martedì 23 febbraio 2016

Repubblica 23.2.16
L’architettura può sconfiggere la disuguaglianza
Parla il cileno Alejandro Aravena che presenta la sua Biennale “Il mondo non finisce nelle periferie”
di Francesco Erbani

VENEZIA È una Biennale che non espone. Propone domande e fa sfilare esperimenti e soluzioni possibili. È la Biennale architettura firmata da Alejandro Aravena, la quindicesima della serie. Durerà sei mesi, dalla fine di maggio alla fine di novembre e non sarà una rassegna di soluzioni formali prodotte da architetti e destinate ad architetti. «Dalla corte degli architetti al pubblico», sintetizza Paolo Baratta, presidente della Biennale. Cambia lo statuto. Da una disciplina che ambisce a realizzare oggetti singoli, stupefacenti e spiazzanti, a un’altra che si misura con una quindicina di espressioni chiave. Fra le altre: disuguaglianze, periferie, disastri naturali, emergenza abitativa, migrazioni, trasporto pubblico, spreco... Sono le questioni che da una quindicina d’anni impegnano Aravena. Cileno, quarantanove anni, camicia bianca fuori dai pantaloni, capigliatura arruffata ma con cura, Aravena viene da un mondo in cui «si lavora con scarsità di mezzi e non si può fare quel che si vuole, ma bisogna sempre spiegare perché lo si fa». E aggiunge: «È un importante filtro contro l’arbitrarietà». Ma vivere e lavorare in città che si espandono slums dopo slums, deve aiutare a cercare soluzioni, progetti, dispositivi fisici che attenuino la sofferenza. E ad essi Aravena dedica gli sforzi che lo hanno portato, nel gennaio scorso, a vincere il premio Pritzker, il nobel dell’architettura, completando con il proprio nome una galleria di luccicanti archistar. Anche qui un cambio di statuto.
Reporting from the front – questo il titolo della prossima Biennale – chiama a raccolta una novantina di espositori, un terzo dei quali sotto i quarant’anni. Mostreranno come hanno interpretato le espressioni chiave indicate da Aravena. Non ci sono immagini che anticipino i progetti. Salvo una, introduttiva: una foto scattata da Bruce Chatwin che ritrae un’archeologa tedesca, Maria Reiche, sopra una scala d’alluminio che osserva i tracciati di pietre del deserto peruviano di Nazca raffiguranti uccelli, giaguari, alberi e fiori. Spiega Aravena: «Nessuno di noi stando a terra vede altro che pietre, ma da lassù le figure appaiono evidenti: ecco cosa chiediamo a chi espone alla Biennale, chiediamo di fornire proposte, interpretazioni che non riusciamo a percepire ». Saranno presenti molti giovani (fra i quali anche il gruppo inglese Assemble e l’indiana Anupama Kundoo) e anche i più smaglianti Peter Zumthor, David Chipperfield, Herzog & de Meuron, Kazuyo Sejima, Kengo Kuma, Norman Foster, Rem Koolhaas, Richard Rogers, Eduardo Souto de Moura, Tadao Ando e poi Renzo Piano con il gruppo G124, i giovani professionisti che Piano finanzia con lo stipendio di senatore a vita.
Una concessione allo star system?
«No – replica Aravena – non tutto delle cose che questi progettisti realizzano c’interessa, ma perché non mettere a disposizione la loro creatività quando si confronta con i temi che abbiamo scelto?». E il pensiero corre a Piano e al lavoro nelle periferie di alcune città italiane.
Le periferie sono il suo humus culturale. Le periferie di una città e anche la periferia latinoamericana.
«Vivere ai margini rispetto ai grandi flussi consente di non avere un padre da uccidere, un’ombra che sovrasta ogni passo. Però incombe il rischio di accettare tutto quel che arriva da fuori senza dare valore a ciò che è più prossimo. Il luogo di margine impone di essere molto informati su quel che accade al centro del mondo e contemporaneamente di capire le pratiche virtuose che lì e non altrove si attuano. La periferia non è il luogo dove il mondo finisce, diceva Iosif Brodskij».
L’altra costrizione da cui proviene la sua architettura è la dittatura di Augusto Pinochet.
«L’ho vissuta da studente universitario, quando si forma il carattere e si è ribelli per natura. Noi dovevamo essere doppiamente ribelli».
Una volta laureato, è venuto in Italia. Perché?
«Sono venuto a Venezia. Era il 1992. Volevo conoscere le architetture che avevo studiato solo in fotografia. Volevo andare alle fonti. Camminavo per le calli e misuravo edifici. E la stessa curiosità mi ha spinto in Sicilia e in Puglia».
Quindi è tornato in Cile.
«Sì e ho iniziato a lavorare. Ma ho incontrato solo clienti orribili. Per due anni ho lasciato i tavoli da disegno e ho fatto il barista. Poi di nuovo la passione mi ha catturato. Ma stavolta la direzione di marcia era tutt’altra. All’inizio del Duemila ho fondato Elemental, uno studio dedicato all’edilizia sociale. Il primo progetto rilevante è un complesso per un centinaio di famiglie a Iquique. La dotazione pubblica copriva spese per 7.200 dollari. Trecento dovevano metterli le famiglie. Si poteva fare solo una piccola, disagiata e miserevole abitazione. Invece abbiamo progettato metà di un appartamento, l’altra metà era a carico dei residenti. Quando ho vinto il Pritzker è venuta a trovarmi una donna che era stata fra le prime abitanti di Iquique. Mi ha raccontato che alcuni di loro avevano venduto. Ho chiesto a quanto. A sessantacinquemila dollari, mi ha risposto».
Che seguito ha avuto quell’esperienza?
«Quel progetto, che risale al 2003, è stato replicato decine e decine di volte. L’ultimo risale al 2010 ed è stato realizzato a Constitucion, dopo il terribile tsunami. Non venne fornito solo un alloggio, venne data l’occasione per generare una ricchezza che avrebbe consentito ai figli di quei pionieri di studiare e di avviare un’attività. Iquique è l’esempio di un luogo che produce comunità, lo spazio pubblico è curato come un bene prezioso che dà altro valore alle case. Elemento centrale è stata la partecipazione: tante domande, tanti bisogni espressi e un architetto che con carta e matita offre una sintesi».
Quali altri strumenti ha l’architettura per attenuare le disuguaglianze?
«Può progettare un buon sistema di trasporto pubblico. L’America Latina mostra esperimenti encomiabili. A Bogotà e a Medellín si è drasticamente ridotto il tasso di criminalità giovanile perché le immense favelas sono state meglio collegate fra loro e con il centro da sistemi di funicolari e di tram. Quel che genera i conflitti e la rabbia non è la povertà in sé quanto la disuguaglianza. La povertà è ridotta nel mondo, è peggiorata la disuguaglianza. La redistribuzione non basta a colmarla. Perché sia efficace ci vuole molto tempo. La città offre occasioni per diminuire le disuguaglianze se fornisce un trasporto pubblico efficiente e di qualità. Come l’investimento in spazio pubblico. Sono interventi in cui l’architettura ha un ruolo decisivo».