martedì 16 febbraio 2016

Repubblica 16.2.16
La solitudine di Pilato la modernità iniziò così
L’arte laica del dubbio e il processo a Gesù: duemila anni di mistero
Il Nazareno, lacero e scalzo, sa ciò che accadrà mentre il Prefetto non conosce il suo destino. In quelle poche ore cruciali entrano in scena la terra e il cielo, il potere temporale e il sacro
di Ezio Mauro

TUTTO il futuro del mondo si concentra nello spazio imperiale del pretorio, a Gerusalemme, tra l’alba e l’ora sesta del giorno quattordici del mese primaverile di Nisan. C’è un uomo legato ai polsi dopo una notte passata davanti al Sinedrio che lo accusa di blasfemia e lo ha mandato a prendere negli orti del Getsemani col buio e i bastoni, come un brigante. Di fronte siede il Procuratore romano della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato. Dietro una tenda, fuori, raccolti nel cortile di pietra del Gabbatà aspettano i sacerdoti del tempio, i 71 sinedriti, i loro servi, molti curiosi, forse qualche seguace silenzioso del galileo incatenato.
Si è detto figlio di Dio, i giudei chiedono che Roma riconosca la bestemmia e pronunci la condanna, che spetta solo a lei. Nella stanza del pretorio, uno scriba raccoglie sulla pergamena l’interrogatorio, domande e risposte che per la prima volta fisseranno i confini del cielo e della terra.
E che passando oltre la tenda di bocca in bocca finiranno nei quattro Vangeli, negli apocrifi e nelle leggende, fino a risuonare autentiche e misteriose anche oggi, duemila anni dopo.
Il pretorio diventa così il luogo e il momento — dunque il punto della storia — dove il finito e l’infinito s’intersecano pubblicamente trasformando quel processo in un dialogo universale ed eterno, rovesciando anche i ruoli dei due attori del dramma: il nazareno ha condotto tutta la sua vita sapendo che sarebbe arrivato a questo appuntamento, lo ha temuto e insieme lo ha preparato, perché la curva della sua biografia si inserisse
compiutamente nella parabola della profezia. Lui, lacero e scalzo, sa tutto quel che accade, meno il sentimento di paura della morte che comincia ad assalirlo, sconosciuto anche se messo nel conto da sempre. Il Prefetto non sa niente, se non la regola astratta del diritto romano, l’orizzonte della maestà imperiale che deve far rispettare fin quaggiù, a un mare di distanza da Cesare. Uno pronuncia ogni parola sapendo che servirà a compiere il suo destino. L’altro non capirà fino alla fine quale fato misterioso lo ha portato fin qui e perché proprio lui sia diventato artefice di un disegno che non gli appartiene ma di cui porterà il peso perenne.
Questa scena dura da sempre non perché fissa l’istante decisivo dell’antichità ma perché è uno degli atti d’inizio della modernità.
Ponendo dei limiti alla potestà umana e alla pretesa divina, infatti, si esce dall’indefinito dove il potere dispiega se stesso finché la forza glielo consente, o dal buio indistinto della paura degli dei, si ragiona sugli ambiti reciproci e inevitabilmente, subito dopo, sui diritti e i doveri che ne nascono. Proprio qui si muove l’ultimo studio sul processo a Gesù, condotto da Aldo Schiavone che mette al centro di tutto la figura di
Ponzio Pilato (Einaudi). Il prefetto non può sapere che il processo contiene la scintilla dell’universale, quando entra nel pretorio dove lo aspetta l’uomo incatenato. Ha già provato, fuori, a disfarsi del processo prima di cominciare, ma la folla gli ha ricordato che tocca a lui giudicare sulla vita e sulla morte. Ora domanda nel Vangelo di Giovanni: «Sei tu il re dei giudei?». E qui c’è il primo scarto, perché l’imputato non bada a difendersi e nemmeno a rispondere al suo giudice, ma a sorpresa cerca l’uomo: «Tu dici questo da te stesso, o altri te l’hanno detto di me?».
«Sono io forse giudeo? — replica il Procuratore infastidito —.
