La Stampa 14.2.16
La difesa della famiglia tradizionale tiene insieme Bagnasco e Kirill
Le parole di Bergoglio aprono la strada a un’inedita “alleanza”
di Cesare Martinetti
Per
meglio capire la fuga in avanti del cardinal Bagnasco quando ha chiesto
che il parlamento italiano si esprimesse con voto segreto sulle unioni
civili, bisognava aspettare qualche ora e leggere per intero la
dichiarazione congiunta firmata a L’Avana da Papa Francesco con il
Patriarca di Mosca Kirill. Al primo punto dell’agenda c’è la difesa dei
cristiani perseguitati in Oriente (e non solo) e subito dopo in grande
evidenza la difesa della famiglia, nelle sue forme tradizionali:
matrimonio uomo-donna, procreazione naturale e non assistita, no alle
unioni civili. Tutto logico, certo, la differenza è che mentre Papa
Francesco si trova a predicare questi valori nell’Europa dei matrimoni
gay, Kirill guida la sua chiesa in un Paese dove la politica – almeno a
parole – li condivide talmente tanto da consentire un clima di aperta
intolleranza verso molti soggetti tra cui i gay. E questo senza che il
patriarca abbia mai avuto niente da ridire.
L’invasione di campo
di Bagnasco (così inaspettata nella Chiesa di Francesco da risvegliare
ricordi della Cei di Ruini, se non ben più antichi) non era certo una
gaffe, ma il modo in cui una parte del mondo cattolico guarda alle
ricadute di clima del dopo l’Avana. Finalmente una santa alleanza su
matrimoni e valori non negoziabili. Insomma se Stalin si chiedeva quante
divisioni ha il Papa, non è da escludere che in Vaticano qualcuno abbia
fatto i conti di quante divisioni ha Putin. Sono parecchie e si muovono
– in Siria per esempio - con l’incondizionata benedizione di Kirill,
che non ha fatto una piega per gli intensi e indiscriminati
bombardamenti russi nei giorni scorsi ad Aleppo e dintorni che hanno
scosso Angela Merkel.
Ma le vere divisioni di Putin a cui guarda
una parte ormai significativa del mondo cattolico tradizionalista, in
Francia e in Italia, non sono quelle militari, bensì a quelle
politico-culturali, alla diffusione di un soft-power i cui capisaldi
sono: no alla globalizzazione, no alla democrazia libertaria
occidentale, no all’invasione islamica, no all’alta finanza apolide e
mondialista, no al modello consumistico americano.
Questo mondo si
esprime in Italia soprattutto nel web attraverso siti e blog dai titoli
combattivi. Su «Riscossa Cristiana» si legge di un’Europa «in marcia
verso il totalitarismo». La «Nuova Bussola» apre l’edizione ora online
con un attacco a Renzi per la risposta a Bagnasco («Imbavaglia i
vescovi») e affida a Massimo Introvigne il commento all’incontro di
L’Avana dove si mette al primo punto di importanza «la famiglia» e non
la persecuzione dei cristiani. Il settimanale «Tempi» già nel 2013 aveva
messo in copertina un Putin con il titolo «L’indispensabile».
Ma
se il Cremlino finora ha espresso solo frasi di circostanza
sull’incontro di L’Avana, la sua propaganda in Occidente che si chiama
Sputnik.news (e che ha preso il posto della storica Radio Mosca) non ha
usato giri di parole per appropriarsi dell’evento. Papa Francesco è
certamente «un visionario che crede nelle dinamiche della Storia e nella
bontà dell’uomo», come ha scritto ieri Enzo Bianchi, ma dalle parti di
Mosca pensano che avesse bisogno di trovare un luogo più confortevole
dell’Europa scristianizzata e sottomessa all’aggressione islamica dove
qualcuno a cominciare dal capo dello Stato pensa che il matrimonio – per
dirne una - sia un affare tra un uomo e una donna. Che poi Putin ci
creda o no è un’altra questione. Le sue esibizioni in cattedrale
certificano l’avvenuta transizione dalla religione «oppio dei popoli»
alla religione «instrumentum regni». Kirill non l’ha mai deluso. Lo farà
Francesco?
Corriere 14.2.16
La religiosità «deviata» della Santa Muerte protettrice dei criminali
di Rocco Cotroneo
La
Niña Blanca, La Señora, La Hermosa. Più spesso soltanto la Santa
Muerte. Così viene chiamata in Messico una delle forme più curiose e
affascinanti di religiosità popolare, il culto della morte, avversata
dal Vaticano e strettamente legata al mondo sul quale si abbattono ora
gli strali di Francesco, quello del narcotraffico. Il Papa
latinoamericano, da buon conoscitore del sincretismo che pervade il suo
Continente, non ne ha fatto accenno, anche perché l’equazione tra chi
professa questi culti e la delinquenza è tutt’altro che scontata. Non
sarebbe corretto farlo. Milioni di fedeli, 1.500 altarini dedicati alla
morte solo a Città del Messico, non possono essere liquidati come
complici del crimine. La Santa Muerte è nei rosari recitati in catarsi
collettive, dove si prega insieme a Dio, Gesù Cristo e San Giuda Taddeo.
Il simbolo più comune è lo scheletro vestito da un saio francescano,
con la tradizionale falce tra le mani. Affonda le radici nella storia,
quando il Messico era un Paese assai più pacifico di adesso e non si
trafficava droga verso gli Stati Uniti.
Ma i tatuaggi, i riti
nelle carceri, gli altarini trovati nelle case dei latitanti oggi
lasciano pochi dubbi. Così come alcuni episodi di cronaca nera degli
ultimi anni. Al pari dei rituali antichi delle nostre mafie, il legame
tra religiosità «deviata» e affiliazione a gruppi criminali è un fatto.
