Repubblica 25.2.16
Quanto siamo lontani dall’Europa
La 
legge sulle unioni civili sembra ormai avviata verso una conclusione che
 la amputa di un suo punto assai significativo e annuncia una soluzione 
politica
di Stefano Rodotà
UNA soluzione che ben 
potrebbe essere considerata paradossale, se i modi fantasiosi 
dell’attuale politica non l’avessero spinta verso funambolismi che la 
destituiscono di vera credibilità. Si rafforza, infatti, l’attuale 
maggioranza di governo proprio sul terreno più “divisivo” tra Pd e Ncd. 
Ma non sarebbe questo l’unico paradosso, o l’unica contraddizione, di 
una fase così confusa e politicamente così mal gestita. E allora è il 
caso di fare una prima valutazione di quel che è già avvenuto, di quanto
 si è già perduto e di quanto si può ancora perdere.
La 
discussione sulle unioni civili era cominciata sottolineando che 
finalmente era alle porte una legge da troppo tempo attesa, che avrebbe 
consentito all’Italia di recuperare un livello di civiltà dal quale si 
era allontanata e che, in questo modo, l’avrebbe riportata in Europa. 
Ma, avendo perduto troppi pezzi, la legge approvata finirà con l’essere 
considerata come una nuova testimonianza di una arretratezza di fondo 
che, anche quando si fanno sforzi significativi, non si riesce davvero a
 superare.
Che cosa vuol dire Europa in una materia davvero 
fondamentale, non per una forzatura ideologica, ma perché riguarda i 
fondamenti stessi del vivere? Vuol dire costruzione di un sistema sempre
 più diffuso e condiviso di principi e regole, che è stato poi affidato 
ad un documento comune, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione 
europea, che dal 2009 ha lo stesso valore giuridico dei trattati e che, 
quindi, dovrebbe essere costante punto di riferimento nelle discussioni 
legislative dei singoli Stati membri. Proprio per il tema affrontato in 
questi giorni al Senato, l’innovazione della Carta è stata massima. 
L’articolo 21 ha vietato ogni discriminazione sulla base 
dell’orientamento sessuale. L’articolo 9 ha cancellato il requisito 
della diversità di sesso per il matrimonio e per ogni forma di 
organizzazione familiare, e i giudici europei seguono ormai questo 
criterio. Eguaglianza, parità dei diritti, libertà nelle scelte. 
Principi essenziali, che avrebbero dovuto guidare i dibattiti 
parlamentari e che lì, invece, sono comparsi in maniera sempre più 
pallida. Sono stati spesso sopraffatti da un coacervo di confusi 
riferimenti morali, strumentalizzazioni politiche, controversi 
riferimenti scientifici. Si finisce così con l’avere la sensazione che 
l’Italia — al riparo da un “Grexit” per ragioni economiche e da un 
“Brexit” per ragioni politiche — abbia scelto la strada di un “exit” 
dall’Europa tutto culturale.
Già possiamo misurare gli effetti 
sociali di questo modo di procedere. Sono tornati nella discussione 
pubblica, con una rinnovata e violenta legittimazione derivante da toni 
del dibattito parlamentare, argomenti omofobi, discriminatori, 
aggressivi, incuranti dell’umanità stessa delle persone. Si è minacciato
 il ricorso ad un referendum popolare contro la norma che avesse ammesso
 l’adozione del figlio del partner. Forse vale la pena di ricordare che,
 nel 1974, quando ci si avviava verso l’eliminazione delle 
discriminazioni contro i figli nati fuori del matrimonio (i “figli della
 colpa”, gli “illegittimi”), i professori Sergio Cotta e Gabrio 
Lombardi, che già avevano promosso il referendum contro la legge sul 
divorzio, ne minacciarono uno contro una riforma che fosse andata in 
quella direzione (intenzione caduta dopo che l’abrogazione del divorzio 
fu respinta dal voto popolare). E proprio intorno alla norma 
sull’adozione si è concentrato oggi un fuoco di sbarramento che 
colpisce, insieme, i diritti delle coppie e quelli dei bambini. Proprio 
dei bambini, strumentalmente indicati come oggetto di una necessaria 
tutela e che, invece, rischiano d’essere ricacciati in una condizione di
 discriminazione, creando una nuova categoria di “illegittimi”. Più che 
un intento discriminatorio, ormai uno spirito persecutorio. Si può in 
concreto indebolire o cancellare la tutela di cui essi già godono fin 
dal 1983 attraverso un saggio intervento e una valutazione dei giudici, 
che hanno applicato le norme sull’adozione in casi particolari in nome 
dell’interesse “supremo” del minore. Una conquista civile dalla quale 
non si dovrebbe uscire, richiamata dall’Avvocatura dello Stato davanti 
alla Corte costituzionale, che ieri ha deciso un caso relativo 
all’adozione da parte di due donne sposate negli Stati Uniti delle 
reciproche figlie. Dallo scarno comunicato della Corte non si può 
dedurre con certezza se le sue indicazioni puntuali consentiranno di 
continuare a ricorrere alle diverse soluzioni già utilizzate dai 
giudici.
