Repubblica 17.2.16
Lacan
Nella sfida tra eros e legge l’unica salvezza è l’amore
Nel
secondo volume della sua monografia Massimo Recalcati, attraverso
l’analisi dei casi clinici del maestro, racconta come guarire
Tra i mali più diffusi c’è la malinconia, come nella “Nausea” di Sartre o la “Tana” di Kafka
Le nevrosi nascono tutte quando viene meno il legame con l’Altro e il soggetto sbanda verso la repressione o il puro godimento
Sade e Kant incarnano opposti imperativi universali che ci soffocano: entrambi ci portano al di là del principio del piacere
di Roberto Esposito
Il
2 febbraio 1933, nella cittadina francese di Le Mans, due domestiche,
le sorelle Papin, sgozzano le padrone, madre e figlia, cavando loro gli
occhi e infierendo sui loro corpi. Il 10 aprile 1931 una donna
trentottenne, Marguerite Anzieu, armata di coltello, attende una celebre
attrice all’uscita del teatro, tentando di ucciderla e riuscendo a
ferirla. Un bambino di quattro anni, di nome Robert, che riesce a dire
solo due parole — “Signora”
e “Lupo” — cerca con un paio di
forbici di tagliarsi il pene davanti ad altri bambini terrorizzati. Sono
istantanee agghiaccianti tratte da celebri casi analizzati da Jacques
Lacan, personaggio a cui è dedicato il nuovo libro di Massimo Recalcati,
e che ha come sottotitolo La clinica psicoanalitica: struttura e
soggetto
(Raffaello Cortina).
Si tratta del secondo,
ponderoso, tomo di uno straordinario dittico, dedicato dall’autore al
grande analista francese. Il primo volume, intitolato Desiderio,
godimento, soggettivazione, era già apparso qualche anno fa. Se esso
ricostruiva la concezione complessiva di Lacan, inquadrandola nel suo
contesto teoretico, questo è dedicato alla sua intensa esperienza
clinica. Benché sia conosciuto più per i suoi geniali scritti
filosofici, Lacan è stato innanzitutto uno psicanalista che passava le
giornate ad ascoltare esseri umani feriti nell’animo, assediati
dall’angoscia, provati dal dolore. Nelle pagine finali del libro
Recalcati richiama la dialettica tra parola e silenzio mediante la
quale, tacendo le proprie domande e raffrenando il proprio desiderio,
l’analista cerca di tradurre la sofferenza di chi ha di fronte in
un’interrogazione sulla sua intera esistenza. È il momento in cui la
prassi analitica assume su di sé la responsabilità di un compito
inesauribile, legando due vite in una relazione che le mette entrambe in
gioco. In tale confronto esse sperimentano quella presenza enigmatica
dell’Altro, costitutiva di ogni esistenza, che è al cuore
dell’insegnamento di Lacan.
Il sottotitolo del libro di Recalcati,
“struttura e soggetto”, nomina i due fuochi nevralgici intorno a cui si
sviluppa l’intera teoria lacaniana — e cioè la costruzione della
soggettività e il limite su cui essa, spesso dolorosamente, batte.
Questi due elementi — il processo di umanizzazione prodotto
dall’incontro con l’altro e la violenza con cui il reale investe il
soggetto — costituiscono gli argini tematici del lavoro di Recalcati.
Non capita di frequente che la condivisione di intenti di un autore con
il proprio maestro pervenga a un risultato interpretativo così rigoroso e
maturo, capace di restituire tutte le pieghe della sua opera, senza mai
perderne di vista il significato d’insieme. Che sta nell’equilibrio,
necessario ma sempre a rischio, tra il desiderio e la legge. Soltanto la
legge — rappresentata da tutti i possibili nomi del padre — inserisce
un diaframma nel rapporto, altrimenti mortifero, tra desiderio e
godimento. Quando questi si avvitano fino a identificarsi, il soggetto
rischia di rimanere soffocato dall’assenza di mediazioni. Senza passare
per l’Altro, egli non può ritrovare se stesso.
