Repubblica 17.2.16
Da “Pickwick” a Gadda il fascino discreto del club
di Michele Mari
La
Macchina del Tempo di Wells si apre con una lunga discussione fra
l’inventore e una serie di personaggi tanto incuriositi quanto scettici:
un editore, un giornalista, uno psicologo, un medico, un politico e
diversi altri. Autorevoli rappresentanti dell’opinione pubblica
vittoriana, essi compongono quel pubblico scelto che decreta il successo
o l’insuccesso di qualsiasi “novità”: da questo punto di vista
l’inventore wellsiano non è diverso da Bel-Ami o Dorian Gray, poiché
come loro deve uscire vincitore da un confronto ravvicinato con i propri
giudici, che egli dovrà sedurre prima ancora che convincere.
Il
corrispettivo istituzionale di questa situazione, in cui si aggiornano
le antiche accademie, è il “circolo”, declinato dai romanzieri nei modi
più diversi: se per Wells è una riunione settimanale in un salotto
privato, per Dickens è fondamentalmente una società itinerante (il
circolo Picwick è ovunque tranne che nella propria sede), mentre per
Conan Doyle o Conrad è piuttosto un club di fumatori; per i russi,
quando non sia un covo di cospiratori, è spesso una società letteraria,
dove i sentimenti patriottici e le tentazioni occidentali possono
confliggere liberamente: diventerà poi, soprattutto in Italia e in
Francia, il caffè letterario, luogo di affratellamento esistenziale e di
accanite discussioni. Ma se al “caffè” associamo quasi automaticamente
l’idea di avanguardia, il circolo è prevalentemente una roccaforte dei
valori tradizionali: «Le prospere condizioni commerciali della città
nostra», si legge nello statuto fondativo del Circolo Filologico
Milanese (1872), «esigono un’istituzione di tal natura. Vogliamo avere
un luogo dove ci riuniremo per studiare le lingue con la scorta di
valenti maestri, ove troveremo giornali e libri italiani ed esteri;
vogliamo che il Circolo diventi ritrovo della gente colta, garbata e
studiosa. Letture e conferenze: feste no».
Feste no: fra chi
trasse giovamento dalla frequentazione di un luogo così serio ci fu
Carlo Emilio Gadda, al quale la riconoscenza non impedì tuttavia di
satireggiarlo, per la sua pompa “trombonesca”, insieme ad altre due
illustri istituzioni di quella Milano, il Conservatorio Giuseppe Verdi e
il “noster Politèknic”.
Con tutto ciò, nella nostra
immaginazione, il circolo rimane qualcosa di essenzialmente
anglosassone. Ircocervo di ristorante, caffè, sala da biliardo, sala di
lettura e
fumoir, il club è quella zona limbica in cui non si è né
al lavoro né a casa, né totalmente in pubblico né in privato; è per
eccellenza il luogo dell’abitudine (il proprio tavolo, la propria
poltrona, il proprio sigaro, “il solito” da bere) e di quelle pubbliche
relazioni che vogliano essere anche un po’ private; dunque, di
necessità, anche dell’understatement. Ci sono scrittori che qui hanno
saggiato le proprie trovate narrative, al punto da tematizzare il
circolo stesso come cornice di un romanzo, di un racconto o di una serie
di racconti: Kipling, Conrad, James, Conan Doyle, Wilkie Collins ci
fanno ascoltare personaggi che chiacchierano di altri personaggi, a
volte trasmettendoci un senso di frivola dispersione, a volte (come per
il Marlow conradiano) di morbosa fissazione. E tuttavia il caso più
esplicito di interiorizzazione narrativa di un circolo va cercato in
Francia, in quelle Serate di Médan (1880) che raccolgono le novelle di
sei scrittori ospitati e coordinati da Zola: e forse fu proprio per
rinnegare un così impegnativo battesimo consociativo che qualche anno
dopo uno di loro, Huysmans, scrisse il libro più solipsistico e asociale
dell’Ottocento, À rebours.
Michele Mari è uno scrittore, tra i suoi romanzi Di bestia in bestia e Roderick Duddle pubblicati da Einaudi