Repubblica 25.2.16
In Iran la battaglia del cambiamento le riforme di Rouhani al test delle urne
La consultazione di domani sarà cruciale per determinare il rapporto tra le diverse componenti del regime
Il progetto di apertura del presidente è in salita e contrastato dai conservatori
Su 3mila candidati moderati, il Consiglio dei guardiani ne ha ammessi solo 30
di Roberto Toscano
La
speranza che l’accordo nucleare potesse essere il primo decisivo passo
verso un rinnovamento interno comincia a essere intaccata da un
crescente pessimismo sulle promesse di libertà individuali
In Iran
è stata messa una nuova taglia, di 600mila dollari, sulla testa dello
scrittore Salman Rushdie, a 27 anni dalla fatwa che lo condannava per
“Versetti satanici”. A farlo è stato un gruppo di organi di stampa,
capofila l’agenzia “Fars”. La somma si aggiunge alle precedenti
donazioni: si arriva così a quasi quattro milioni di dollari
NELL’ANOMALO
e per molti versi bizzarro sistema politico della Repubblica Islamica
dell’Iran le elezioni hanno una reale valenza politica, in quanto
servono a misurare l’esistente rapporto di forze non certo fra regime e
una potenziale opposizione — cui viene istituzionalmente negato ogni
diritto di rappresentanza — ma fra le diverse componenti del regime, il
“nezam”. Le elezioni di domani rivestono una particolare importanza
perché saranno cruciali nel determinare le sorti del progetto politico
del Presidente Rouhani, un progetto di cambiamento e apertura che, come
ha dimostrato nel 2013 la sua sorprendente elezione al primo turno, è
riuscito a raccogliere l’adesione della maggioranza della popolazione.
Ma
è anche vero che l’accordo sulla questione nucleare è stato salutato in
modo entusiasta nella speranza che potesse trattarsi di un primo,
decisivo passo cui però avrebbero dovuto far seguito cambiamenti
sostanziali sul piano interno, in primo luogo l’economia. È questa
speranza che comincia ad essere intaccata da una certa delusione per il
ritardo nei miglioramenti promessi e da un crescente pessimismo sulle
prospettive di cambiamento anche in termini di libertà individuali.
Le
elezioni di domani dimostreranno, anche sulla base del tasso di
partecipazione al voto, fino a che punto delusione e pessimismo hanno
diminuito la popolarità del Presidente, ma soprattutto permetteranno di
misurare l’equilibrio non solo fra correnti politiche ma,
indirettamente, anche fra le principali componenti del sistema (Leader
Supremo, Presidente, Consiglio dei guardiani).
Il sistema politico
iraniano dimostra che per falsare i risultati elettorali non è
necessario fare scomparire i voti indesiderati e inventarne altri. In
Iran il regime, che ci tiene particolarmente a sbandierare la propria
legittimazione democratica, preferisce interferire prima delle elezioni
attraversi il filtro delle candidature affidato al Consiglio dei
guardiani. È sempre avvenuto, ma questa volta in modo più pesante e più
sfacciatamente orientato a impedire l’inclusione nelle liste elettorali
di esponenti di note idee riformiste. Se è stato approvato il 42
percento degli aspiranti candidati, per quanto riguarda i candidati
riformisti il tasso di approvazione è stato dell’1 per cento, il che
significa che gli elettori potranno votare soltanto per 30 dei 3.000
candidati riformisti che si erano presentati. Non solo, ma il Consiglio
dei guardiani ha anche cancellato dalle liste candidati centristi e
persino conservatori moderati di cui è noto l’appoggio al Presidente
Rouhani. Una manovra analogamente messa in atto in relazione alle
elezioni, anch’esse previste per domani, dell’Assemblea degli esperti,
l’organismo clericale chiamato ad eleggere il Leader Supremo. Non c’è da
meravigliarsi che Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, un tempo bestia nera
dei riformisti ma attualmente sostenitore di Rouhani, abbia reagito alla
clamorosa cancellazione dalle liste del nipote di Khomeini, Hassan,
anche lui vicino al progetto politico di Rouhani, chiedendo
polemicamente al Consiglio dei guardiani: «Ma chi vi autorizza a fare
questo, chi vi ha dato il diritto di giudicare?».