La tua gente e i sacerdoti ti hanno consegnato a me». È il secondo tentativo di Pilato di proclamare la sua estraneità al caso. Ma il galileo di fronte a lui lo spiazza un’altra volta, introducendo il soprannaturale come testimone al processo: «Il mio regno non è di questo mondo. Se lo fosse i miei servi avrebbero combattuto perché non venissi consegnato ai giudei. Ora il mio regno non è di quaggiù».
Entrano in scena la terra e il cielo, è l’irruzione del sacro, che come nota Schiavone depoliticizza Dio garantendolo disinteressato ad ogni potere temporale: ma insieme — aggiungo — sacralizza il processo, introducendo il canone ultraterreno. Pilato non si allontana, si avvicina, tentando di restare finché può sul nucleo criminale della lesa maestà imperiale: «Dunque, tu sei un re?». «Tu lo dici» risponde Gesù, spostando i piani un’altra volta, come fosse interessato a un confronto più intimo e personale con l’uomo che ha davanti, dimenticando il Procuratore: «Per questo sono nato e venuto nel mondo, per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità sta in ascolto della mia voce ». E qui c’è la risposta più famosa ed eterna di Pilato: «Che cos’è la verità? ». Nel suo Crucifige Gustavo Zagrebelsky scrive che le parole provano il disprezzo di Pilato per qualsiasi cosa quel galileo pretenda di insegnare. Per Giorgio Agamben ( Pilato e Gesù) il Prefetto vuole invece capire qualcosa in più di quel regno che il profeta sta testimoniando. Per Schiavone il Procuratore vuole spezzare la vertigine dell’assoluto che ha rapito il suo prigioniero. Ma c’è un punto: Pilato non cambia argomento, non sposta il tono dell’interrogatorio. Circoscrive l’immensità della questione, tentando di governarla, ma la rilancia, come se domandasse: dove mi porti, cosa stiamo facendo, che storia ho davanti a me, qual è la tua vera dimensione? Quel “qualcosa” che cambia la natura di un caso giudiziario, tenendolo aperto nei secoli, comincia esattamente qui, dove s’inizia il travaglio del Procuratore di Giudea.
Marco parla a questo punto dello spaesamento di Pilato, che «restò meravigliato», dunque intimamente toccato dal “qualcosa”. E Matteo, lui soltanto tra i quattro evangelisti, lo spiega: la moglie del Procuratore, Procla, spinta dall’angoscia gli manda un messo nel pretorio, scongiurandolo: «Nulla ci sia tra te e questo giusto, perché oggi ho molto sofferto in sogno a causa sua». Il travaglio diventa turbamento. Per liberarsene Pilato fa ricorso alla politica e alle sue tecniche. Poiché esisteva la tradizione per il Prefetto di liberare un prigioniero nei giorni della festività, gioca quella carta proponendo una scelta che ritiene obbligata per i giudei: o il profeta galileo, inoffensivo, o un brigante di nome Barabba, sedizioso. Ma a sorpresa la folla sceglie Barabba. C’è ancora un tentativo di non decretare la morte del galileo. Pilato decide infatti di farlo flagellare, di cingergli il capo con una corona di spine e di rivestirlo di un manto purpureo, mostrando ai giudei quella caricatura di re, umiliato e deriso, sanguinante e ridotto a puro corpo martoriato: «Ecco l’uomo», dirà infatti alla gente, cercando di muoverla a compassione. La risposta è il “Crucifige”. «Prendetelo e crocifiggetelo voi», riprova a dire il Governatore. Ma qui, i giudei giocano a loro volta la prima carta politica: «Noi abbiamo una legge, e secondo questa legge deve morire perché si è fatto figlio di Dio». È la carta teologica estrema, la pretesa della discendenza divina che entra nel tribunale di Cesare, doppia blasfemia, religiosa per gli ebrei, politica per i romani.