La prudenza e il rigore dovrebbero sempre guidare il 
legislatore. Ma più ci si inoltra negli intricati meandri in cui si è 
cacciato il Senato nella tenace sua volontà riduzionistica delle unioni 
civili, più si coglie l’approssimazione e l’incapacità di comprendere la
 rilevanza dei diritti in questione. L’esecrazione per l’utero in 
affitto, improvvisamente evocata contro l’adozione del figlio del 
partner nelle coppie omosessuali mentre è pratica al 93% di quelle 
eterosessuali, porta a declamare la sua qualificazione come “reato 
universale” con condanna del genitore e divieto di riconoscimento del 
figlio. Ma si ignora che la questione è stata risolta il 26 giugno 2014 
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha condannato la Francia a
 trascrivere l’atto di nascita dei figli nati all’estero da una madre 
surrogata, anche se in Francia, come in Italia, questa pratica è 
vietata. E la Cassazione francese ha dato seguito a quella decisione. Ma
 la nostra aggrovigliata discussione ignora a tal punto l’Europa da aver
 subito dimenticato che il Parlamento non ha scelto liberamente di 
legiferare in questa materia, ma è stato obbligato a farlo da una 
sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2015, che ha 
condannato lo Stato italiano a riconoscere alle coppie di persone dello 
stesso sesso uno statuto giuridico adeguato.
Un “obbligo 
positivo”, al quale si tenta di sottrarsi con mille sotterfugi, 
cominciando con il trascurare che quella sentenza è fondata 
sull’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che 
riconosce il diritto alla “vita privata e familiare”. A questo non basta
 fare un riferimento generico. Poiché la sentenza dice che “le coppie 
dello stesso sesso hanno una situazione sostanzialmente simile a quelle 
delle coppie di sesso diverso”, e qui la discrezionalità del legislatore
 è ridotta, il riferimento alla vita familiare deve essere inteso nella 
sua pienezza organizzativa. Altrimenti si fa una operazione 
culturalmente regressiva, un altro atto implicito di uscita dall’Europa.
È
 in corso una grottesca operazione di ripulitura di ogni accenno che 
possa far pensare al matrimonio. Persino l’idea della fedeltà nelle 
coppie di persone dello stesso sesso deve essere allontanata, quasi che 
l’affetto e il “diritto d’amore” possano scomparire per effetto di 
arzigogoli verbali. In realtà si sta preparando una linea interpretativa
 rigidissima della nozione di famiglia per bloccare ogni ulteriore 
sviluppo in materia. È urgente invece un riflessione culturale sul 
sistema costituzionale, quella che nel 1975 aprì la strada alla riforma 
del diritto di famiglia.
Tutto questo, e molto altro che si 
potrebbe aggiungere, ci dice con quale spirito si dovrà accogliere la 
legge ora annunciata. Nessuno predica il tanto peggio tanto meglio. Ma 
nessuno potrà negare che un testo scarnificato, impoverito, mortificato 
porterà al suo interno il segno di una sconfitta politica e culturale. 
Condannando l’Italia, la Corte europea aveva parlato di un tradimento 
della fiducia e delle attese delle persone omosessuali. Tradimento che 
oggi riguarda tutti i cittadini ai quali spetta di vivere in un paese 
coerentemente inserito nel contesto culturale europeo. E invece si 
annunciano nuove distanze nuovi conflitti, rinvii a testi futuri, giochi
 d’inganni.