Assume aspetti che giustificano agli occhi dei membri delle gang la
barbarie di alcuni comportamenti, offrendo una sponda mistica al
crimine. Doppio pericolo, dunque, agli occhi della Chiesa: allontana
dalla dottrina e giustifica i peccati. Non è paragonabile ad altre forme
sincretiche diffuse nel Continente, come la Santeria cubana o il
Candomblé brasiliano, che di richiamo al crimine non hanno proprio
nulla. E non pare sia servita a molto l’iniziativa dell’arcivescovo di
Città del Messico, Norberto Rivera, il quale anni fa annunciò l’arrivo
di esorcisti per lottare contro l’idolatria pagana e rimettere ordine
tra i cristiani.
Sempre negli anni scorsi, nell’oceano delle
migliaia di morti violente in Messico, ne sono state identificate alcune
come possibili «offerte» alla Signora della morte. Forse narcos che
cercavano la sua protezione nella vita pericolosa che si sono scelti.
David Romo, un ex ufficiale autoproclamatosi vescovo della setta, è
stato arrestato nel 2012 e condannato a ben 66 anni di carcere per
furti, sequestri, estorsione. I suoi uomini taglieggiavano spacciandosi
per membri dei Los Zetas, uno dei grandi cartelli. Lo stesso anno, due
bambini e una donna furono uccisi nello Stato di Sonora, senza altro
motivo se non versare il loro sangue su un altare della Santa Muerte, al
fine di chiedere protezione per un boss locale.
Repubblica 14.2.16
Crudeltà e riti pagani la mistica dei boss per dare forza alle gang
I cartelli della droga si rifanno a divinità che “proteggono”. Ma sono migliaia i morti nella guerra tra bande
di Vittorio Zucconi
WASHINGTON
NEL nome della madre, della morte e della coca, la chiesa della
narcoreligione si espande fra il Messico, il Caribe e gli Stati della
“Frontera” del Sud America ogni giorno più forte, più sanguinaria e più
seguita. Mentre Papa Francesco chiede di combattere «contro la metastasi
del narcotraffico che divora il Paese» e s’inginocchia davanti alla
mite Vergine di Guadalupe e prega per quella che è, o sembra essere, la
forza ancora immensa della Chiesa di Roma in Messico, il culto delle
divinità dell’ombra che i vescovi cattolici non esitano a definire
“sataniche” conquistano gli spiriti disperati e le braccia violente del
narcotraffico. E diventano “Narcoculto”, una nuova mistica della morte
che sposa la criminalità spietata dei “boss” della coca alla notte
profonda e antica e appassionata della “Santeria” e del “Voodoo”.
Nelle
celle delle prigioni messicane, dove sono rinchiusi, almeno fino a
quando evadono, i soldati e i generali dell’esercito della droga che ha
già fatto almeno 40 mila morti negli ultimi cinque anni in Messico, le
guardie carcerarie trovano invariabilmente il santino della massima
divinità del Narcoculto, l’immaginetta della “Santa Muerte”, lo
scheletro della divinità suprema che protegge e benedice, con il sorriso
sdentato del teschio ingioiellato e la falce classica. Se non è lei, è
un altro dei grandi santi del culto, Jesús Malverde, un messicano
immaginario tratto dalla figura reale di Josè Mazo, un uomo che fra
l’800 e il ‘900, rimasto orfano e diseredato, si dedicò a furti e rapine
per distribuire ricchezze ai poveri.
Fu catturato e giustiziato
naturalmente dopo il tradimento di un Giuda. Nelle città, processioni
con la sua immagine si snodano per chiedere la protezione di questo
“Angelo dei Poveri”, il Robin Hood dipinto con immancabili baffoni neri
sotto occhi febbrili, il “Narcosantòn” che aveva tra i suoi massimi
devoti Joaquin Guzman, “El Chapo”. A lui, a Jesús Malverde, il superboss
chiedeva protezione dagli arresti, protezione che ora, dopo l’ennesima
incarcerzione, sembra essere mancata.
Ma le morti, gli
ammazzamenti nelle guerre di gang, le stragi di innocenti e il sangue di
poliziotti e militari sparso negli Stati messicani per controllare i
flussi della cocaina non dissuadono nè raffreddanno i “fedeli”, dai capi
ai loro soldati. Gli agenti della DEA, l’agenzia statunitese per la
guerra al traffico degli stupefacenti, raccontano le testimonianze degli
arrestati e dei pentiti che ricordano la liturgia dell’affiliazione a
bande nel nome dei santi e santoni spesso ripresi da quel culto de “Los
Santos” che il sincretismo fra paganesimo e cristianesimo ha diffuso da
New Orleans al Brasile, con l’interazione fra gli schiavi africani e le
religioni indigene. E arrivano fino a New York dove i tempietti, e i
negozi di articoli religiosi dedicati alla “Santa Muerte”, alla regina
del Narcoculto, non mancano.
Come tutte le religioni, anche il
“Narcoculto” conosce scismi e dissensi al proprio interno. I cartelli
del Golfo e la violentissima Gang Zeta venerano la Vergine dello
Scheletro, la “Santa Muerte”, mentre i cartelli di Sinaloa e di Sonora
preferiscono Jesús Malverde, considerato più abile nel prevenire
arresti, vista la sua storia di Robin Hood messicano sfuggito per 40
anni alla caccia dei “Federales”. Membri di culti rivali attaccano e
devastano simboli religiosi altrui, come a Houston, dove una grande
statua della “Santa Muerte” in un cimitero è stata demolita in una
notte.
Una profanazione che ha provocato l’immediata rappresaglia
dei suoi fedeli che hanno denunciato una famiglie devota a Jesús
Malverde, provocando l’irruzione della polizia. In casa, davanti
all’altarino del baffuto Angelo dei Diseredati, gli agenti hanno trovato
ossa umane. Il padrone di casa ha spiegato di averle comperate in Rete.
