Repubblica 27.2.16
L’emergenza migranti e il “deficit” democratico in Europa
Con la libera circolazione globale dei beni si scavano divari sempre più profondi nella sfera sociale
di Slavoj Zizek
TRA
le domande poste di recente dai lettori della Süddeutsche Zeitung sulla
crisi dei profughi, quella che ha suscitato maggiore interesse in
Germania concerneva la democrazia, ma con accenti populisti di destra:
di quale legittimazione godeva Angela Merkel quando ha invitato
pubblicamente centinaia di migliaia di profughi a entrare in Germania?
Che diritto aveva di apportare un cambiamento così radicale alla realtà
tedesca in assenza di una consultazione democratica? Non intendo con
questo ovviamente sostenere i populisti contrari all’immigrazione, ma
indicare chiaramente i limiti della legittimazione democratica. Lo
stesso vale per i fautori di una radicale apertura dei confini: si
rendono conto che avanzare un’istanza del genere equivale a revocare la
democrazia, a permettere che il Paese sia oggetto di un colossale
cambiamento senza previa consultazione democratica della popolazione?
E
forse non vale lo stesso per la richiesta di trasparenza delle
decisioni Ue? Dato che in molti Paesi la maggioranza dell’opinione
pubblica era contraria alla riduzione del debito greco, rendere pubblici
i negoziati avrebbe portato i rappresentanti di quei Paesi a richiedere
misure ancor più rigide nei confronti della Grecia. Ci troviamo di
fronte a un annoso problema: che ne è della democrazia quando la
maggioranza tende a votare leggi razziste e sessiste? Non temo di trarne
la conclusione che la politica tesa all’emancipazione non debba essere
subordinata a procedure di legittimazione formali-democratiche. Spesso
la gente non sa cosa vuole, oppure sbaglia scelta. Non esistono
scorciatoie in questo caso e non è difficile immaginare un’Europa
democratizzata in cui la maggioranza dei governi è formata da partiti
populisti anti-immigrati.
Chi a sinistra critica l’Ue si trova in
situazione di grave imbarazzo: da un lato condannano il “deficit
democratico” dell’Unione e propongono progetti per dare maggior
trasparenza alle decisioni di Bruxelles, dall’altro appoggiano gli
amministratori “non democratici” europei quando esercitano pressioni
contro le nuove tendenze “fasciste” (democraticamente legittimate). Il
contesto in cui ha luogo questo impasse è lo spauracchio della sinistra
europea progressista: il rischio di un nuovo fascismo incarnato dal
populismo di destra anti immigrati. Si dipinge l’Europa come un
continente in regressione verso un nuovo fascismo che si nutre dell’odio
e del timore paranoico del nemico etnico-religioso esterno (in genere i
musulmani).
Ma si tratta di vero fascismo? Spesso si ricorre al
termine “fascismo” per sottrarsi all’analisi approfondita della realtà.
Il politico olandese Pim Fortuyn, ucciso all’inizio del maggio 2002, due
settimane prima delle elezioni in cui i sondaggi gli attribuivano un
quinto dei voti, fu una figura paradossale e sintomatica, un populista
di destra che per le sue caratteristiche personali e addirittura, (in
gran parte) per le opinioni manifestate, rientrava quasi alla perfezione
nella categoria del “politicamente corretto”: era gay, era in buoni
rapporti con molti immigrati, possedeva un innato senso ironico – in
breve era un buon liberale, tollerante sotto qualsiasi aspetto, ma non
nel suo fondamentale programma politico. Si opponeva infatti agli
immigrati fondamentalisti per l’odio che esprimevano nei confronti degli
omosessuali, il disprezzo che manifestavano per i diritti delle donne,
ecc. Fortuyn incarnava il punto di incontro tra il populismo di destra e
il politicamente corretto progressista.
Inoltre, molti liberali
di sinistra (come Habermas) che lamentano l’attuale declino dell’Ue
sembrano idealizzarne il passato: l’Unione “democratica” di cui piangono
la scomparsa non è mai esistita. La politica recente dell’Ue si limita
al disperato tentativo di adattare l’Europa al nuovo capitalismo
globale. La consueta critica mossa all’Ue dai liberali di sinistra – va
tutto bene a parte il “deficit democratico” – tradisce la stessa
ingenuità dei critici dei Paesi ex comunisti, che di base li
sostenevano, lamentando soltanto l’assenza di democrazia: in entrambi i
casi il “deficit democratico” faceva necessariamente parte della
struttura globale.
Ovviamente, l’unica azione per contrastare il
“deficit democratico” del capitalismo globale avrebbe dovuto avvenire
per il tramite di un’entità trans-nazionale – non fu forse Kant a
individuare, più di duecento anni fa, la necessità di un ordine
giuridico trans-nazionale, fondato sull’ascesa della società globale?
«Ora dal momento che grazie alla comunanza (più o meno stretta) tra i
popoli della Terra estesasi ormai dappertutto si è giunti ad un punto
tale che la violazione di un diritto perpetrata in un luogo della Terra è
sentita in tutte le parti, ecco che l’idea di un diritto cosmopolitico
non è più un modo fantastico, esagerato, di rappresentarsi il diritto».
Questo tuttavia ci conduce alla “principale contraddizione” del Nuovo
Ordine Mondiale, ossia l’impossibilità strutturale di individuare un
ordine politico globale che sia conforme all’economia capitalista
globale. E se per ragioni strutturali non potesse esistere una
democrazia mondiale o un governo mondiale rappresentativo? Il problema
strutturale (antinomia) del capitalismo globale consta
nell’impossibilità (e al contempo, nella necessità) dell’esistenza di un
ordine socio-politico ad esso conforme: l’economia di mercato globale
non può essere organizzata direttamente come democrazia liberale globale
con tanto di elezioni in tutto il mondo. In politica torna il
“represso” dell’economia globale: ossessioni arcaiche, identità
particolari sostanziali (etniche, religiose, culturali). Questa tensione
definisce l’attuale paradosso: con la libera circolazione globale dei
beni si scavano divari sempre più profondi nella sfera sociale. Mentre i
beni circolano sempre più liberamente, nuovi muri sorgono a separare le
persone.
Slavoj Zizek è uno scrittore e filosofo sloveno Traduzione di Emilia Benghi