Repubblica 21.2.16
I tabù del mondo
Colpire gli infedeli perché si uccide in nome dell’Idea
Mentre
il nostro povero Io, come diceva Freud, è un Arlecchino servitore di
padroni diversi, il fanatico ha un ego fatto di piombo al servizio di un
unico scopo
Nessuno sembra sfidare il limite umano per
eccellenza, la morte, quanto il terrorista. Una figura universale:
cambia la Causa, resta identica la spinta ad armare la propria mano nel
folle sogno di ripulire il mondo, restituirlo a un ordine smarrito.
Senza mai avere dubbi, senza alcun senso di colpa. Per conto di Dio o
della Storia
di Massimo Recalcati
Nessuno nel
nostro tempo sembra sfidare il tabù della morte come il terrorista che
sacrifica la propria vita per la sua Causa. Il Novecento ci aveva
abituato; morire per la Causa attraversa il cataclisma del totalitarismo
assumendo forme diverse, ma tutte accomunate dallo stesso principio: il
valore particolare di una vita è subordinato a quello universale della
Causa sia essa quella della Storia, della Razza o del Partito. Lo
spirito ipermoderno è invece animato da un profondo disincanto nei
confronti di ogni forma di Universale tranne quello della
globalizzazione capitalista. In Occidente nessuno muore più per la Causa
perché la sola Causa che conta è quella cinica e narcisistica del
proprio Io. Lo spirito di Antigone ha lasciato il posto a quello
dell’avaro di Molière che vive attaccato alla propria cassaforte per
scongiurare qualunque forma di perdita. Il terrorista, invece, rischia
di essere l’ultimo superstite dell’ideologia della Causa; egli non
agisce nel nome del proprio Io, ma in quello dell’Ideale al quale si
consegna anima e corpo. Arma la sua mano rinunciando alla propria vita,
facendosi strumento della Verità assoluta di cui crede di essere il solo
interprete.
La sua psicologia si fonda su di un principio
inamovibile di innocenza e di purezza: la strage o l’assassinio mirato
serve per ripulire il mondo dagli infedeli, per restituire al mondo il
suo ordine smarrito, per guarirlo dalla sua infezione. In ogni
terrorista si cela un educatore: «colpirne uno per educarne cento», non è
solo uno slogan raccapricciante, ma traduce il principio “morale” che
guida il terrorista nella sua azione. Il suo presupposto è terribilmente
pedagogico: colpire il nemico serve alla purificazione del mondo, serve
a educare gli impuri.
Lo spirito del terrorista è
anti-cartesiano, o, come direbbe Wilfred Bion, «privo di mente e di
pensiero». Egli agisce senza paura della morte perché non conosce il
tarlo del dubbio. Il terrorista non è un soggetto diviso, la sua
coscienza non è tormentata, il suo essere è compatto, granitico,
roccioso, duro. L’autocritica, il disorientamento, la fiacchezza non gli
appartengono, sono sentimenti estranei al suo mondo. La freddezza
inumana che deve caratterizzare la sua azione traduce sintomaticamente
questa assenza totale di divisione. L’identificazione alla purezza
dell’innocente giustifica ogni suo crimine trasfigurandolo in un’azione
gloriosa compiuta nel nome della Causa. Per questa ragione anche il
senso di colpa non può avere alcun diritto di cittadinanza nella
coscienza del terrorista. Il suo eroismo non conosce mai davvero la
solitudine e l’abbandono: lo sguardo della Storia o di Dio lo guidano e
non lo lasciano mai solo promettendogli ricompense eterne. Mentre
Antigone sacrifica la propria vita nel nome dell’amore per il fratello,
il terrorista sacrifica la sua vita e quella dell’infedele nel nome del
suo amore assoluto per la Causa.
In questo senso egli rompe ogni
tabù, ogni argine, ogni senso umano del limite agendo in nome del “vero
Bene” che gli impone di usare tutto il “Male” possibile per distruggere
il “falso Bene” che governa la vita degli infedeli. Se egli agisce nel
nome del Bene assoluto niente può, infatti, arrestare la sua azione:
nessun senso di colpa, nessuna Legge, nessun tabù. Gli infedeli sono
impuri, bestie, subumani, microbi, virus, peccatori: le loro vite non
hanno diritto di esistere perché non sono vite degne. Le loro Leggi non
sono la vera Legge, ma solo un’ipocrisia della Legge. Gli infedeli sono
tutti corrotti, marci, scimmie ammaestrate, prede inconsapevoli del loro
narcisismo e della loro ingordigia. Essi vivono in un mondo decadente,
in sfacelo, privo di valori perché hanno smarrito il contatto con il
solo “vero Bene” e la sola “vera Legge”. Non esiste, infatti, altra
Legge se non quella della Storia, della Razza, del Partito o di Dio di
cui il terrorista si considera un servo fedele. La sua anima è invasata
dalla Causa che, per un verso, la acceca ma, per un altro verso, la
eleva al rango di giudice e giustiziere: lo spirito del terrorista non
si arresta di fronte al volto impaurito e inerme del suo avversario, non
fa prigionieri, non consente alcun dialogo, non crede nella Legge della
parola. Anche l’assassinio più crudele e spietato diventa un giusto
tributo richiesto dalla Causa.
Il suo desiderio è solo un
desiderio di morte che non conosce tentennamenti. Mentre il nostro
povero Io è un aggregato molteplice di identificazioni, un arlecchino
servitore di padroni diversi — come lo descrive classicamente Freud —,
instabile e insicuro, l’Io del terrorista è fatto di piombo. L’esistenza
dell’impuro serve a confermare la sua inviolabile purezza. La sua
vocazione fondamentalista scaturisce dall’identificazione ipnotica alla
Causa che lo libera da ogni preoccupazione vanamente umanistica. La
Verità che egli serve non ha infatti più alcun rapporto con gli esseri
umani; è una Verità assoluta, incontrovertibile, imperitura,
sovrastorica. È la convinzione che nutre la forza sempre settaria del
terrorista: essere servo della Verità lo rende padrone della vita degli
altri. In questo senso la sua servitù è la forma più piena di libertà,
il sacrificio di sé la forma più alta di realizzazione, la sua
spietatezza la forma più evidente della sua innocenza, la sua arroganza
la forma più delicata di dedizione.