Repubblica 22.2.16
Nascita di una nazione (democratica)
In
“Storia della Repubblica” Guido Crainz ripercorre settant’anni del
nostro Paese. A partire dal giorno in cui le donne andarono a votare
di Simonetta Fiori
Quel
giorno le donne si svegliarono allegre. Qualcuna la notte prima non
aveva chiuso occhio, perché si trattava di una prima volta, e chi può
sapere cosa si prova davanti a una scheda bianca. Alba de Céspedes uscì
di casa con il passo leggero, come di chi «si sente i capelli ben
ravviati sulla fronte». Maria Bellonci provò anche una sorta di
smarrimen-to, in fondo era il suo battesimo da cittadina, ma bastò
riconoscerlo per riprendere la rotta. E Anna Banti fu la più spietata
con se stessa, in un modo che solo le donne conoscono: e se sbaglio tra
il segno della repubblica e quello della monarchia? Così settant’anni fa
le italiane andarono al loro primo voto, quello che avrebbe segnato
l’inizio della democrazia repubblicana. E così ha inizio la lunga storia
che Guido Crainz ha scritto per Donzelli, bruciando i tempi
sull’anniversario della Repubblica che cade il prossimo giugno: una
cavalcata di quattrocento pagine che dall’Italia devastata dalla guerra
arriva alle “terre incognite” di questi giorni. Ma è possibile
storicizzare l’oggi, riducendosi praticamente a zero la distanza tra lo
storico e i tumultuosi accadimenti della contemporaneità? L’autore di
Storia della Repubblica ci ha provato con un ammirevole sforzo di
sintesi che è difficile rintracciare nell’attuale produzione
storiografica. E la chiave del felice esperimento va cercata nelle fonti
predilette da Crainz, che sono prevalentemente romanzi e film,
quotidiani e riviste, il variegato deposito dell’immaginario popolare
capace di fotografare negli italiani umori e allergie, speranze e
disillusioni più di quanto raccontino le aride statistiche. È grazie ad
Alberto Moravia che nel 1947 entriamo nella periferia degradata di Roma,
«un campo di concentramento senza filo spinato e torri di guardia». Ed è
con Anna Maria Ortese che ci si interroga in quegli stessi anni sulla
strana convivenza dentro il Pci «tra spiriti profondamente liberali e
altri incapaci di laica indipendenza». Senza l’ironia agra di Luciano
Bianciardi sarebbe difficile mettere a fuoco il volto crudele della
modernizzazione. E nel successivo decennio dei Settanta spetta ad
Alberto Arbasino sancire «ascesa e caduta delle illusioni », con il
tramonto dei «valori come lo Sviluppo e il Progresso e la Crescita». Gli
scrittori assolvono con ostinazione al ruolo di coscienza critica.
Nella bufera di Tangentopoli, con mezza classe politica in galera e la
gente in piazza ad applaudire, Giovanni Raboni non riesce a scacciare
«un pensiero sordo e odioso come certi dolori: e noi, nel frattempo,
dove eravamo?».
Ecco, forse la domanda che corre lungo
settant’anni è come sia stato possibile passare dalla “necessità dei
partiti”, da una politica onnipresente con un tasso altissimo di
partecipazione al voto, al trionfo del suo esatto contrario, tra
astensionismo e trionfo dell’antipolitica. Domanda che potrebbe essere
estesa a molti altri paesi ma che in Italia ha una sua particolare
urgenza. E secondo Crainz vi si può rispondere solo risalendo ad alcuni
vizi di origine del sistema politico, ossia la continuità con il
fascismo che aveva segnato la presenza invasiva del partito- Stato
dentro le vite degli italiani. E anche il concetto di democrazia,
puntualizza lo storico, non appariva del tutto chiaro e scontato, «né
per il partito comunista né per il mondo cattolico». Oggi possono
sembrare fogli ingialliti d’un album rimosso, eppure colpiscono le
ferite dell’amputazione democratica negli anni della guerra fredda: un
centinaio di lavoratori uccisi dalle forze dell’ordine tra il 1947 e il
1950, schedature per centinaia di migliaia di cittadini sospetti di
militanza comunista, ripetuti controlli sugli insegnanti con
interrogatori ai colleghi e ai genitori degli alunni. Nella “democrazia
congelata” di quella stagione i diritti esistono, ma non per tutti.
