il manifesto 20.2.16
Gb, Corbyn stronca la “Cameroneide” di Bruxelles
Brexit.
Mentre i conservatori sono alla rersa dei conti, il leader del Labour
conferma il suo appoggio formale alla permanenza del paese nel consesso
europeo. Ma è un appoggio tiepido, quasi distratto
di Leonardo Clausi
Se
Atene piange, Sparta non ride. Ed è lecito sospettare che, dopo la
dimostrazione di spettacolare disunità offerta dal Labour sulla
questione degli armamenti nucleari e dell’intervento militare in Siria,
Jeremy Corbyn stia segretamente godendosi la resa dei conti da film
splatter che la minacciata uscita della Gran Bretagna dalla Ue sta
provocando tra le file dei conservatori. Il volto gonfio di stanchezza e
le borse sotto gli occhi di un Cameron stravolto, riunito fino all’alba
con le sue controparti europee in negoziati dove si frantumano capelli
in quattro soprattutto per placare lo scontento interno al suo partito,
proiettano all’esterno l’affettazione di uno stakanovismo sempre sul
punto di trasformarsi in un involontario quanto beffardo boomerang.
Corbyn
ha liquidato sdegnosamente la performance del primo ministro,
definendola più o meno come avanspettacolo. Lo ha fatto in particolare
attaccando la misura del tanto dibattuto “freno d’emergenza”, in
funzione anti-immigrati da lui considerata pressoché inutile, come del
resto tutta la missione di Cameron a Bruxelles, le febbrili colazioni di
lavoro che diventano pranzi e poi cene, e il filodrammatico alternarsi
di ottimismo e preoccupazione con cui i commentatori seguono gli eventi.
Il
suo appoggio formale alla permanenza del paese nel consesso europeo è
confermato. Ma è un appoggio tiepido, quasi distratto. Non solo la
misura su cui insiste Cameron per escludere i lavoratori immigrati dal
resto d’Europa dall’accesso ai sussidi fino al quarto anno di permanenza
nel paese non servirà ad arginare il flusso d’ingressi: per Corbyn “Non
metterà un centesimo nelle tasche dei lavoratori britannici, come non
smetterà di minare i loro salari attraverso lo sfruttamento dei
lavoratori migranti.” Si è poi detto contrario ad un altro dei quattro
punti su cui Cameron insiste tanto, l’opposizione dura al trasferimento
del controllo della City dalla banca d’Inghilterra a Bruxelles, nel nome
di una presunta maggiore disciplina del mondo finanziario nella quale
forse crede davvero.
In questo senso, pur partendo da assunti
diametralmente opposti, le sue critiche non sono troppo dissimili da
quelle rivolte al premier all’Ukip: la Cameroneide di Bruxelles è tutta
una sciarada che in Gran Bretagna non cambierà minimamente l’equilibrio
delle fazioni durante la campagna referendaria, che si pervenga o meno
ad un accordo. Solo che per Farage e la destra Tory Cameron si è
umiliato davanti ai “burocrati” di Bruxelles, sacrificando la gloriosa
sovranità del regno, mentre Corbyn non condivide affatto la
trasversalità dell’afflato liberista che accomuna il fronte per la
permanenza nell’Ue (che poi è una delle ragioni per cui è stato eletto
leader).
Questo perché Corbyn stesso non è mai stato
filo-europeista, non ha mai sottoscritto cioè un progetto economicamente
neoliberale venduto ai cittadini europei come luminoso e idealistico
trascendimento di angusti confini cultural-identitari, nel cui solco il
Labour ha iniziato la propria lunga marcia verso la totemica
eleggibilità trasformandosi nel frattempo in New Labour.
Fu Neil
Kinnock dagli anni Ottanta in poi a vincere il tradizionale insularismo
in salsa socialista del partito, un traguardo subito tesaurizzato
dall’agenda blairiana che aveva fruttato al New Labour il doppio primato
di partito non gravato dai provincialismi tardoimperiali della destra
euroscettica e allo stesso tempo aperto agli spiriti animali di
un’Europa dinamica e moderna. Ideali che David Cameron, nel suo studio
metodico e appassionato della biografia politica di Tony Blair, sta ora
cacciando in gola al proprio partito.