domenica 28 febbraio 2016

Repubblica 28.2.16
Quel vento di cambiamento dalle urne
di Roberto Toscano


Anche se i risultati definitivi delle elezioni iraniane non sono disponibili, si può già dire che avevano torto i pessimisti, quelli che erano convinti che, nella “democrazia monca” che caratterizza il sistema politico della Repubblica Islamica, i conservatori più radicali avrebbero prevalso sui sostenitori della proposta di cambiamento del Presidente Rouhani. Lo facevano pensare la falcidia del 99 per cento dei candidati riformisti, eliminati dalle liste dal Consiglio dei guardiani. E lo facevano pensare anche i sintomi della delusione di chi, pur avendo salutato con soddisfazione l’accordo nucleare, constatava che ancora tardano i cambiamenti promessi dal governo sul terreno dell’economia e soprattutto delle condizioni di vita reali.
E invece oltre il 60 per cento degli aventi diritto ha votato, ed è questo che di solito fa la differenza, dato che l’astensione ha sempre riguardato gli scontenti, i critici del regime, le classi medie, i giovani.
Rouhani è stato portato alla presidenza non da un cambiamento radicale negli orientamenti politici degli elettori, ma dal fatto che nel 2013 gli scontenti, i critici , le classi medie e i giovani sono andati a votare, superando il comprensibile scetticismo prodotto da tante frustrate speranze, a partire da quelle suscitate dalla presidenza di Khatami. Come sarebbero andate queste elezioni è apparso evidente quando è stato diffuso il dato che a Teheran i partecipanti al voto erano stati il 30 per cento in più di quelli che avevano votato alle elezioni parlamentari del 2012.
Di particolare significato politico sono i risultati definitivi, disponibili prima di quelli per il Parlamento, del voto per l’Assemblea degli esperti.
Sono risultati che si possono definire clamorosi, con Rafsanjani, eminenza non troppo grigia dell’attuale governo, come primo fra gli eletti, seguito a poca distanza da Rouhani, mentre il primo degli ultraconservatori - che speravano di dominare questa sorta di collegio dei cardinali/Soviet supremo - Jannati, che presiede il Consiglio dei guardiani, l’organo custode dell’ortodossia di regime, è arrivato solo in decima posizione.
Si è quindi rivelato convincente, e politicamente vincente, il progetto di puntare su una proposta politica con orizzonti riformisti e strategia centrista capace di raccogliere l’appoggio di uno spettro politico che arriva a forze che, pur essendo conservatrici, non intendono seguire una linea estremista che rischia non solo di invertire il cammino di normalizzazione intrapreso sul piano internazionale, ma anche di innescare pericolose spaccature sul piano interno.
In un certo senso sia i riformisti che i conservatori hanno ricavato una lezione dalla crisi del 2009, quando milioni di persone scesero in strada per denunciare (“dov’è il mio voto?”) la falsificazione dei risultati delle elezioni presidenziali. I riformisti hanno capito di non essere in grado di affrontare il regime, sempre capace di scatenare lo “Stato profondo” dei Pasdaran, i Basiji e dei vari servizi di intelligence, per stroncare qualsiasi moto popolare. Ma da parte loro i conservatori hanno compreso che il regime non può permettersi un altro 2009, a meno di non tornare ai disastrosi anni di Ahmadinejad o addirittura imbarcarsi in un rischioso “cambio di regime” in senso militarista che, oltre a far cadere ogni pretesa di legittimità democratica, minaccerebbe gli attuali equilibri su cui si regge il sistema e anche gli interessi in campo economico delle varie componenti del regime.
Paradossalmente quindi i principali protagonisti della politica iraniana – con l’esclusione di quelli che, abbandonati dai conservatori moderati, restano “scoperti” come un gruppo di estremisti e fanatici – si sono dimostrati molto realisti, accettando di preservare quel quadro complesso e contraddittorio che caratterizza il sistema politico iraniano.
La lotta politica fra riforma e conservazione continuerà, e si snoderà lungo alterne vicende probabilmente non prive di sorprese. Resta sempre il pericolo che chi è risultato perdente nelle urne - ma dispone di strumenti di intervento che sono certo non democratici ma, nello schizofrenico sistema iraniano, non incostituzionali – possa, se non rovesciare il tavolo, condizionare pesantemente il difficile percorso del cambiamento. Le elezioni del 25 febbraio lasciano aperta per l’Iran la via di un cambiamento graduale in senso civile e democratico, ma nessuno si aspetta che sarà facile.