La Stampa 28.2.16
Uno scontro sul futuro degli ayatollah
di Maurizio Molinari
Le
 elezioni di Teheran consegnano al Medio Oriente una sorpresa che 
preannuncia uno scontro di potere sul futuro della Repubblica Islamica. 
«Non ci aspettavamo un simile risultato»: è la reazione a caldo di Said 
Leylaz, veterano fra gli analisti politici iraniani, a descrivere il 
verdetto delle urne. In palio c’erano tanto gli 88 seggi dell’Assemblea 
degli Esperti, che designa il Leader Supremo, che i 290 seggi del 
Parlamento e in entrambi i casi gli esiti sembrano premiare i moderati a
 scapito dei conservatori.
Sebbene i conteggi siano ancora in 
corso la sconfitta dei candidati sostenuti da Ali Khamenei, Leader 
Supremo, suggerisce la maggior affermazione dei moderati dalle elezioni 
legislative del 2004. La cartina tornasole è quanto avvenuto 
sull’Assemblea degli Esperti perché i pragmatici, guidati dall’ex 
presidente Akbar Hashemi Rafsanjani e dall’attuale presidente Hassan 
Rohani, sono proiettati verso la conquista dei primi, importanti, 13 
seggi con agli acerrimi avversari Ahmad Jannati, Mohammed Yazdi e 
Mohammad-Taghi Mesbah-Yazdi ben a distanza.
E ancora: il volto 
della vittoria è Rafsanjani, considerato il maggiore alleato politico di
 Rohani nonché padre di Mahdi Hashemi che venne arrestata per complicità
 con la rivolta anti-regime dell’Onda Verde nel 2009. Ciò significa che 
almeno 30 milioni di iraniani si sono recati alle urne per premiare i 
candidati percepiti come avversari di Ali Khamenei nelle prime 
consultazioni avvenute all’indomani dell’accordo di Vienna sul nucleare 
che ha portato alla fine di gran parte delle sanzioni internazionali. E’
 uno scenario che, a prima vista, sembra premiare la scommessa politica 
dell’amministrazione Obama che aveva puntato sul negoziato nucleare 
proprio per obbligare Khamenei a «aprire il proprio pugno» scommettendo 
sulla voglia di cambiamento di gran parte della popolazione, che in 
maggioranza è sotto i 25 anni.
Il potere a Teheran continua 
tuttavia ad essere nelle salde mani di Khamenei - da cui dipende un 
vasto apparato militare-economico che ha come spina dorsale i Guardiani 
della Rivoluzione - e ciò significa che dopo l’annuncio formale dei 
risultati si aprirà una delicata fase di riequilibrio dei poteri che 
vedrà Rafsanjani nel ruolo di suo probabile contraltare. La forza di 
Rafsanjani sta nell’essere un leader di raccordo fra le molteplici anime
 della Repubblica Islamica: da un lato è considerato il «grande 
elettore» di Rohani e dall’altro nel 2006 venne accusato dalla giustizia
 argentina di essere stato, da presidente, il mandante dell’attentato di
 Buenos Aires del 1994 contro il centro ebraico «Amia» in cui perirono 
85 persone. Ciò significa che Khamenei e Rafsanjani sono due volti dello
 stesso regime iraniano, sebbene il primo guidi i conservatori ed il 
secondo sia divenuto il volto più in vista del fronte moderato.
A 
rendere incandescente il duello che si apre fra Khamenei e Rafsanjani è 
la posta in palio ovvero il nome del nuovo Leader Supremo. Khamenei, 
76enne e più volte ricoverato per un sospetto tumore alla prostata, è 
l’erede dell’ayatollah Khomeini e vuole un successore capace di 
conservare la Repubblica Islamica così com’è. Da qui le voci 
sull’ipotesi di una staffetta con il figlio Mojtaba, anch’egli esponente
 del clero sciita legato a doppio filo con i Guardiani della 
Rivoluzione. Ma Rafsanjani, forte dell’affermazione nell’Assemblea degli
 Esperti, può ora aspirare alla stessa carica, la più alta nel regime 
degli ayatollah.
Si tratta di una sfida per il potere a Teheran 
che è solo all’inizio. Ed è gravida di incognite. Anzitutto interne, 
perché gli iraniani che sono andati alle urne per favorire un 
cambiamento non sono troppo diversi da quelli che nel 2009 scesero in 
piazza sfidando la repressione e dunque potrebbero avere ambizioni di 
libertà che vanno ben oltre il nome di Rafsanjani. Ma anche esterne, 
perché ciò che avviene a Teheran ha un impatto immediato sulla Siria 
dove la guerra per procura fra Iran ed Arabia Saudita è a un passo dal 
degenerare in un conflitto aperto capace di dilagare nell’intero Medio 
Oriente.