Pochi dubbi invece sulla causa di morte di una donna di 60 anni e di
due bambini, decapitati da Silvia Meraz Moreno, devotissima della “Santa
dello Scheletro”. Un’offerta alla dea, per assicurare la protezione
sulla gang della quale Silvia faceva parte.
Come nelle liturgie
parareligiose delle mafie italiane ormai ben conosciute e descritte,
così il misticismo dei narcotrafficanti messicani è una miscela di
superstizione, di autogiustificazione, di fidelizzazione che serve non
soltanto a dare identità ai fedeli, ma a rispondere al sospetto di
colpa, sublimandolo nell’adorazione di divinità superiori. «Non lo
faccio per me, ma per Jesús» disse una “mula”, un trasportatore di coca e
di anfetamine fermato in Arizona mentre guidava un minivan ornato da
statue e immagini del “Narcosantòn”, come fosse il missionario di una
nuova crociata.
Neppure il confinè fra religiosità autentica e
alibi mistici per killer è netto, perchè il culto della “Santa Muerte”
conta milioni di rispettabilissimi fedeli senza rapporti nè legami con
le organizzioni criminali, il più conosciuto dei quali è l’attore
Gregory Beasly, che sostiene di avere ottenuto, dopo anni duri, un ruolo
nella magnifica serie tv di “Breaking Bad” e nel film “Linewatch” dopo
aver chiesto la grazia al teschio con il diadema, presentato a lui da un
santone messicano.
Repubblica 14.2.16
La Lombardia nega il bonus agli adottati
di Alessandra Corica
MILANO.
La Lombardia esclude le famiglie con figli adottati dal bonus bebè.
L’assegno, introdotto lo scorso autunno dal governatore leghista Roberto
Maroni, prevede per le famiglie lombarde con un Isee sotto i 30mila
euro l’erogazione di 800 euro se hanno avuto, entro il 31 dicembre, il
secondo figlio. E di mille euro per il terzo. Al Pirellone sono arrivate
circa 2mila domande, di cui la metà già approvata: tra queste, però,
nessuna è a favore di genitori adottivi. A denunciare il caso è uno dei
partiti della stessa maggioranza di Maroni, il Nuovo centrodestra: «È un
errore da correggere — dice il capogruppo lombardo di Ncd, Angelo
Capelli —. Le famiglie che adottano si fanno carico di un percorso
talvolta insormontabile, con costi che per i soli adempimenti in Italia
si attestano, secondo una ricerca della Bocconi, in oltre 4mila euro.
Per tutto l’iter, la cifra arriva a 20mila: vanno sostenute». I primi a
scoprire la beffa sono stati Susanna e Maurizio Larghi, una coppia di
quarantenni della provincia di Bergamo. Genitori di tre bimbi, tutti
adottati: la sentenza che ha permesso alla famiglia di accogliere il
loro terzo bimbo è dello scorso dicembre. Entro i termini, quindi,
previsti dal bando della Regione per il bonus bebè. La coppia, però, è
stata esclusa: dopo avere inviato al Pirellone una richiesta sui moduli
da compilare, gli uffici regionali hanno inviato una mail alla famiglia,
spiegando che «l’adozione non è prevista nei criteri della delibera». E
che quindi per loro «non è possibile accedere al contributo». Una
risposta che ha fatto ribellare la coppia: «Non siamo genitori di serie
B, ma una famiglia come tutte le altre. Accediamo già ad altri
contributi, come l’assegno di natalità dell’Inps: solo la Regione ci
esclude, anche se abbiamo gli stessi doveri e diritti di qualsiasi altro
genitore».
La Stampa 14.2.16
Perché Renzi è figlio dell’exploit grillino
di Giovanni Orsina
Sono
passati tre anni dalle ultime elezioni politiche. A che cosa è servito
il Movimento 5 stelle, in questi trentasei mesi? E a che cosa serve
adesso?
Il Movimento, innanzitutto, ha incanalato e fatto sfogare
dentro il perimetro della democrazia l’immensa insoddisfazione prodotta
dalla crisi economica, dal collasso del sistema bipolare, e dalla
sensazione diffusa che, col gabinetto Monti, Bruxelles avesse
commissariato l’Italia. Questo risultato, che Grillo ha rivendicato più
volte, è stato con ogni probabilità il più importante che il M5s abbia
ottenuto. Agli insoddisfatti, poi, ha regalato un sogno, tanto più
importante quanto più il governo tecnocratico era ritenuto «alieno»: la
democrazia diretta via web.
Il Movimento, in secondo luogo, ha
posto con forza il tema dei costi della politica e dell’onestà degli
amministratori pubblici. Così facendo ha sortito senz’altro degli
effetti positivi - anche se ne ha sortiti pure di negativi. Il confine
fra moralità e legalità da un lato, moralismo e giustizialismo
dall’altro è sottile. Nel nostro Paese poi, dove da sempre è
sottilissimo, negli ultimi venticinque anni s’è assottigliato ancora di
più. E bisognerebbe capire - ma non è facile - fino a che punto si siano
davvero rafforzate legalità e onestà, grazie al M5s, e quanto invece
giustizialismo e moralismo.
L’ossessione per gli scontrini e
l’enfasi sull’integrità hanno fatto passare in secondo piano
rispettivamente iniziativa politica e competenze. La propaganda grillina
ha rafforzato inoltre l’idea che la politica non debba costare e i
politici non vadano pagati. Una convinzione che si presta a sortite
demagogiche fin troppo facili, ma resta profondamente sbagliata: se la
politica e i politici non funzionano, la soluzione non è pagarli meno,
ma selezionarli e controllarli meglio.
Dubito che nel Movimento
siano contenti del terzo risultato che hanno raggiunto: Matteo Renzi.