Ma non deve cadere
nell’eccesso opposto, consegnandosi interamente a esso. Se così fosse,
la legge diverrebbe una potenza arbitraria che ci opprime. In questo
caso avrebbero ragione Deleuze e Guattari, che nell’Antiedipo associano
la legge alla repressione. Piuttosto che incarnarsi nel desiderio, essa
ne impedirebbe il dispiegamento. Contro questa interpretazione, Lacan
tiene fermo il punto: pur barrandolo, la legge non è nemica, ma
condizione del desiderio. Ciò che gli impedisce di implodere
nell’immediatezza del nudo godimento.
Tutte le nevrosi nascono
dalla rottura di questo equilibrio a favore di un polo o dell’altro. In
un quadro ricchissimo di riferimenti filosofici e letterari — in cui
risaltano i nomi di Hegel e Sartre, Heidegger e Foucault, Gide e Joyce —
Recalcati ripercorre gli snodi decisivi della clinica lacaniana. Dallo
sviluppo, tutt’altro che semplicemente evolutivo, del bambino, alla
ferita della follia, in cui la libertà del soggetto si spinge tanto
oltre da strappare la propria radice. Dall’esperienza autoreferenziale
della paranoia a quella, specularmente contraria, della schizofrenia. Se
nella prima il soggetto si riempie di se stesso immunizzandosi nei
confronti dell’altro, nella seconda esso si disarticola come
«un’orchestra senza direttore». Se il paranoico — il cui esempio estremo
è rappresentato dalla sindrome distruttiva di Hitler — ne è
ossessionato al punto di volerlo annientare, lo schizofrenico se ne fa
sbranare.
Ciò vale anche per il rapporto con l’oggetto, cui Lacan
si dedica dopo gli anni Cinquanta, interrogando la doppia figura della
melanconia e del feticismo. In ciascuno di essi il soggetto si perde
nell’adorazione estatica dell’oggetto. Alla pretesa innocenza del
soggetto paranoico, corrisponde l’immaginaria colpevolezza del
malinconico, che si richiude in se stesso, come il protagonista della
Nausea di Sartre (che doveva appunto intitolarsi Melanconia) o il
personaggio della Tana di Kafka. Scollegato dal linguaggio
dell’esistenza, non gli resta che la pura ripetizione di una vita
denudata di senso. Delirio paranoico, corpo schizofrenico ed esperienza
melanconica sono le tre diverse declinazioni di una psicosi che ha
sempre alla base la rottura della relazione triangolare tra desiderio,
godimento e legge. Allorché il godimento si emancipa dalla legge,
travolgendo anche il desiderio, il soggetto ne resta schiacciato,
perdendo la capacità di simbolizzazione. Quando, al contrario, è la
legge a occludere il godimento, il soggetto resta sacrificato a una
divinità oscura e dispotica.
Nel Seminario VII di Lacan, Sade e
Kant portano all’estremo queste due opzioni, facendosi l’uno l’ombra
rimossa dell’altro. Questo abbinamento enigmatico costituisce forse il
vertice dell’intera opera di Lacan — il punto in cui il segreto che essa
sembra celare lascia trasparire la sua verità. Entrambi, Kant e Sade,
seguono un imperativo incondizionato, assegnandogli un significato
universale. Sacrificare ogni godimento a favore dell’altro o godere di
lui fino a distruggerlo. Entrambi si spingono aldilà del principio di
piacere, dove la morte si profila non solo alla fine, ma all’origine
della vita, risucchiandola nel suo gorgo. Ciò che tutti e due — i
guardiani della legge e i forzati del godimento — mancano,
cancellandola, è quella dimensione dell’amore che resta al centro della
prassi clinica di Lacan. Il soggetto viene alla vita invocando l’altro,
esprimendo una domanda d’amore, un’esigenza di riconoscimento. Ciò che
esso desidera non è altro che potere, e sapere, desiderare.
Anche
quando la parola gli manca — e la parola gli manca sempre. Anche quando
la “struttura” prevale sul “soggetto”. Allora rischia di strapparsi la
rete di simboli di cui la nostra esistenza è intessuta. Allora la
libertà pare perdersi nel destino. Ma Lacan è sempre lì — a dirci che è
ancora possibile ripartire.
IL LIBRO Jacques Lacan. La clinica
psicoanalitica: struttura e soggetto di Massimo Recalcati ( Raffaello
Cortina pagg. 667, euro 39) In libreria da domani