Un
altro filo rosso che attraversa questi decenni è l’incapacità della
politica di guidare i grandi cambiamenti del paese. La società appare
sempre un passo avanti, dietro una classe politica perennemente in
affanno. Accade in questi giorni con le unioni civili ma è un tratto
costante, ripetitivo, che si manifesta sin dai tempi dell’«inattesa
Belle époque» – come la chiama Italo Calvino – ossia il grande salto del
miracolo economico, quando l’Italia conosce «un nuovo modo di produrre e
consumare, di pensare e di sognare, di vivere il presente e progettare
il futuro». A fronte di colossali rivolgimenti, continua a operare per
tutti gli anni Cinquanta un sistema arcaico, «apparati, uomini e culture
portati a considerare il mutamento come una minaccia mortale». E anche
«il più serio tentativo riformatore dell’Italia Repubblicana » – la
stagione dei Lombardi e dei Giolitti – avrebbe visto presto all’opera
forze contrarie, accompagnate da “un tintinnar di sciabole”. È in questo
passaggio, nello sfumare «non tanto di una singola riforma ma del
modello riformista in quanto tale», che secondo Crainz comincia la
grande mutazione genetica, «la trasformazione di una società operosa in
un verminaio dedito alla dilapidazione». E nella severa diagnosi
coincidono le analisi di Pietro Scoppola e le riflessioni di Eugenio
Scalfari che denuncia un mercato senza regole e rapporti ormai
imbarbariti. Così come era stata cieca alla nascita dell’età dell’oro,
la classe politica non si sarebbe accorta della sua fine, sancita dalla
crisi petrolifera. Siamo già nei Settanta, il decennio delle “occasioni
mancate” o forse – come ipotizza Giorgio Bocca – delle “occasioni
inesistenti”. Anni di piombo che però secondo lo storico non sono
riducibili al solo dilagare di violenza e terrorismo ma anticipano
culture e comportamenti di massa affiorati in superficie più tardi: il
successo come valore assoluto, il disprezzo per le regole e i vincoli
collettivi, l’ambizione mai frenata da scrupoli etici. Comportamenti che
se prima vengono trattenuti da identità collettivi forti – leggi i
partiti di massa – in assenza di anticorpi sono destinati a deflagrare.
Una “diseducazione civica” che in Italia avrebbe trovato svariati
“eroi”, con l’imperversare della corruzione nella politica e nella
società.
Il sistema partitocratico sarebbe arrivato al capolinea
negli anni Novanta, travolto dalla “grande slavina” di Tangentopoli. E
ancora una volta è uno scrittore come Claudio Magris a dare voce al
timore «che il paese si dissolva e tra breve l’Italia – nell’attuale
forma politico statuale e dunque anche culturale – possa non esistere
più». In questo clima da camposanto avanza con “il sorriso alla
Fernandel” (copyright Cesare Garboli) un nuovo protagonista che riuscirà
più volte a vincere le elezioni ma non a governare il paese. E suona
profetico l’editoriale scritto da Norberto Bobbio nel 1991 per La
Stampa, poi ritirato per eccesso di pessimismo: «La gestione della
seconda Repubblica se dovesse nascere sarà lunga. Ma poiché se dovesse
nascere... nascerebbe con gli stessi uomini che non solo sono falliti ma
sono inconsapevoli del loro fallimento, non potrà che nascere male,
malissimo, come male, malissimo è finita la prima». La seconda
Repubblica non è mai nata, sancisce Crainz. Al suo posto un “lungo
regno” berlusconiano su cui la sentenza degli storici appare unanime e
inappellabile. E ancora si fanno i conti con la sua pesante eredità.
E
oggi? La cavalcata di chiude con il premierato di Renzi in «un’Italia
che ha difficoltà a invertire la rotta ». Un paese spaesato che continua
a pagare cecità e sciupii di precedenti classi dirigenti. Il racconto
dello storico mostra fatalmente un passo più affannato, in una inedita
geografia devastata da terrorismo globale e apocalisse migratoria. E
sempre più fioche risuonano le voci di quel ceto intellettuale che
l’aveva accompagnato fin dal principio della storia (a proposito, dove
sono finiti gli scrittori?). Così quelle donne che allegramente si
affrettavano alle urne, la mattina del 2 giugno del 1946, nel disincanto
di oggi sembrano ombre arrivate dalla luna.
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IL LIBRO Storia della Repubblica di Guido Crainz ( Donzelli pagg. 388
euro 27) Nella foto in alto una donna vota per la prima volta al
referendum del 2 giugno 1946