Repubblica 18.2.16
Il Caso Spotlight
Il team del Boston Globe è il grande sogno di ogni giornalista
di Roberto Nepoti
2001.
Al Boston Globe l’équipe di giornalisti investigativi chiamata
Spotlight, perché deputata a far luce sui casi difficili, si è un po’
adagiata nella routine quotidiana quando da Miami arriva un nuovo
direttore editoriale, Marty Baron, deciso a indagare su un caso di
pedofilia. Un prete cattolico, padre John Geoghan, ha abusato di un gran
numero di ragazzini della parrocchia e l’autorevolissimo cardinale Law,
pur se al corrente, ha messo il silenziatore alla cosa. Walter “Robby”
Robinson, Mike Rezendes e Sacha Pfeiffer si mettono al lavoro, trovano
testimoni tra le vittime degli abusi, raccolgono dati e documenti;
mentre, intorno a loro, crescono l’omertà e l’ostilità di una Boston che
vorrebbe tenere ben inchiodato il coperchio sui propri sepolcri
imbiancati. A forza di ostinazione, Rezendes convince a collaborare
Mitchell Garabedian, l’avvocato delle parti lese. Quello che sembrava un
singolo caso si allarga a macchia d’olio: vi risultano coinvolti prima
tredici sacerdoti, poi un’ottantina. Fino a una terribile evidenza: la
pratica degli abusi sessuali su minori è sistemica, quanto accuratamente
celata dalla Chiesa cattolica. Malgrado tutti gli ostacoli, inclusa la
tragedia dell’11 settembre che mette temporaneamente in pausa il caso,
il Boston Globe pubblicherà il primo di una serie di articoli epocali.
Versione
per lo schermo di un’inchiesta che ricevette il Pulitzer, Il caso
Spotlight è un film che andrebbe mostrato nelle scuole di giornalismo.
Di regola, il cinema ha fatto dei reporter o degli eroi, oppure dei
bastardi da prendere con le molle; mai, o quasi (con la parziale
eccezione di Tutti gli uomini del Presidente), ci ha mostrato come debba
svolgersi un’inchiesta giornalistica. Lo fa qui. I reporter bussano
alle porte delle vittime, esaminano ponderosi dossier negli archivi e
nelle biblioteche, stanno costantemente attaccati al telefono. Perché è
in questo che consiste il giornalismo investigativo: accendere il
riflettore sulle zone d’ombra, “unire i punti” in apparenza dispersi per
far venire fuori la figura intera. Il film lo chiarisce molto bene
quando fa ammettere a Robinson, con il dovuto rammarico, che alcuni dati
per aprire il caso erano arrivati al giornale già anni prima, ma
nessuno - allora - aveva avuto le antenne giuste per coglierlo. Però
Spotlight ha anche altri meriti. Se pure si astiene dalla retorica del
giornalista eroico che fa trionfare la giustizia contro tutto e contro
tutti, non per questo è privo di emozioni, di ritmo o di efficacia
drammatica. Al contrario. Tom McCarthy lo mette in scena come un
suspenser, se non addirittura come un thriller; tanto da farci
appassionare a una vicenda di cui conosciamo già in partenza la fine,
innescando l’empatia dello spettatore e dandogli la sensazione di far
parte, anche lui, del gruppo investigativo. È perfino banale affermare
che, a questo risultato, contribuisce in maniera determinante un cast
d’eccellenza: Michael Keaton, Mark Ruffalo e Rachel McAdams (gli ultimi
due candidati all’Oscar come migliori attori non protagonisti), un
autorevole Lev Schreiber. Appuntamento alla notte degli Oscar, dove
Spotlight corre per le categorie maggiori, miglior film e migliore
regia, oltreché per la sceneggiatura originale e il montaggio.