Repubblica 2.2.16
Salvate l’innocenza della mia Turchia
La
crisi umanitaria, i rapporti con l’Europa, le contraddizioni di una
società in cui c’è ancora chi scommette sulla pace: parla lo scrittore
Hakan Günday
intervista di Marco Ansaldo
Una
piccola rana di carta in tasca. Un origami, un talismano. O, più
propriamente, il solo elemento di innocenza che un ragazzino turco
trafficante di esseri umani riceve da un profugo afgano. «È un regalo»,
spiega lo scrittore Hakan Günday, il nuovo autore di grido che viene da
Istanbul, generazione successiva a quella dei mostri sacri Orhan Pamuk
ed Elif Shafak. «È il simbolo dell’unico contatto umano che ha con
queste persone. E diventa la sua coscienza, lungo il viaggio che compie
alla ricerca di sé. Forse tutti avremmo bisogno di una rana di carta in
tasca per non dimenticare che per risolvere i problemi del futuro, prima
dovremmo affrontare il nostro passato.
Lo scrittore turco, 39
anni, è per natura un grande osservatore. Un attitudine personale che
non guasta al suo mestiere, ma che in lui è diventata un modo di vita. A
Istanbul, la città dove abita pur essendo nato a Rodi (è figlio di
diplomatici), invece di frequentare i corsi di scienze politiche si
piazzava in un caffè davanti all’università, e guardava la vita che gli
scorreva davanti. «A 23 anni — ricorda adesso — ero entrato in una vita
immaginaria. E per certi aspetti mi ci trovo ancora. È stata quella la
mia vera scuola».
Ora Günday è arrivato in Italia per presentare
Ancòra, il suo secondo romanzo pubblicato da Marcos y Marcos. Gaza,
questo il nome del protagonista, cucciolo di strada intraprendente e
senza madre, ha vissuto una vita durissima con il padre sfruttatore di
migranti. Per l’uomo non sono persone ma merci: li carica sul furgone,
con loro attraversa il bosco e li nasconde sottoterra, nella cisterna
del suo giardino dove il padrone assoluto è Gaza. Ed è questa umanità
dolente il centro, attualissimo, del libro. Sono i profughi che sbarcano
in Turchia e si disperdono in Europa. E quando arrivano dicono solo una
parola in turco: “Daha”, “ancòra”, che si tratti di acqua, cibo o
coperte».
Lei ha centrato un tema presente sulle prime pagine di tv, giornali e siti. Qual è il suo sguardo su questo problema?
«Beh,
il libro è stato pubblicato in Turchia nel 2013. E da allora la vita mi
ha mostrato ancora una volta che la realtà va sempre oltre la fiction.
Perché io pensavo di aver immaginato le cose peggiori che potessero
capitare ai profughi. E invece mi stavo ingannando».
Come?
«Per
esempio non avrei potuto immaginare che qualcuno avrebbe potuto
fabbricare e vendere dei salvagenti falsi a queste povere persone,
giusto per trarne più profitto. E non avrei potuto nemmeno immaginare
che alcuni paesi avrebbero fatto di tutto per creare un “buco nero” in
un altro Paese, come avviene oggi con la Siria».
E in che modo si affrontano argomenti così scottanti?
«Tutto
questo richiede soluzioni nuove. Il che vuol dire un nuovo modo di
pensare che definisca l’umanità, ma da zero. Dovremmo accettare che il
mondo non è grande abbastanza per evitare le tragedie che vediamo alla
tv. Perché quello che tu osservi dietro a degli schermi oggi, lo vedrai
dietro alle tue finestre domani.
Il suo Gaza, piccolo genio, si salva con la sua rana di carta. Cosa significa?
«Quella
rana di carta che gli viene regalata da un rifugiato è il solo elemento
di innocenza su cui può contare. Questo richiama anche il ruolo di
“mostro” che gli è stato assegnato dal mondo quando era solo un bambino.
Forse avremmo bisogno tutti di simboli del genere, per salvarci».
In
un’intervista precedente lei aveva parlato della Turchia come «un mare
di sangue». Ogni giorno l’Egeo restituisce corpi di uomini e di bambini.
Come vede il suo Paese?
«Purtroppo, quando in una regione la vita
umana perde il suo valore, è davvero difficile tornare ai valori
precedenti. E quando un valore simile manca nella società, allora vuol
dire che sopra non puoi costruirci nulla. Già prima di questa vicenda
dei profughi la Turchia aveva dei problemi interni basati su conflitti
di identità diversa. Ma ora, col dramma dei rifugiati, entra in una
nuova fase di confronto. È come essere trascinati in un fiume selvaggio e
sta a noi capire se si tratta di una cascata oppure di un lago. Dipende
tutto dalle nostre scelte. E penso che lo stesso sia per l’Unione
Europea. Quindi: o impareremo a vivere insieme, oppure vivremo dietro a
dei muri finendo per riempirli di graffiti con su scritto “pace!”».
Un’altra questione scottante è quella della libertà di espressione.
«Da
noi, in passato, i giornalisti venivano uccisi. Facendoli saltare in
aria sulla loro auto. Oppure a colpi d’arma da fuoco. Oggi invece sono
arrestati.
Non mi sembra un gran miglioramento.
«Già. E
purtroppo non penso che andrà meglio, perché si tratta di una questione
di mentalità. Ormai è diventato normale mettere la gente sotto accusa e
poi citarla in tribunale per le opinioni che ha espresso. Inoltre, c’è
una sorta di assuefazione nel pubblico. Per la gran parte delle persone
questi fatti sono diventati come le notizie sul tempo: le vedi, e sei
già stufo.
Così prendi il telecomando, cambi il canale, e la vita continua.