Repubblica 23.2.16
La strada dei diritti
Bisogna
riprendere un percorso coerente con il fatto che si sta discutendo di
dignità e identità delle persone. Non tutto è negoziabile
di Stefano Rodotà
LA
DISCUSSIONE sulle unioni civili avrebbe bisogno di limpidezza e di
rispetto reciproco, invece d’essere posseduta da convenienze politiche,
forzature ideologiche, intolleranze religiose.
Di fronte a noi è
una grande questione di eguaglianza, di rispetto delle persone e dei
loro diritti fondamentali, che non merita d’essere sbrigativamente
declassata, perché altre urgenze premono. I diritti, dovremmo ormai
averlo appreso, sono indivisibili, e quelli civili non sono un lusso,
perché riguardano libertà e dignità di ognuno.
Bisogna liberarsi
dai continui depistaggi. La maternità surrogata, vietata fin dal 2004,
viene evocata per opporsi all’adozione dei figli del partner,
penalizzando proprio quei bambini che si dice di voler tutelare e
tornando così a quella penalizzazione dei figli nati fuori dal
matrimonio eliminata dalla civile riforma del diritto di famiglia del
1975. E si dovrebbe ricordare che la Costituzione parla della famiglia
come società “naturale” non per evitare qualsiasi accostamento alle
unioni tra persone dello stesso sesso, ma per impedire interferenze da
parte dello Stato in «una delle formazioni sociali alle quali la persona
umana dà liberamente vita», come disse Aldo Moro all’Assemblea
costituente. Altrimenti ricompare la stigmatizzazione
dell’omosessualità, degli atti “contro natura”.
L’impegno
significativo del presidente del Consiglio per arrivare ad una
disciplina delle unioni civili rispettosa di quello che la Corte
costituzionale ha definito come un diritto fondamentale a vivere
liberamente la condizione di coppia, si è via via impigliato nel
prevalere delle preoccupazioni legate alla tenuta della maggioranza. Il
riconoscimento effettivo di diritti fondamentali viene così subordinato
ad una esigenza propriamente politica che sta svuotando la portata della
nuova legge. E non si può dire che si cerchi di procedere con la
cautela necessaria, data la delicatezza dell’argomento, perché la
cautela si è trasformata nel progressivo abbandono di una linea
rigorosa, nel gioco delle concessioni verbali che tuttavia inquinano il
senso della legge in punti significativi.
È indispensabile
riprendere una strada coerente con il fatto che si sta discutendo di
dignità e identità delle persone, dunque di una materia dove non tutto è
negoziabile. Il legislatore sta oscillando tra concessioni improprie e
irrigidimenti ingiustificati. Una assai discutibile e discussa sentenza
del 2010 della Corte costituzionale viene eretta a baluardo
inespugnabile, che non consentirebbe neppure di adempiere a quel dovere
positivo di riconoscimento pieno dei diritti delle coppie tra persone
dello stesso sesso imposto all’Italia da una sentenza di condanna del
2015 della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per sfuggire a questa
responsabilità, più si va avanti più si delinea una situazione in cui il
legislatore sta costruendo una sua gradita impotenza.
Non posso
intervenire perché avrei bisogno di una legge costituzionale. Non posso
intervenire perché devo ancora considerare il codice civile come un
riferimento ineludibile. Non posso muovermi nel nuovo contesto costruito
dai principi e dalle regole europee. Non posso intervenire perché
l’opportunità politica variamente mascherata me lo preclude.
Nessuno
di questi argomenti regge. Nel 2013 la Corte di Cassazione ha detto
esplicitamente che le scelte in questa materie sono affidate al
legislatore ordinario. Ricostruire il principio di riferimento nel fatto
che il codice civile parla ancora di diversità di sesso nel matrimonio è
un errore di grammatica giuridica perché si dimentica che la
Costituzione si pone in una posizione gerarchicamente superiore al
codice civile e bisogna interpretare la Costituzione partendo dal
principio di eguaglianza. Proprio la forza di questo principio ha
determinato un radicale cambiamento del sistema istituzionale europeo.
La Carta dei diritti fondamentali ha cancellato il requisito della
diversità di sesso sia per il matrimonio, sia per ogni altra forma di
costituzione della famiglia, e ha ribadito con forza che non sono
ammesse discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale. Se si guarda
più a fondo nel nostro sistema, neppure l’accesso al matrimonio
egualitario sarebbe precluso al legislatore ordinario.
In questo
nuovo mondo, che pure le appartiene e nel quale ha liberamente deciso di
stare, l’Italia è recalcitrante ad entrare. E così conferma un ritardo
culturale, che in altri tempi aveva vittoriosamente sconfitto, anche in
occasioni difficili come quelle dell’approvazione delle leggi sul
divorzio e dell’aborto, senza restare prigioniera delle preoccupazioni
della Chiesa, che oggi tornano in maniera inquietante e inattesa.
Di
nuovo lo sguardo si fa ristretto, la riflessione culturale si
rattrappisce e non si riesce a dare il giusto rilievo al fatto,
sottolineato con forza dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che
ormai la maggioranza dei Paesi del Consiglio d’Europa riconosce le
unioni civili e che aumentano continuamente gli Stati dov’è riconosciuto
il matrimonio tra persone dello stesso sesso — Francia, Spagna,
Portogallo, Stati Uniti, Danimarca, Inghilterra, Irlanda, Svezia,
Norvegia, Svizzera, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Slovenia, Argentina,
Brasile, Uruguay, Sudafrica. Strada che questi Paesi non percorrono con
avventatezza, ma riflettendo con serietà, e che dovrebbero essere un
riferimento per sfuggire alla superficialità con la quale troppo spesso
in Italia si affrontano questioni serie come quelle riguardanti le
adozioni coparentali (stepchild adoption).
Tema, questo, che
trascura del tutto le dinamiche degli affetti, la genitorialità come
costruzione sociale e che, a giudicare da alcuni improvvidi emendamenti
al disegno di legge in discussione al Senato, rischia di lasciare
bambine e bambini in un avvilente limbo, che di nuovo nega dignità ed
eguaglianza.
Ancora e sempre l’eguaglianza, che la Corte
costituzionale non ha adeguatamente considerato in quella sentenza del
2010, la cui interpretazione dovrebbe essere seriamente riconsiderata a
partire dal nuovo contesto istituzionale europeo. Perché no? Ricordiamo
che, con una violazione clamorosa del principio di eguaglianza, nel 1961
la Corte costituzionale dichiarò legittima la discriminazione tra
moglie e marito in materia di adulterio. La Corte si ravvide nel 1968,
mostrando che l’eguaglianza e la vita non possono essere consegnate alla
fissità di una decisione.
Un legislatore, che sta costruendo la
sua impotenza, dovrebbe piuttosto riflettere sulla sentenza della Corte
Suprema degli Stati Uniti che, nel 2015, ha ammesso il matrimonio tra
persone dello stesso sesso. Ferma restando la legittima manifestazione
di ogni opinione, i giudici americani hanno affermato il loro dovere di
sottrarre i diritti fondamentali alle «vicissitudini della politica».