant’anni di vita privata e professionale di un grande critico e personaggio delle istituzioni, cinquant’anni di cinema mondiale ma soprattutto italiano, cinquant’anni di intreccio fra politica e cultura, racchiusi in 1320 pagine: un tomo enciclopedico di raffinata scrittura, che svela molti attimi inediti di un passato mille volte svelato. Niente paura, malgrado la mole nell’epoca dei tweet, Le mie vite allo specchio è una lettura molto appassionante, il romanzo di una Italia che non c’è più, di un cinema che non c’è più, di personaggi importanti che non ci sono più, di una potenza democristiana che forse c’è ancora ma molto travestita e molto meno imperiosa. Lo stesso Rondi, in passato molto democristiano, ma prima, in guerra, partigiano tra i comunisti cattolici, comunque sempre fortemente antifascista, detestato e attaccato, al tempo del suo massimo trionfo di critico e di responsabile di grandi eventi culturali da parte delle molte sinistre dell’intellighenzia d’epoca, arrabbiata e talvolta (giudicata adesso) pasticciona, oggi è iscritto al Pd.
Apriamo a caso il diario su una delle tante vite di Rondi. Due settembre 1970, a Venezia il festival del cinema si è chiuso, il ministro dello spettacolo Gianmatteo Matteotti, socialdemocratico, scontento della gestione di Ernesto G. Laura, chiede al critico, che fa parte della giuria, di andarlo a trovare a Roma, dove gli offre di diventare il prossimo direttore della Biennale cinema. Da quel momento passeranno nove mesi furibondi, per promuovere, o impedire, la nomina, che arriva il primo giugno 1971: non come direttore, ma come subcommisario, perché la Mostra è commissariata, dopo i casini dei rivoltosi, ingenui, autolesionisti eroi del cinema italiano che però giustamente pretendono un nuovo Statuto. È una storia illuminante della nostra politica culturale di quegli anni: la notizia è ancora segreta ma subito la pubblicano, deplorandola, l’Unità e Paese Sera, Andreotti ne parla a Forlani, Rondi a Gullotti, approvano alcuni grandi, tra cui De Sica e Fellini, il commissario della Biennale Longo tentenna, ci vuole l’assenso di Forlani, però la Dc si dice soddisfatta di Laura, i democristiani Rossini e Arnaud non vogliono Rondi perché preferiscono Ammannati, Finocchiaro, socialista, rassicura, «non ci saranno ostacoli da parte nostra perché oggi la Mostra spetta alla Dc», e chiamando “la banda del buco” il critico pure socialista Lino Miccichè e “i suoi compari”, contrari a Rondi, dice di avere le carte per ricattarli.
A Laura danno un’altra carica prestigiosa, Forlani e De Mita e la giunta esecutiva del loro partito nominano Rondi candidato unico per la Dc e approvano il programma da lui presentato. Il diario non tralascia una sola notiziola: l’Unità è arrabbiata e scrive che si opporranno alla nomina «tutte le forze politiche e culturali le quali si battono per liberare il cinema dal dominio padronale e burocratico ». Sono passati quattro mesi. il 1970 è finito e la Mostra di Venezia non ha ancora un direttore. Alle ore 20 del 9 gennaio 1971 Emilio Colombo presidente del Consiglio, comunica che «con Rondi si può procedere». I partiti di maggioranza approvano, ottenendo in cambio altre sedioline per loro. Il 20 gennaio il diario ci informa che le due associazioni di autori cinematografici «invitano la stampa a denunciare le manovre di contrattazione sottogovernativa». Il 17 febbraio colazione di Rondi con Antonello Trombadori del Pci e da quella parte «tutto si placherà se Gallo otterrà la presidenza dell’Ente di Gestione ». Il 1 marzo, «Visconti mi dice che Antonioni, Pasolini, Moravia e Guttuso sono andati da lui per chiedergli di ritirarmi il suo appoggio. Ha rifiutato e sa che rifiuterà anche Fellini».
Ma la sinistra non demorde, Suso Cecchi d’Amico avverte che Laura Betti e il critico Lino Miccichè raccolgono firme per un manifesto contro la sua nomina. Chi legge si sente stremato da una guerra che appare troppo lunga e anche un po’ insensata; perchè è vero che Rondi è democristiano, cioè il diavolo, è vero che è il cinecritico del quotidiano di destra Ma Rondi, oltre ad aver creato molte cinemanifestazioni, è anche un critico sapiente, che ha il fiuto per i grandi film, che sostiene checché ne dicano certi autori, il buon cinema italiano: anche se poi, per non perdere il posto, si adegua al fastidio di Angiolillo per tutto ciò che è vagamente di sinistra, per poi vergognarsene moltissimo. Il 4 marzo il diario riporta il manifesto degli autori che chiedono «che lo statuto fascista della Biennale venga cambiato». E avanti nella piccola noiosa guerra, anche tra i comunisti, con Trombadori (pro Rondi) e Napolitano (contro), sino al primo giugno: la nomina è fatta, dopo tanto tempo perduto per una sola poltrona!
Nelle oltre mille pagine c’è posto anche per la venerazione di Rondi per Pio XII, la diffidenza per Giovanni XXIII, la dedizione alla Mamma- Mamy, al Papà, alle Zie sempre con la maiuscola, e l’affetto per il fratello Brunello, regista, c’è la moglie francese Yvette e i due figli, Joel e Francesco Saverio. Ci sono gli anni giovani, in mezzo ai divi e ai registi che lo rispettano e temono: Gina Lollobrigida si fa sempre accompagnare da lui, Rossellini lo vuole a Stromboli per fargli vedere le scene che sta girando e lui nota la disperazione di Ingrid Bergman in un mondo che le è ostile, la vista di Claudia Cardinale lo turba, a cena lo invitano tutti, Gassman e Fellini, Carlo Ponti e Alberto Lattuada.
Tempi finiti, quando il critico non era solo una colonna dei giornali, ma una star temuta e osannata. Ma anche non del tutto libera, come quando Rondi scrive la recensione di Ladri di Biciclette di cui è entusiasta, finendola con «grazie De Sica». Furore immediato di Angiolillo perché «adesso quello è comunista. Quando esce parlane male». E Il Gattopardo di Visconti? «Regia grandissima di Luchino». A Angiolillo però il film non è piaciuto. «Così pur vergognandoni come un ladro, ho attenuato le lodi…sul piano morale non mi stimo affatto».
Preziosissime le 18 pagine con l’indice dei nomi, soprattutto se si vuole sapere quante persone Gian Luigi Rondi, 95 anni, tuttora critico brillante e presidente dei premi David di Donatello è in grado di distruggere.
IL LIBRO Le mie vite allo specchio di Gian Luigi Rondi ( Sabinae pagg. 1320, euro 50). Incontro con l’autore oggi alla Biblioteca Angelica di Roma ( ore 18)