Che Renzi sia figlio dell’«ondata» grillina del 2013, sarebbe difficile
negarlo. Che sia un figlio «buono» è parecchio più discutibile,
naturalmente. Considero uno sviluppo positivo, a ogni modo, che la
sinistra italiana sia infine stata costretta a prendere atto del suo
abissale ritardo sui tempi storici, e a modernizzarsi. A debito del
Movimento infine, in quarta posizione, troviamo l’aver alimentato
l’indignazione aprioristica, il complottismo e la perdita del senso di
realtà.
E adesso, dopo tre anni, a che cosa serve il M5s? Così
com’è, non più a molto. Rischia soprattutto di far danno, anzi - in
particolare, di inchiodare Renzi a Palazzo Chigi per il prossimo
ventennio, dopo avercelo portato. Prendiamo tre vicende recenti che
hanno riguardato il Movimento: il caso di Quarto, la marcia indietro
sulle unioni civili, il decalogo (surreale) che i candidati alle
elezioni comunali romane dovranno sottoscrivere, impegnandosi a
dimettersi e pagare una multa salatissima se, una volta eletti, non
rispetteranno le indicazioni di Grillo e Casaleggio. Che cosa segnalano,
queste tre vicende? La prima, che il mito della «gente comune» in
politica rende il Movimento permeabile alla malavita organizzata. E che,
quando ciò accade, moralità e moralismo, il desiderio di essere puliti e
la necessità di apparirlo, entrano in cortocircuito. La seconda, che il
mito della democrazia diretta dev’essere frettolosamente e
maldestramente abbandonato quando entra in conflitto con la politica più
classica, ossia con la tattica parlamentare e il consenso elettorale.
La terza, che il mito dell’«uno vale uno» genera caos, e che dal caos
non nascono democrazie, dirette o delegate, ma autocrati irresponsabili.
Prese
insieme - e sommate alle notevoli difficoltà che il Movimento sta
incontrando là dove amministra, oltre che alle continue ondate di
dimissioni, secessioni ed espulsioni - le tre vicende dimostrano che i
miti della gente comune, della democrazia diretta e dell’uno vale uno
altro non sono che, appunto, dei miti. Destinati se va bene a rivelarsi
soltanto irrealizzabili, e quando va male a creare problemi. Spiace
dirlo per chi ci ha creduto in buona fede, ma le cose non sarebbero in
alcun modo potute andare diversamente. Né lo potrebbero in futuro.
Poiché
però quei miti rappresentano la ragion d’essere del grillismo, nel
momento in cui essi rivelano il loro carattere mitologico, del Movimento
non rimane più molto. Restano parecchi voti, certo, radicati in tanta
frustrazione e, forse, in un po’ di speranza. Ma con la frustrazione non
si governa. E si governa poco anche con la speranza, se non la si mette
al servizio di un progetto politico. In compenso, se quella
frustrazione la si raccoglie tutta e la si incanala in un vicolo cieco,
si fa il gioco di chi qualche risposta politica almeno prova a darla.
Renzi, appunto.
La Stampa 14.2.16
La protesta dei Conservatori: “Dopo sedici anni siamo ancora in attesa di una riforma
Oggi
hanno suonato per strada gli studenti di quasi tutti i 77 Conservatori
d’Italia in segno di protesta. Convocato dal governo il presidente della
Conferenza dei direttori: “Non sanno cosa rispondere, sono passati otto
ministri e niente è cambiato”
di Antonella Mariotti
qui
La Stampa 14.2.16
“Cara ministra Giannini non si vanti dei miei successi”
La denuncia della studiosa emigrata in Olanda
di Valentina Arcovio
«Ho
solo chiesto alla ministra di non strumentalizzare i nostri risultati.
Non sono una vittoria dell’Italia, ma un’occasione mancata». È così che
la 42enne Roberta D’Alessandro, una dei 31 ricercatori italiani ad aver
vinto il prestigioso bando europeo «Erc Consolidator» e tra i 13
vincitori italiani che useranno la prestigiosa borsa di studio per fare
ricerca all’estero, precisa lo scopo del duro post pubblicato ieri e
indirizzato al ministro dell’Istruzione, dell’Università e della
Ricerca, Stefania Giannini.
Proprio il giorno prima il ministro
aveva commentato entusiasta i risultati del bando che vede l’Italia
terza per numero di assegnatari della borsa e prima per numero di
ricercatrici vincitrici. Quello che per Giannini rappresenta «un’altra
ottima notizia per la ricerca italiana», per D’Alessandro e Francesco
Berto, altro vincitore italiano del grant «Eerc» che lavora all’estero, è
l’ennesima beffa. Da qui lo sfogo su Facebook, commentato e rapidamente
condiviso migliaia di volte.
La ricercatrice, di origini
abruzzesi, è un «cervello in fuga» da 15 anni. Dopo varie esperienze
all’estero, ora insegna Linguistica all’Università di Leida in Olanda.
«Dopo il dottorato - racconta - ho provato a rientrare e non ci sono
riuscita. Arrivavo sempre seconda, con i complimenti della commissione.
Così ho giurato che non avrei mai più fatto domanda in Italia».
Per
questo non ci sta a essere considerata un successo italiano. «La mia
“Erc” e quella del collega Berto sono olandesi, non italiane. L’Italia -
precisa - non ci ha voluto, preferendoci, nei vari concorsi, persone
che nella lista degli assegnatari dei fondi “Erc” non compaiono, né
compariranno mai».
D’Alessandro non è l’unica a pensarla così.
Infatti, la metà dei vincitori italiani del grant europeo farà ricerca
all’estero. In Italia continueranno a lavorarci i ricercatori che,
quando hanno vinto il grant, si trovavano già nel nostro Paese. E nessun
cervello straniero porterà la sua borsa da noi. Il fatto più bizzarro è
che D’Alessandro spenderà i 2 milioni di euro vinti a studiare i
dialetti italiani.