Ecco perché Pilato «prova timore sempre più forte». La costrizione politica alla condanna si fa stringente, l’oscura presenza del sacro diventa inquietante. Soltanto Matteo racconta la lavanda delle mani, il Prefetto che chiede dell’acqua, si lava davanti alla folla e invece di proclamare con coraggio l’innocenza del nazareno dichiara per paura la propria innocenza, scaricando l’onere di quanto sta per accadere: «Non sono responsabile del sangue di costui: vedetevela voi». La scena è poco credibile per Schiavone, emblematica per la tradizione popolare. Ma la scissione tra l’obbligo politico e la convinzione privata è ormai evidente per tutti, dichiarata. Tanto che Pilato abbandona il registro giudiziario, torna da Gesù e gli rivela il suo tormento: «Di dove sei tu?». Non è la Galilea la risposta, perché la domanda cerca un’altra geografia, spirituale: qual è il tuo mondo, chi ti manda, di che sostanza sei fatto? Gesù tace, come se lo guardasse avvicinarsi, passo dopo passo. L’unica via che rimane a Pilato è il rifugio nell’autorità smarrita: «Non vuoi parlarmi? Lo sai che ho il potere di mandarti via libero come quello di mandarti sulla croce?». «Su di me non avresti alcun potere se non ti fosse dato dall’alto — replica il nazareno —. Perciò più grande è il peccato di chi mi consegna a te». È quasi un’assoluzione preventiva. Secondo Giovanni, Pilato prova un’ultima volta a liberare il prigioniero, dopo averlo mostrato alla folla: «Ecco il vostro re». La risposta è il “Crucifige”, con una minaccia politica esplicita: «Se lo lasci libero, non sei amico di Cesare». Non resta che la consegna, e la strada del Calvario.
I due uomini che si erano avvicinati fino all’imprevedibile tornano ad allontanarsi, per sempre. Ma per Schiavone quel potere che al Procuratore è «dato dall’alto» non chiama in causa Cesare e la sua delega bensì Dio e il suo disegno. Anche gli atti del Prefetto, dunque, compreso l’ultimo che consegna Gesù alla croce, farebbero parte di un disegno ultraterreno che annullerebbe la libertà di scelta di Pilato e con lui dell’impero padrone del mondo, qui semplice strumento del volere divino. Ma Schiavone sfugge a questa lettura strumentale, perché si convince di un segreto nascosto nelle pagine di Giovanni: la libera scelta del Governatore di assecondare il cammino di Gesù verso ciò che il prigioniero considera inevitabile. È un patto tacito con Gesù, un’accettazione da parte del Prefetto pagano del mistero del sacro, o almeno della potenza dell’ignoto che si trova di fronte. Così Pilato riscatta nella scelta nascosta l’immagine millenaria di ambiguità, la condanna eterna alla codardia.
Quello che tutti chiamano l’enigma Pilato si spiegherebbe dunque col segreto, in una tautologia della storia, come se fosse impossibile sciogliere la figura del Procuratore dalla costrizione di modelli esemplari, la viltà millenaria da un lato, dall’altro l’alleanza nascosta con l’uomo-Dio che vuole morire per riscrivere le storia secondo le Scritture, sapendo che altrimenti non darebbe vita al cristianesimo: perché invecchierebbe invece di risorgere, liberato — secondo l’immagine di Caillois — non dagli angeli del Sepolcro ma dalla sentenza di un Prefetto. La modernità di Pilato sta invece, io credo, proprio nella solitudine della scelta, nell’assunzione del conflitto e nell’accettazione del dubbio, in una sorta quindi di proto-laicità inconsapevole ma testarda che prova a contrastare la forza incombente della pubblica ragion di Stato con la coscienza privata dell’ingiustizia e l’obbligazione della volontà divina con il sentimento umano dell’innocenza. Forse per la prima volta da quando rappresenta Cesare, il Procuratore Pilato e l’uomo Pilato entrano in conflitto, per cinque ore, fino all’ora sesta di quel venerdì pasquale di Nisan, che nelle pagine di Bulgakov il Governatore definisce «un mese terribile», quell’anno. Poi vince la realpolitik. Ma da duemila anni, a partire da quel seggio pretorio, così va il mondo.