Repubblica 23.2.16
Il populismo usa tra miracoli e paure
Per Sanders e Trump sarebbe la crescita a finanziare il disavanzo fiscale
Ed entrambi danno supporto a politiche protezionistiche
di Alberto Bisin
IL
SUCCESSO di Donald Trump e Bernie Sanders nelle primarie per l’elezione
del presidente degli Stati Uniti è inaspettato. Molti osservatori
leggono questo successo come la manifestazione di un cambiamento
profondo nelle attitudini dell’elettorato americano. Trump e Sanders
rappresenterebbero il rifiuto ed il superamento, a destra come a
sinistra, della vecchia politica dei partiti tradizionali; la nascita di
una politica nuova, che prende forza dal basso, sconnessa da lobby e
grandi gruppi privati. Vi è certamente molto di vero in questa
narrativa. Né Trump né Sanders sono infatti rappresentazione del proprio
partito. Anzi, al contrario, entrambi sono in qualche modo da esso
ostracizzati. Inoltre, Trump argomenta di stare finanziando la campagna
elettorale con soldi propri, mentre Sanders finanzia larga parte delle
operazioni della sua campagna attraverso tanti piccoli versamenti dei
suoi entusiasti elettori. Infine, entrambi possono facilmente esaltare
queste nuovi aspetti della propria candidatura confrontando se stessi a
candidati percepiti come evidenti creazioni della vecchia politica, Jeb
Bush per Trump e Hillary Clinton per Sanders.
Detto questo però,
l’aspetto realmente sorprendente del successo di Trump e Sanders, la
ragione per cui esso ha eluso le previsioni degli esperti, consiste
sostanzialmente nel solo fatto che gli elettori non sembrano penalizzare
particolari aspetti del carattere e della storia personale dei due
candidati. Anzi, l’esagerata auto-stima di Trump, le sue parole
irresponsabili, il suo presentarsi come un uomo d’affari senza scrupoli,
impreparato e fiero di esserlo, sembrano esaltare il suo elettorato. E
anche l’immagine di Sanders, anziano politico, sempre marginale nella
sua carriera, fiero di dichiararsi socialista (un termine dai connotati
tradizionalmente negativi per tutto l’elettorato americano), non sembra
avere effetti negativi.
Esaminando i loro programmi elettorali, si
scoprono però sia in Trump che in Sanders forme abbastanza estreme e in
realtà, sotto alla superficie ideologica, molto simili di classico
populismo. Entrambi i loro programmi sono infatti centrati sulle due
componenti determinanti del populismo: promesse favolose ed
irrealizzabili e sfruttamento delle paure profonde dell’elettorato. In
questo senso il loro successo, almeno in questa fase delle primarie, non
è affatto una novità, né dovrebbe significare una gran sorpresa.
Più
in dettaglio, Sanders propone una larga estensione del sistema di
welfare, con grandi interventi di spesa sostanzialmente permanenti su
infrastrutture, lavoro (attraverso un notevole aumento del salario
minimo), sanità e istruzione (che diventerebbero in larga parte
pubbliche e gratuite). Il totale di spesa è stimato, conservativamente,
da fonti vicine a Sanders, a circa 16 mila miliardi di dollari in 10
anni (pari a circa il 90% di un anno di Pil Usa). Far tornare i conti
pubblici, finanziando una spesa di tali dimensioni senza aumentare
notevolmente le tasse alla classe media, è sostanzialmente contrario ad
ogni logica che rispetti il vincolo di bilancio. La via d’uscita, come
da libro di testo di economia populista, sta nell’immaginare un miracolo
economico di crescita che permetta al debito di pagarsi da solo. Ed
ecco che con un tasso di crescita dell’economia americana di oltre il 5%
per 10 anni tutto si risolve (i conti sono di Gerald Friedman, per
questo diventato economista di riferimento della campagna di Sanders).
Peccato naturalmente che gli Stati Uniti non siano una economia in via
di sviluppo e fatichino a sostenere tassi di crescita medi del 2%.
Trump
invece propone una riduzione delle tasse sostanzialmente attraverso una
riduzione dell’aliquota sulle imprese e sui redditi più elevati e
attraverso una estensione del credito d’imposta ai redditi più bassi
(più nominale che altro, in realtà). Il costo del programma è stimato in
circa 10 mila miliardi di dollari in 10 anni. Anche in questo caso far
tornare i conti è sostanzialmente impossibile e nessun dettaglio è
fornito al riguardo, a parte suggerire che le minori tasse indurrebbero
un tale aumento dell’attività economica da non richiedere tagli di spesa
ma solo una sua razionalizzazione. Come in Sanders, quindi, sarebbe la
miracolosa crescita economica a finanziare il disavanzo fiscale. L’unica
differenza, l’unico punto dove la diversa ideologia agisce sui
programmi elettorali, è che in Sanders è la spesa pubblica a generare
crescita, mentre in Trump sono le imprese private. Ma sempre di miracoli
si tratta.
Per quanto riguarda invece lo sfruttamento delle paure
profonde dell’elettorato, entrambi i candidati sostengono il proprio
supporto a politiche protezionistiche, veicolo classico e tra i più
perniciosi del populismo, presentando la “globalizzazione” come uno dei
principali e temibili nemici economici della classe media. Sanders si
dichiara contrario ad ogni accordo sul libero commercio internazionale,
da quelli passati (come Nafta con il Messico) a tutti quelli previsti
futuri (incluso quello riguardante i paesi sull’oceano Pacifico). Trump
propone addirittura l’imposizione di elevate tariffe su beni importati
da Messico e Cina. Unica differenza tra i due è che Trump, da destra,
aggiunge a tutto questo un fortissimo ed evidente richiamo al
nazionalismo anti-Cina.
L’altro classico spauracchio populista è
naturalmente l’immigrazione. Per Trump è naturalmente molto più facile
cavalcarlo; di qui la voce grossa, i muri, eccetera. Ma anche Sanders,
che pure per convenienza politica tende oggi a essere relativamente
quieto sull’argomento, ha spesso in passato sposato posizioni
anti-immigrazione al Senato, addirittura votando in linea coi
Repubblicani.
In buona sostanza, il populismo paga ed è sempre sostanzialmente uguale a se stesso, a destra o a sinistra.