Sempre in Olanda, il 42enne di Mestre Francesco
Berto, altro vincitore «Erc», insegna Filosofia all’Università di
Amsterdam. «Il ministro è venuto fuori con commenti in cui si vanta
della la ricerca italiana, ma - sottolinea - sarebbe stato più corretto
dire “la ricerca fatta da gente con un passaporto italiano”».
Dopo
la laurea all’Università Ca’ Foscari di Venezia e un post-dottorato a
Padova, Berto ha lasciato l’Italia nel 2007. «Ero disoccupato. Ho
lavorato prima due anni a Parigi, poi nel Regno Unito e negli Usa e oggi
sono ad Amsterdam». Ma lui non ha del tutto interrotto i contatti con
l’Italia. E anche l’Italia non ha del tutto interrotto i rapporti con
lui: peccato che l’ha fatto per intimargli ingiustamente di pagare una
tassa che solo chi possiede una tv in Italia deve allo Stato. «La Rai mi
ha cercato a lungo - racconta - sostenendo che dovevo pagare il canone.
E mi ha trovato sempre». Ora nei progetti di Berto ci sarebbe
l’intenzione di tornare, ma solo «a condizioni di lavoro più o meno
equivalenti».
La Stampa 14.2.16
Mamma uccide il figlio di otto anni poi si ammazza
Una
32enne ha sparato con un fucile da caccia al figlio di 8 anni e poi ha
rivolto l’arma contro di sé. È l’omicidio-suicidio lo scenario sempre
più concreto, secondo i carabinieri, avvenuto in un appartamento uno
stabilimento di Sambucheto, nella zona industriale di Recanati
(Macerata).
La porta di casa era chiusa, il fucile era accanto al
corpo di Laura Paoletti (laureata in economia e titolare di un’attività
di cartotecnica) in una posizione tale da far pensare che, dopo aver
sparato al figlio, si sia messa l’arma sotto il mento prima di far
partire l’ultimo colpo. Nessuno si è accorto di nulla, in un’area ricca
di fabbriche e poco frequentata il sabato mattina.
Il padre della
donna ha scoperto i corpi verso le 14, al rientro a casa: lei e il
bambino abitavano con lui temporaneamente, in attesa di trasferirsi in
una casa in campagna in via di ristrutturazione. Nel passato di Laura
una relazione complessa con il padre del bimbo, un geometra di 39 anni
del luogo, non sfociata in una vera e propria convivenza finita con una
burrascosa rottura, con denunce reciproche e, da parte di lei, per
stalking nei confronti dell’ex compagno.
Tra i motivi di tensione,
la custodia del bambino e i tempi e modalità di visita del padre. Con
l’assistenza di alcuni legali, era stato raggiunto da poco un accordo in
base al quale l’uomo poteva trascorrere con il figlioletto i pomeriggi
di mercoledì e venerdì. Ieri doveva andare a prenderlo intorno alle 16.
Ma ha ricevuto prima la notizia della tragedia, portata dai carabinieri.
Gli investigatori lo hanno sentito, ma il suo alibi è solido.
Repubblica 14.2.16
Tirolo
“Questa doveva essere area di collegamento europeo” I poliziotti: “Barriere inutili”
Brennero, Italia “Quel muro austriaco divide la nostra storia”
di Piero Colaprico
BOLZANO.
Ai poliziotti che arrivano a Bolzano dal Sud, i colleghi mostrano una
cartina per far comprendere subito «il clima»: i confini d’Italia quasi
non si vedono, invece da Rovereto a Innsbruck, dipinto di giallo, si
apre un grande territorio, chiamato «Euregio»: la macroregione europea
che corrisponde al vecchio Tirolo e va da Trento ai confini dell’Austria
con la Germania. Questa karte, o in italiano, questa «cartina
interregionale» che riporta confini irreali dal punto di vista della
geografia attuale, si trova regolarmente negli uffici pubblici.
Eppure,
oggi, come già è successo mesi fa a Spielfeld, al confine con la
Slovenia, l’Austria immagina anche con l’Italia il ritorno se non del
filo spinato, sicuramente di container e blocchi stradali e ferroviari, e
di autostrada ridotta a una sola corsia — questa l’ipotesi della
polizia tirolese, ventilata l’altro ieri — in modo da facilitare i
controlli a vista dei migranti e dei profughi.
Domani, a Bolzano
s’incontrano — a testimoniare la preoccupazione generale — Gunther
Platter, presidente del Tirolo, Arno Kompatscher, presidente della
provincia di Bolzano, e Ugo Rossi, della provincia di Trento.
Nell’attesa della politica, vista da vicino la situazione appare molto
più frastagliata di quello che viene detto.
Innanzitutto, migranti
e profughi non usano l’auto o il bus, ma il treno. E quale treno? La
pattuglie trilaterali — poliziotto italiano, austriaco, tedesco —
lavorano da tempo, ma — confida un agente — «noi siamo sui treni
internazionali, giusto? Sul Roma- Monaco, diciamo. Qui però anche i
treni regionali sono internazionali, e questi convogli regionali non è
che siano molto controllati. Ma quante “trilaterali” ci vorrebbero?».
Non solo: «Se c’è da presidiare un varco, noi ci muoviamo in cento, in
divisa, con la macchina che sulla fiancata ha come da Statuto la scritta
bilingue, polizia/ polizei, giusto? Peccato che chi vuole passare fa
molto in fretta ad avere le informazioni giuste e prova a passare dove
il valico è sguarnito».
Fuori dalla stazione ferroviaria del
Brennero, a due minuti a piedi, c’è una casa gialla a tre piani. La
curano i giovani e non giovani di Volontarius, associazione con
contributi pubblici, e Andrea Tremolada, 35 anni, racconta: «Nel 2014 i
dati della questura dicevano che tra Italia e Austria erano passate
4mila persone, nel 2015 ci siamo anche noi, e ne abbiamo contate
27.311». Sette volte di più? Possibile? «Esatto. Nella casa gialla del
servizio di assistenza umanitaria in questo periodo abbiamo circa 50
persone al giorno, magari sono state sorprese sui treni di notte, e
fatte scendere. Ma abbiamo anche un flusso inverso, ci sono pachistani e
afgani che tornano indietro, circa una ventina al giorno, succede da
quando a Colonia ci sono state le aggressioni alle donne nella notte di
Capodanno Sinceramente, non credo che un divieto, per giunta da parte di
un solo Stato, possa fermare un fenomeno epocale come la migrazione ».
