Repubblica 29.2.16
Il papa e il cuore nero dell’Est
di Alberto Melloni
DOPO
averne visto le conseguenze su migliaia di persone in fuga, gli europei
vedono il fumo nero della guerra da vicino. È ormai ad una spanna
d’acqua, di là del mare dei morti cantato da Virgilio e da Gianfranco
Rosi. S’affaccia ad una spanna di terra da noi, in quei Paesi
dell’Europa orientale in cui ribollono gli spiriti animali del
nazionalismo, dell’antisemitismo e dell’autoritarismo i cui esiti fatali
stanno scritti in tutti i sussidiari. Non solo in Ucraina, ma in
Polonia, Ungheria, Slovacchia e oltre. Le nazioni “cattoliche” che per
secoli il papato credeva diventassero un cuscinetto fra ortodossie e
protestantesimi, i Paesi che Wojtyla sognava fossero modelli di nuovi
regimi di cristianità, le chiese che hanno conservato la fede fino al
martirio nella cattività sovietica, sono oggi invece il punto di approdo
della spirale soffocante della guerra. Ed interpellano sia gli europei
recalcitranti alla long- term vision, sia il cristianesimo sordo alla
conversione, sia l’unico leader globale che viva in questo continente:
un immigrato argentino che si fa chiamare Francesco.
La spirale si
disegna chiara sulle carte. Dal corso del Niger una striscia di guerre
civili e/o di religione chiamate eufemisticamente “terrorismo” generano
statualità inedite, travolge gli equilibri fra musulmani di diversa
confessione, devasta le chiese siriache che i cristiani latini avrebbero
sterminato secoli fa, profana i luoghi dello spirito. Le rotte
desertiche dei mistici fra l’Africa e il Mediterraneo sono vie di morte a
doppio senso. Il Sinai dove fu detto “non uccidere” vede azioni feroci e
innominabili. Nel cielo d’Arabia non ci sono sapienti a leggere le
stelle, ma vittime che scrutano la scia dei caccia. Attorno e dentro la
terra dove scorre latte e miele ci sono muri e coltelli a posporre la
pace. Il concilio pan-ortodosso che il patriarca Bartholomeos ha avuto
la grazia e la fede di convocare non può riunirsi a Costantinopoli, ma
deve andare a Creta per le tensioni che richiamano la storia delle
relazioni fra l’ex sultano e l’ex zar. Le piste d’Abramo, padre di chi
va e di chi crede al cammino, sono percorse da Suv carichi di
trafficanti e assassini. La Siria che diede ai cristiani il nome di
“quelli della Via” è liquefatta.
Ma la nube cupa della guerra non
si ferma lì. Risale dal Mar Nero verso l’oriente cristiano; passa sui
confini della “unione” di Brest e dell’Ucraina post-sovietica; s’incunea
nel cuore di quella cintura “cattolica”, nell’Ungheria di Viktor Orbán e
nei movimenti della Polonia di Beata Szydlo, e passa dai gruppi
neonazisti in Slovacchia, si frantuma nella xenofobia urbana tedesca, e
ancora oltre verso ovest. E sa che, se non lo farà Francesco, non sarà
denunciata né da élite impari a compiti ben più semplici né da cristiani
attratti dal potere. Dopo la generazione di Schumann, Adenauer e De
Gasperi, che parlavano in tedesco e pensavano in cattolico, dopo quella
di Delors, Kohl e Prodi, che parlavano in europeo e pensavano in
ecumenico, la generazione nuova degli europeisti — al netto del consenso
sul piano Renzi spiegato ieri da Scalfari — non c’è, e Mario Draghi
parla e pensa nella lingua della solitudine.
Davanti a questo
paesaggio sta Francesco: un anziano latino americano che con tre
pennellate — la cultura dello scarto, la globalizzazione
dell’indifferenza, la guerra a capitoli — ha denudato l’impotenza
culturale di un’Europa che non sa leggere la realtà in modo convincente,
unificante, pacificante. E che dunque è condannata alla diffidenza,
alla disunione e in prospettiva alla guerra. Cittadino del sud del
mondo, Bergoglio guarda all’Europa con distacco; la sua formidabile
segreteria di Stato inanella successi sbalorditivi, ma su tutt’altri
quadranti; l’episcopato europeo è totalmente inerte davanti ai compiti
che la storia gli assegna. Ma il Papa, i suoi diplomatici e i vescovi
non potranno non misurarsi col “cuore nero” dell’Europa che si manifesta
ad est.
Francesco in ogni caso dovrà farlo nel viaggio in Polonia
di questa estate per la giornata della gioventù, che non può essere
solo un trionfo giubilare celebrato a un passo dai cancelli di
Auschwitz-Birkenau, ma un incontro con la generazione che se perde
l’Europa ritroverà la guerra.
Forse il Papa ha già incominciato a prendere posizione nell’ormai famoso
dictum
su Trump. In una frase secca — «chi pensa a costruire muri non è
cristiano » — Francesco ha preso le distanze non solo da un provocatore
reazionario, ma anche da tutta quella politica che in Europa tenta di
catturare “voti facili” dividendo fra chi ha paura e chi fa paura o
negando valor al sapere che è il diaframma necessario fra la paura e le
decisioni.
Presi in una accelerazione ecumenica improvvisa — fra
il giubileo del Vaticano II, il concilio panortodosso, il centenario
della Riforma — i cristiani d’Europa possono fornire a questo continente
malato solo la loro conversione e la loro comunione: non per
conquistare qualcosa restando identici, ma per non perdere l’anima. Un
continente secolarizzato e pensante ne coglierebbe il valore, ne
spererebbe l’adempiersi: ma può darsi che questo continente sia solo
secolarizzato, e dunque indifferente a quel “cuore nero” che è
l’antipodo di Ventotene.