Repubblica 20.2.16
Costruiamo un paese che attragga i cervelli
Se i nostri studiosi hanno successo nel mondo non sarà perché la nostra vituperata scuola è migliore di quel che amiamo credere?
di Salvatore Settis
CERVELLI
in fuga, rientri dei cervelli, successi dei ricercatori italiani
all’estero. Su questo fronte si scontrano due opposte retoriche, le
geremiadi sull’Italia matrigna che costringe all’emigrazione i migliori e
l’esultanza sul talento italiano che trionfa nel mondo. C’è del vero in
entrambe, ma una più quieta analisi rivela altri elementi. Il tasso di
emigrazione (a prescindere dal grado di istruzione) è raddoppiato negli
ultimi cinque anni, e intanto l’attrattività dell’Italia è
drammaticamente calata. Nel 2014 il saldo migratorio con l’estero
nell’età più produttiva registra una perdita di 45.000 residenti, dei
quali 12.000 laureati, che hanno trovato impiego in Europa, ma anche in
America e in Brasile. Dati preoccupanti, che accrescono l’età media di
un Paese già tra i più vecchi del mondo (157,7 ultra-65 per 100 minori
di 15 anni). Ma l’emigrazione di chi fa ricerca ha risvolti economici e
produttivi, non solo demografici. Prima di tutto, perché dalla ricerca
(anche da quella “pura”, le cui applicazioni vengono dopo anni) nasce
l’innovazione, che a sua volta genera produttività e occupazione. E poi
perché gli anni di formazione, dalle elementari ai dottorati, hanno per
il Paese un costo pro capite altissimo, ed è dissennato e antieconomico
“regalare” ad altri un ricercatore di prima qualità dopo averlo allevato
a caro prezzo.
C’è qui un equivoco da dissipare: da sempre chi fa
ricerca si muove da un Paese all’altro, anzi l’esistenza di clerici
vagantes è un requisito della libertà intellettuale. Niente di male se
un biologo o un archeologo italiano va a lavorare in Svizzera o in
Canada. A meno che questo flusso non sia unidirezionale, cioè in netta
perdita. È quel che accade in Italia, dove il saldo negativo è intorno a
10 a 1 (uno straniero che fa ricerca in Italia per ogni 10 italiani
all’estero). Ma il trend comincia già negli anni universitari, dove
l’Italia è sempre meno attrattiva per gli studenti di altri Paesi: nel
2014 quasi 50.000 italiani sono andati a studiare all’estero, solo
16.000 stranieri sono venuti in Italia (contro i 68.000 che sono andati
in Germania o i 46.000 della Francia). Secondo l’Ocse, che ha diffuso
questi dati, lo squilibrio è dovuto ai bassi salari e alla difficoltà di
trovar lavoro in Italia, dove «nel 2014 solo il 65% dei laureati fra 25
e 34 anni hanno trovato impiego, ed è questo il livello più basso
d’Europa (media 82 %)».
Un indice significativo è offerto dai
finanziamenti Erc (European Research Council) per i giovani (entro 12
anni dal dottorato): fino a 2 milioni per ogni progetto, che il
vincitore può spendere dove crede, scegliendo una host institution in
uno dei Paesi Ue. Colpisce, guardando le statistiche 2015 (oltre un
miliardo di euro di fondi distribuiti), il contrasto fra due dati: da un
lato, l’Italia è al secondo posto dopo la Germania, con 61 progetti
vincenti. Dall’altro lato, il numero degli italiani che portano in altro
Paese la propria “dote” è il più alto d’Europa: 31 su 61, il 50%.
Niente di male se un italiano preferisce un laboratorio inglese; ma nel
Regno Unito, se i vincitori sono 54 (meno degli italiani), a scegliervi
la host institution sono ben 115, con un saldo nettamente positivo (+
61).
Lo stesso vale per Germania, Francia, Olanda, e così via:
l’Italia è il fanalino di coda (è stata scelta da due soli stranieri, un
portoghese e una romena), con forte saldo negativo (- 30). Perché? La
verità è che ricercatori di alto livello e studenti alle prime armi
tendono a diffidare dell’Italia per le stesse ragioni, carenza delle
strutture e incertezza delle prospettive; per non dire degli stipendi
universitari, congelati da anni e non competitivi.
Davanti a
questi dati, chi vuole o l’insulto o l’applauso è in difficoltà. Bisogna
esser contenti di quanto siamo bravi, o scontenti perché spendiamo la
nostra intelligenza altrove? Ma la maggiore urgenza è fare un passo
indietro, e domandarci: se i nostri studiosi hanno tanto successo nel
mondo, non sarà prima di tutto perché la nostra vituperata scuola, a
partire dal liceo classico di cui improvvisati censori reclamano la
morte, è molto ma molto migliore di quel che amiamo credere, e abitua al
pensiero creativo assai più di altri sistemi educativi? E perché allora
sottometterla al ripetuto elettroshock di riforme ricche di codicilli
ma prive di indirizzo culturale? Seconda domanda: i ricercatori italiani
tanto ricercati a Harvard, a Berlino, a Oxford, a Parigi sono stati
formati nelle università italiane, che da Tremonti in qua vengono
considerate (e a volte sono) la sentina di ogni vizio. Ma non avranno
anche qualche virtù, se producono fior di studiosi ricercati
dappertutto?
La scuola, l’università, la ricerca sono prove di
futuro. A giudicare dai risultati le nostre istituzioni, nonostante la
disgregazione di questi anni, hanno sfornato ottimi studiosi. Sapranno
farlo ancora dopo il dissanguamento di risorse umane e di finanziamenti?
Come ha notato l’Ocse, «l’Italia spende nell’educazione terziaria lo
0,9% del Pil, al penultimo posto fra i Paesi Ocse, con un livello simile
a Brasile e Indonesia, mentre Paesi come il Canada, il Cile, la
Danimarca, la Corea, la Finlandia e gli Stati Uniti spendono nel settore
oltre il 2% del Pil». Micidiali nubi si addensano sul futuro: i Prin
(“progetti di ricerca di interesse nazionale”) sono stati finanziati
nell’ultimo bando (dicembre 2015) con la ridicola cifra di 91 milioni
per tutta Italia, per tutte le discipline (in Germania la sola
Exzellenzinitiative comporta fondi di ricerca per tre miliardi in cinque
anni).
Perdura il quasi-blocco delle assunzioni, che condanna a
una perpetua anticamera migliaia di docenti abilitati a cattedre di
prima e seconda fascia. La scuola pubblica viene definanziata in favore
della scuola privata, e riforma dopo riforma perde la natura di teatro
della conoscenza e della creatività e si fa addestramento a frammentarie
“competenze” di obbedienti esecutori. Perciò a ogni affermazione di
ricercatori italiani all’estero dovremmo pensare: oggi campiamo di
rendita, consolandoci coi successi di chi è stato formato da una scuola e
da un’università che, intanto, stiamo distruggendo. Ma domani? I
giovani migliori (se abbienti) dovranno formarsi all’estero, perché la
nostra scuola si immiserisce in microriforme senz’anima e le nostre
università mancano di docenti, laboratori, biblioteche? Gli italiani che
emigravano cent’anni fa erano padri, e mandavano le rimesse in patria
per il futuro dei figli. I nuovi emigranti sono per lo più figli: quel
che stiamo perdendo non sono solo le loro rimesse, ma la ricchezza che
essi stessi rappresentano.