Come
spiega a Repubblica Herbert Dorfmann, di Bressanone, eurodeputato della
Sudtiroler Volkspartei, «L’Euroregione è un obiettivo mio e del mio
partito ». La cartina Euregio non è infatti soltanto il pezzo di carta
che stupisce i funzionari neofiti, qui è sogno politico e rivendicazione
storica: «Dunque — commenta Dorfmann — «non può essere solo piste
ciclabili e guide enogastronomiche. Quando l’Austria dice “Noi non
lasciamo entrare tutti” esercita una pressione sulla Grecia, ma è
illusorio ipotizzare di fermare al Brennero chi ha già fatto migliaia di
chilometri rischiando la vita». Come lui, Stefan Pan, presidente al
secondo mandato di Assoimprenditori Alto Adige, rilancia: «Euregio è una
perfetta giuntura, che collega lo “stivale” italiano all’Europa del
Nord, e come giuntura non può e non deve essere immobilizzata di nuovo
da steccati».
Quando però si ascoltano al mercato di Bolzano le
persone semplici, si entra in un altro territorio mentale. Rosi e Dina,
una di lingua italiana l’altra di lingua tedesca, vendono insieme speck e
formaggi al mercato e hanno la stessa idea: «Se l’Austria chiude vuol
dire che non ce la fa più. Perché noi lavoriamo, paghiamo e non ci
rimane niente». Mario, concorrente, lingua tedesca: «Ora chiudono, poi
la situazione si calma, e riaprono. Per noi? Non è un problema».
Stephanie, cameriera in birreria: «Per i sudtirolesi come me non c’è
sempre bisogno di andare in Nord Tirolo, qui c’è tutto, e se c’è da fare
coda, la faremo, i documenti li abbiamo ».
Sono forse anche
questi i discorsi che hanno accelerato la decisione austriaca? A fine
aprile si vota alle presidenziali, e per alcune regionali tirolesi (ma
non Innsbruck): gli slogan anti-immigrato hanno presa su una parte
dell’elettorato, si sa. E quanto la mano dura non dispiaccia da queste
parti, lo rivela una copertina che Tageszeitung ha dedicato un anno fa
al questore Lucio Carluccio. Titolo « Der Sheriff », commento: «Lo
spietato». Aveva espulso alcuni albanesi per risse al bar e la
cittadinanza non aveva apprezzato: di più.
La Stampa 14.2.16
Tutti i limiti dell’accordo di Monaco
di Stefano Stefanini
Monaco
è tristemente famosa per il ben intenzionato accordo del 1938 che
spianò la via alla Seconda Guerra Mondiale. I ben intenzionati
negoziatori del cessate il fuoco in Siria, Kerry, Lavrov, de Mistura,
Mogherini, hanno fatto bene a ricacciarne il fantasma e non darsi per
vinti. Hanno però ottenuto solo un cessate il fuoco che non si applica a
tutti e ad entrata in vigore ritardata di una settimana.
Non si
applica alle operazioni contro Isis. E fin qui va bene: lo Stato
Islamico non è parte dei negoziati. Non si applica, per i russi, ai
bombardamenti contro al-Nusra. Al-Nusra è una filiale qaedista che pure
non ha posto al tavolo, ma come distinguerla sul campo di battaglia
dalle fazioni ribelli più accettabili? Assad si sente vincitore. Crede
“fermamente” nei negoziati, ma non intende interrompere la lotta contro i
terroristi che si oppongono al suo regime. Aggiunge che non si fermerà
fino alla riconquista dell’intero paese: cosa resta da negoziare?
Il
cessate il fuoco è stato un’intesa dell’ultima ora fra Sergei Lavrov e
John Kerry. Per tutta la settimana però la Russia continuerà i
bombardamenti, che colpiscono anche l’opposizione non-Isis, come
ampiamente avvenuto ad Aleppo. Dopo? terrà a freno Assad o ne appoggerà
l’offensiva? non avrà anche Putin la tentazione di vincere prima,
trattare dopo? Visibilmente infelice, il portavoce americano ha ammesso
che «conterà quello che succede sul terreno». Cioè: combattimenti a
terra no, bombardamenti sì. Il guerrigliero armato di Kalashnikov
smetterà di sparare pur restando bersaglio di un missile aria-terra?
I
negoziatori hanno fatto del loro meglio. Con il cessate il fuoco
strappato a Monaco tentano di far ripartire il negoziato di Ginevra fra
le parti siriane. Guadagnano uno spiraglio essenziale per gli aiuti a
popolazioni stremate. Cercano di fermare le ostilità prima che mettano
faccia a faccia Damasco, Russia e Iran, da una parte, Ankara e Arabia
Saudita dall’altra (le forze di Assad sono ormai vicine alla frontiera
turca). Non è colpa loro se l’accordo segna i limiti, se non il
fallimento della diplomazia.
L’assenza da trattative sul cessate
il fuoco proprio delle parti che dovrebbero cessarlo è superabile se i
negoziatori hanno mandato per rappresentarle o il potere di imporlo. A
Monaco non avevano né l’uno né l’altro. Affinché la diplomazia abbia
successo sono necessarie due condizioni. La prima è di essere sostenuta
da credibili e forti leve di pressione. Come amava dire Theodore
Roosevelt, «si va lontano parlando sommessamente e portando un grosso
bastone». La seconda è di svolgersi fra Stati o entità responsabili. Con
uno Stato fallito, come la Siria, anche la diplomazia fallisce.
