Repubblica 2.2.16
Da Ai Weiwei a Banksy solo l’arte resta “politica”
La
foto del performer cinese che cita la tragedia del piccolo Aylan è la
“Guernica” di oggi? Di certo finisce per essere l’ultima vera forma di
denuncia
di Maurizio Ferraris
La denuncia degli
orrori della guerra non finisce con Goya e con “Guernica”. Ai Weiwei ha
diffuso uno scatto per ricordare Aylan Kurdi, e usando il suo corpo e il
suo nome famoso per ricordare morti di cui non si sa niente e che si
dimenticano in fretta. «Non sa più nulla, è alto sulle ali / il primo
caduto bocconi sulla spiaggia normanna», scriveva Vittorio Sereni nel
1944 ricordando il primo morto anonimo dell’operazione Ovelord, ed è
difficile non pensare che questi versi si possono applicare anche a
Aylan Kurdi, morto pure lui su una spiaggia nella nuova forma che ha
preso la guerra. Ma è significativo che questa volta a ricordarlo non
siano dei versi ma una immagine. Per un complesso di motivi che gettano
luce sulle peculiarità dell’immagine e insieme delle arti visive e del
loro sistema.
In primo luogo, gli shock sono visivi, ci vengono da
istantanee prese con il cellulare, e sono essenzialmente dei frammenti.
L’arte visiva è la più adatta a raccogliere questo shock, anche perché
la storia circostante ci è ignota, o è controversa: come si è arrivati a
quella spiaggia? Perché quella spiaggia è stata l’ultima? Cercare di
chiarire quel contesto porterebbe a estenuanti analisi economiche,
sociologiche, geopolitiche, in cui il fatto sparirebbe dietro alle
interpretazioni.
Le immagini, invece, parlano agli occhi (e per il
loro tramite ai sentimenti e all’empatia), e non richiedono commenti,
spingendo a una immediata identificazione con le vittime. Per esempio,
Fucking Hell di Jake e Dinos Chapman, gli immensi plastici esposti
qualche anno fa a Venezia, a Punta della Dogana, quasi corredi da treni
elettrici, raffiguravano una grande epopea di disastri della guerra
erano una specie di versione visiva delle Benevole di Jonathan Littell.
Tranne che, rispetto al romanzo, la presa era molto più diretta.
Banalmente, ma in modo essenziale, all’immagine spetta una apoditticità
che manca alla parola. Accade con i graffiti di Banksy – l’ultimo
dedicato ai “miserabili” di Calais – o alle donne velate dell’iraniana
Shirin Neshat.
È così già nell’arte tradizionale. Le
crocifissioni, le stragi degli innocenti, i martiri, che sono così
frequenti nell’arte cristiana, sono il racconto, giustificato dalla
devozione, di immagini scioccanti. Ai nostri occhi culturalmente
assuefatti possono non apparire tali, in un museo o in una chiesa, ma lo
sono. Gli artisti contemporanei, rispetto ai loro antenati, non hanno
poche icone di storia sacra, ma un flusso continuo di immagini che
vengono dalla cronaca. E, diversamente dalle immagini della storia
sacra, in cui un Cristo deposto troppo realistico appariva blasfemo, qui
lo scandalo è permesso e cercato, addirittura profetizzato in modo
visionario. I bambini impiccati di Cattelan erano non meno scioccanti
del piccolo migrante sulla spiaggia, ma non rappresentavano un evento
realmente accaduto, proprio come i corpi di Francis Bacon anticipano
quelli di Abu Ghraib, ma senza lo sguardo compiaciuto dei torturatori.
Ovviamente,
e questa volta guardando non all’arte ma al suo mondo, c’è un dato che
non va dimenticato. Molto più che la narrativa l’arte visiva serve a
pacificare la coscienza di una élite ricchissima, non necessariamente
responsabile delle tragedie testimoniate dall’arte, ma probabilmente non
attiva quanto potrebbe sul fronte umanitario. E, guardando all’artista e
non all’acquirente, è facile vedere in queste operazioni una
speculazione sul dolore. Che cosa è più facile del commuovere con
l’immagine di un bambino morto? E che cosa è più scioccante, memorabile,
mediatico?
Visto però che si tratta di arte, il punto cruciale
non è l’intenzione (non si fa arte con le buone intenzioni, ma nemmeno
con le cattive) bensì la qualità della trasfigurazione, ossia
dell’opera. Una qualità che può superare il tempo e dunque preservare la
memoria dei fatti. È difficile accusare Goya di avere speculato sulla
resistenza spagnola contro i francesi, e, nel tempo, quello che rimane
nella memoria collettiva di quei fatti lontani è legato ai suoi dipinti.
E tutto ciò che ci resta di una guerra lontana è l’Iliade, che
trasmette a migliaia di anni di distanza atrocità, come il nemico morto
trascinato sotto le mura della città, che ritroviamo nelle cronache di
guerra contemporanee, con il cavallo sostituito dal pick-up Toyota.