Repubblica 27.2.16
Quei tiranni che chiamano terroristi i dissidenti
Rispettare il senso delle parole è il primo passo per fare chiarezza morale
di Roberto Toscano
IL
REGIME egiziano del generale Al Sisi giustifica sia il colpo di Stato
del 2013 che la successiva feroce repressione con la necessità di
combattere il terrorismo. Sa con questo di toccare un nervo scoperto sia
all’interno del Paese che in campo internazionale, dato che la minaccia
terroristica è uno dei più diffusi incubi del nostro tempo. La
definizione di terrorista è stata estesa dal regime egiziano a tutti gli
oppositori, e in primo luogo ai Fratelli Musulmani, di cui può essere
legittimo mettere in dubbio la credibilità democratica, ma che da
decenni conducono la loro lotta di ispirazione islamista con mezzi
politici e non con il terrorismo. Nell’usare il termine “terrorista”
come epiteto nei confronti degli avversari Al Sisi è comunque tutt’altro
che isolato.
IL Direttore del quotidiano turco Cumhuriyet, Can
Dundar, è stato rinviato a giudizio con l’accusa non solo di spionaggio,
ma di «propaganda terroristica », per avere rivelato la complicità dei
servizi turchi nel far arrivare armi ai ribelli anti-Assad. In India uno
studente della Nehru University è stato arrestato qualche giorno fa con
l’accusa di essere «un terrorista islamico» per avere pronunciato
«slogan anti-nazionali » nel corso di un’assemblea studentesca dedicata
alla questione del Kashmir. Putin cerca di squalificare i nazionalisti
ucraini bollandoli come terroristi, mentre i dirigenti ucraini replicano
definendo terroristi i separatisti di Donetsk e Lugansk.
Il primo
premio in questa gara di distorsione va senz’altro all’Arabia Saudita,
la cui legge antiterrorista equipara l’ateismo al terrorismo (e inoltre
definisce terrorista «chi insulta la reputazione dello Stato»). Siamo al
grottesco, e ci sarebbe da ridere se non ci fosse dietro un potere
convinto che, se agita lo spettro del terrorismo, nessuno oserà
chiedergli conto degli abusi commessi, nemmeno della tortura.
Se
non si fa chiarezza è perché, per chi fonda il proprio potere su
illegalità e violenza, se il terrorismo non esistesse bisognerebbe
inventarlo — e non certo perché chiarire sia impossibile.
Basterebbe
rendersi conto di tre punti fondamentali. Primo, che il terrorismo non è
qualsiasi azione violenta, ma la violenza che viene usata contro chi
non è combattente, non al fine di indebolirne la capacità militare ma di
piegarne (col terrore, appunto) la volontà. Secondo, il terrorismo non è
una causa, ma uno strumento che può essere usato per qualsiasi causa,
buona o cattiva che sia: l’islamismo, ma anche la causa anti-abortista o
quella animalista (le bombe alle cliniche e ai laboratori),
l’ambientalismo (in America, qualche anno fa, l’”Unabomber” inviava
pacchi- bomba agli scienziati responsabili secondo lui di essere
complici della distruzione della natura), e anche la mafia (le bombe ai
Georgofili a Firenze e al Velabro a Roma). Terzo, le azioni
terroristiche restano vigliacche e moralmente spregevoli per qualsiasi
motivo e in qualsiasi momento vengano commesse, e dovremmo respingerle
senza eccezioni e senza giustificazioni — come del resto dovremmo fare
per la tortura — anche se noti terroristi sono poi diventati uomini
politici riconosciuti come legittimi, e anzi benemeriti costruttori di
dialogo e pace. Chi può negare che Arafat — uno dei protagonisti di Camp
David — sia stato a capo di organizzazioni (Olp e al Fatah)
responsabili di atti terroristici? Ed è difficile dimenticare che Begin —
il Begin dello storico incontro con Sadat e della pace con l’Egitto —
fosse stato in precedenza a capo dell’Irgun, un gruppo terrorista
responsabile fra l’altro del clamoroso attentato del 1946 all’Hotel King
David di Gerusalemme. Vi è poi il caso di Gerry Adams, un uomo politico
senza il quale non ci sarebbe stata la pace nell’Irlanda del Nord, ma
senza dubbio un ex terrorista dell’Ira, anzi, uno dei suoi massimi
dirigenti.
Se bisogna opporsi alla distorsione strumentale e alla
banalizzazione del concetto di terrorismo non è certo per minimizzarne
la minaccia e la necessità di combatterlo senza ambiguità, ma per il
motivo diametralmente opposto. Perché se tutto è terrorismo, niente lo
è. È come con l’inflazione: aumenta la quantità in circolazione,
diminuisce il valore. È quello che è successo alla “Guerra globale al
terrorismo” proclamata da George W. Bush, destinata al fallimento
proprio per l’arbitraria definizione a 360 gradi del nemico terrorista
da combattere.
Rispettare il senso delle parole è il primo,
indispensabile passo per fare chiarezza morale e dominare gli strumenti
della politica.
Per citare Confucio, «se non volete che la società si deteriori, date i nomi giusti alle cose».
L’autore è diplomatico e scrittore già Ambasciatore in Iran e India