In
Siria era stata a lungo impotente perché non aveva alcun bastone; nel
frattempo lo Stato precipitava nell’abisso del fallimento, con quattro
milioni di rifugiati e otto di sfollati interni, fazioni che si
combattono fra loro, potenze straniere e milizie che le sostengono. Chi
rappresenta la Siria? Al tavolo del negoziato di Ginevra dovrebbero
sedere 33 gruppi, regime compreso, Isis e al-Nusra escluse. A confronto,
i ventotto partecipanti ai più riottosi Consigli Europei o Consigli
Atlantici sono un coro di voci bianche.
La diplomazia ha ripreso
vita quando hanno cominciato a materializzarsi alcuni bastoni. Prima
quello americano contro Isis, poi quello russo a sostegno di Assad,
infine quello francese di una coesione internazionale anti-terrorismo,
dopo gli attentati di Beirut, Sharm el-Sheikh e Parigi. Non appena
quest’ultima ha cominciato a sfilacciarsi, prima per lo scontro fra
Russia e Turchia dopo il Sukhoi 24, poi per la rottura fra Arabia
Saudita e Iran, la diplomazia ha cominciato a perdere colpi.
L’Italia,
presente a Monaco col Ministro Gentiloni, dovrebbe studiare a fondo la
lezione siriana. Perché il caso libico è identico. Altro Stato fallito.
Altra diplomazia delle Nazioni Unite, da noi sostenuta con grande
impegno, completamente disarmata. La soluzione politica del governo di
riconciliazione nazionale non decolla; Isis si rafforza; la situazione
umanitaria, di sicurezza, di aleatorietà delle forniture energetiche e
di pressione migratoria peggiora costantemente. Se la diplomazia
internazionale fallisce in Siria, figuriamoci in Libia, dove finora non
ha alcun bastone.
Corriere 14.2.16
I sogni infranti dei ribelli: «Abbandonati dagli alleati ci accusano di essere dell’Isis»
di Lorenzo Cremonesi
GAZIANTEP
(Turchia) Dalla rivoluzione popolare per rovesciare la dittatura di
Bashar Assad alla lotta partigiana contro l’occupazione della Siria da
parte dei russi assieme all’Iran e alle milizie sciite.
Differiscono
per enfasi e dettagli le reazioni dell’opposizione siriana
all’intensificarsi delle operazioni militari russe delle ultime
settimane, ma nella sostanza concordano su di un punto: la superiorità
bellica degli avversari è divenuta tale che occorre passare dalla guerra
aperta alla guerriglia; non più pretendere di controllare il
territorio, bensì organizzarsi in cellule pronte a colpire e sparire tra
una popolazione che in larga maggioranza resta ostile al regime di
Damasco.
«Siamo stati abbandonati dai nostri alleati. Gli aiuti
forniti dagli Stati Uniti, la Nato e in generale il fronte anti-Assad,
sono irrisori rispetto al sostegno che Mosca, Teheran e le milizie
sciite regionali garantiscono alla dittatura criminale che domina a
Damasco. È una situazione ben triste. Noi, che incarnavamo le speranze
per una Siria democratica, siamo stati accusati di simpatizzare per Isis
e il terrorismo jihadista. Vince la dittatura contro la democrazia e
voi occidentali ne siete complici. A parole l’Occidente e il mondo
libero ci hanno incoraggiato. Salvo alla prova dei fatti lasciarci soli.
Oggi le poche armi e munizioni che arrivano ai nostri gruppi sono nulla
rispetto a ciò che invia Mosca», sostiene il 50enne ex alto ufficiale
dell’esercito siriano Abdul Jabbar Akidi incontrato ieri sera nel suo
ufficio a Gaziantep. Una figura nota. Akidi era colonnello nelle prime
fasi delle rivolte cinque anni fa, quando decise di disertare per unirsi
a coloro che «volevano portare la libertà nel nostro Paese». Per due
anni ha comandato con il grado di generale il nuovo Esercito Siriano
Libero, sino al novembre 2013, quando si è dimesso «per protesta contro
le troppe divisioni interne». Da allora resta però uno dei militanti più
attivi e molto consultato degli esperti militari. «Ovvio che i nostri
uomini non hanno la capacità di fronteggiare sul campo i jet russi e
neppure le addestrate e ben equipaggiate formazioni di Guardie della
Rivoluzione iraniana o di Hezbollah libanesi e sciiti iracheni. Però
possono darsi alla macchia, colpire e dileguarsi. La stragrande
maggioranza dei siriani è con noi. I russi e gli iraniani non potranno
restare nel Paese per sempre. Dalla rivoluzione alla lotta di
liberazione: faremo in modo di rendere la loro permanenza difficile. E
alla fine Assad si rivelerà per quello che è: un burattino a capo di una
struttura dissanguata, minoritaria».
Quanto agli accordi sul
cessate il fuoco appena faticosamente raggiunti a Monaco tra Stati Uniti
e Russia, il giudizio di Akidi fa eco alle decine che abbiamo raccolto
tra dirigenti e militanti dell’opposizione siriana rifugiati in Turchia:
«non hanno alcun valore, sono morti sul nascere».
«Vale lo stesso
principio che ha caratterizzato il recente fallimento dei colloqui di
Ginevra e quelli di Vienna: non è possibile negoziare mentre i nostri
nemici ne approfittano per attaccare ancora più duri. Ad Aleppo oltre
400 mila civili sono sotto assedio, a Homs più di 300 mila, oltre a
decine di villaggi ridotti alla fame», risponde Mohammad Abu Mazen,
37enne avvocato che dirige i 1.250 combattenti di una brigata operante a
Homs. E aggiunge un’osservazione preoccupata: «Noi siamo convinti che,
dopo aver battuto nel sangue le nostre milizie del fronte moderato, i
russi cominceranno ad attaccare Isis. E ciò gli farà guadagnare consensi
tra le opinioni pubbliche occidentali. Ma toglierà ben poco al fatto
che la maggioranza dei siriani non vuole più Assad. Noi continueremo a
batterci». Le ultime cronache dal terreno confermano il proseguimento
dell’offensiva a guida russa. La stretta attorno ad Aleppo si è fatta
più aggressiva, con l’irruzione delle forze pro-iraniane in almeno tre
villaggi nei settori settentrionali. L’esercito turco intanto ha fatto
fuoco contro le milizie curde siriane, che avevano approfittato del caos
per catturare i villaggi di Malkiyeh e Mannagh.