L’esclusione di
Hassan Khomeini è interessante perché rivela che i conservatori più
radicali (rivoluzionari di nome, reazionari di fatto) intendono
certamente mantenere l’esclusione dal gioco politico dei riformisti — un
risultato peraltro già da tempo ottenuto, se si pensa che l’ex
presidente Khatami non solo non può partecipare a manifestazioni
politiche, ma non può né essere citato né comparire nemmeno in
fotografia. Tuttavia il loro obiettivo politico principale è oggi
mutato, nel senso che hanno ormai identificato come pericolo principale
la coalizione che appoggia il Presidente Rouhani. Hanno ragione, nel
senso che i riformisti sembrano aver dato per scontata e irreversibile,
almeno a breve, l’esclusione della possibilità di esercitare un ruolo
protagonista nella vita politica del Paese, e — come dimostra il loro
sostegno al centrista Rouhani — puntano oggi a evitare, confluendo in un
più vasto schieramento, che il cammino iniziato con le elezioni del
2013 venga non solo bloccato, ma reso reversibile da quelle correnti
estremiste che non hanno un sostegno rilevante nel Paese, ma che
mantengono una fortissima influenza in alcune istituzioni centrali del
regime. Non si tratta tanto del clero sciita, politicamente tutt’altro
che omogeneo (anche per questo la definizione dell’Iran come “teocrazia”
appare oggi riduttiva), ma piuttosto di quello che si può definire lo
“Stato profondo”: un livello opaco in cui il potere si esercita fuori
dalle regole, con un uso della forza sempre minacciato anche se non
sempre messo in atto.
È qui che, oltre che con il gioco pesante
che punta ad impedire che le maggioranze reali del Paese si traducano in
risultati elettorali, il governo di Rouhani si trova a dover fare i
conti con una fortissima opposizione che opera con strategie e mezzi che
non hanno nulla a che vedere col discorso sul consenso e la democrazia.
Qui emerge in particolare il ruolo dei Pasdaran, i Guardiani della
rivoluzione, in origine una milizia rivoluzionaria ma oggi una
combinazione di Forze Armate di élite, potenza economica e strumento
repressivo che opera in modo del tutto autonomo rispet- to agli
organismi dipendenti dal governo e che dispone non solo di una milizia
ausiliaria, i Basiji — squadristi che si scatenano nei momenti in cui
serve la repressione violenta (vedi la crisi del 2009) — ma anche di un
proprio servizio di intelligence che può arrestare chi vuole e dispone
addirittura di una propria sezione all’interno della famigerata prigione
di Evin. Non è stato certo Rouhani, e nemmeno il Ministero degli
interni, a disporre l’arresto di una serie di cittadini di doppia
cittadinanza iraniana e americana — uno scoperto tentativo di mettere i
bastoni fra le ruote al processo di normalizzazione dei rapporti fra
Teheran e Washington. E non è stato certo Rouhani a promuovere in questi
giorni il demenziale rilancio, da parte di alcuni raggruppamenti ultra,
della “fatwa” contro Rushdie, con il finanziamento di una rinnovata
taglia sulla sua testa.
Nelle istituzioni e fuori, la battaglia
del cambiamento in Iran è in salita, di risultato incerto, contrastata
da nemici decisi e potenti. Eppure, così com’era ingiustificata
l’euforia diffusasi subito dopo l’elezione di Rouhani, ulteriormente
montata dopo l’accordo nucleare, sarebbe oggi prematuro dare per
sconfitto il suo disegno politico. Oggi più che mai gli iraniani che,
soprattutto nella componente giovanile, aspirano sia a più benessere che
a più libertà, sembrano non avere dubbi sulla validità di un’opzione
che è ad un tempo realista e prudente. Perché sanno che un “cambiamento
di regime” non solo non è possibile (lo “Stato profondo” è troppo forte,
troppo spietato) ma non è nemmeno auspicabile. Sembra difficile
criticarli, quando vediamo quello che è accaduto in Iraq e Libia, dove
la caduta del regime ha prodotto il devastante crollo dello Stato;
quello che è accaduto in Egitto, dove la Primavera Araba si è
trasformata in un crudo Inverno Arabo; quello che sta accadendo in
Siria, dove lo scontro fra regime e anti-regime sta distruggendo un
Paese e massacrando la popolazione.
In un certo senso proprio nel
momento in cui i riformisti — sia per la potente reazione dei
conservatori all’esperimento Khatami che per i propri errori — sono
apparentemente fuori gioco, è la maggioranza del Paese ad avere adottato
il progetto politico di un cambiamento graduale, un progetto che ha
l’appoggio di riformatori che non sono riformisti, ma che sono convinti
della necessità del cambiamento e del pericolo di un ritorno
all’estremismo ideologico di Ahmadinejad. Una coalizione che infatti si
presenta alle elezioni come “Alleanza dei riformisti e dei sostenitori
del governo”.
Si tratta di una coalizione che sa che ben
difficilmente riuscirà a trionfare in queste elezioni — parzialmente
autentiche, parzialmente falsate — ma che si accontenterebbe di ridurre i
danni riuscendo a impedire che siano le forze più radicalmente retrive a
consolidare il proprio dominio non solo sul Parlamento ma anche
sull’Assemblea degli esperti, organo che prima o poi (e forse non troppo
poi) sarà chiamato alla decisione sulla successione di Khamenei, una
decisione cruciale per il futuro della Repubblica Islamica.
(L’autore è diplomatico e scrittore, già Ambasciatore in Iran e India)