La Stampa 14.2.16
Il greggio iraniano in Europa
Ecco i primi 4 milioni di barili
II Venezuela preme per tagliare la produzione. Bce: crescita a rischio
di Giuseppe Bottero
I
primi quattro milioni di barili di petrolio iraniano diretti in Europa
sono partiti. «Due milioni sono stati acquistati dalla compagnia
francese Total e gli altri due da gruppi spagnoli e russi», ha
annunciato ieri Teheran. È il primo passo di un ritorno in grande stile,
che rischia di accelerare la picchiata dei prezzi del greggio e
tagliare fuori i produttori statunitensi. Il Paese, che si è appena
lasciato alle spalle le sanzioni, al momento punta a immettere sui
mercati internazionali un milione di barili in più al giorno.
L’obiettivo è alzare il ritmo, arrivando a un milione e mezzo entro
l’inizio del nuovo anno persiano - prende il via il 20 marzo - per poi
allungare fino a due milioni.
Non sarà semplice, spiegano gli
analisti, visto che la filiera produttiva si è logorata e riammodernare
le strutture ha costi molto alti. Il nuovo oro nero, però, aumenterà
ancora lo squilibrio tra un’offerta sempre più abbondante e una domanda
che resta molto debole.
Le mosse dell’Opec
A questo punto,
la prossima mossa dovrebbe toccare all’Opec, il cartello degli
esportatori che sotto la spinta delle monarchie sunnite del Golfo ha
fatto precipitare il prezzo sotto la soglia critica dei 30 dollari a
barile. Il Paese che più degli altri si sta muovendo per convincere i
colleghi sauditi a cambiare politica è il Venezuela, sull’orlo del
baratro nonostante sia seduto sulle riserve più grandi del mondo. Il
presidente Nicolas Maduro ieri ha detto in tv che «il prezzo non tornerà
mai più a 100 dollari al barile» e ha chiesto di agire. «Non possiamo
rassegnarci a lasciare che il greggio finisca preda del mercato degli
speculatori», ha spiegato il ministro del petrolio di Caracas, Eulogio
Del Pino. Un appello drammatico a cercare un accordo che lascia scettici
gli osservatori: intese del genere, infatti, sono semplici da eludere.
Le stime del Kuwait
In
assenza di contromisure, comunque, il prezzo potrebbe in ogni caso
tornare a un livello più rassicurante per i paesi produttori e per le
grandi major petrolifere entro la seconda metà del 2017, prevede il
presidente della Kuwait Petroleum International (Q8), Bakheet
Al-Rashidi, che spera in «50-60 dollari al barile». Di certo la
situazione attuale, che pure dovrebbe portare benefici ai consumatori,
non tranquillizza la Banca centrale europea: il crollo del greggio e il
rallentamento della crescita rappresentano «nuovi rischi» per
l’economia, anche rispetto a dicembre, ha avvertito il componente del
consiglio esecutivo di Francoforte, Benoit Coeuré. E i mercati si
preparano a nuove sedute sulle montagne russe: dopo la picchiata del
barile ai minimi da dodici anni, venerdì è stato il giorno del grande
rimbalzo a 29,44 dollari. Le tre petroliere salpate dall’Iran potrebbero
cambiare di nuovo le carte in tavola.
La Stampa 14.2.16
Gli occhi di Giulio Cesare da Dante ai Promessi sposi
Uno studio di Luciano Canfora indaga le fonti latine che hanno nutrito laDivina Commedia(e non solo)
di Gian Luigi Beccaria
Frammezzo
alla ricchezza di dati obiettivi e riferimenti, cosa dimostra il
volumetto di Luciano Canfora che esce col titolo Gli occhi di Cesare. La
biblioteca latina di Dante (ed. Salerno, pp. 97, € 8,90)? Mostra che
chi scrive non si rifugia al fresco sotto un pero a contemplare le
stelle, o si lascia lambire dallo zefiro vivificante di primavera che
gli insuffla l’ispirazione, ma inventa, innova, costruisce i propri
libri usando altri libri: racconta, ma al cospetto di quanto hanno fatto
altri prima di lui, seguendoli, magari rovesciandoli.
Perché «gli
occhi di Cesare»? Dante ha posto Cesare tra «li spiriti magni» del
limbo, dove lo fa comparire «armato con li occhi grifagni». Non è
casuale l’aggettivo. Non è totalmente invenzione di Dante. L’unica fonte
latina che fornisca un ritratto fisico di Cesare è il capitolo 45 di
uno dei testi più diffusi nel Medioevo occidentale, il De vita Caesaris
di Svetonio. Il quale Svetonio aveva scritto: «nigris vegetisque
oculis». Dante vuole mettere in rilievo gli occhi vividi, lucidi e neri,
simili a quelli di un falcone, o grifone, di un uccello di rapina
insomma: occhi fieri, lampeggianti, come di animale sempre pronto a
ghermire.
Una volta indicata la fonte certa, Canfora compie un
secondo passo, e cita Manzoni, capitolo VII dei Promessi sposi: c’è un
bravo armato (sta a guardia dell’osteria dove Renzo, Tonio e Gervaso
cenano insieme per preparare il colpo di mano del matrimonio
clandestino) appoggiato al vano della porta che fa «lampeggiare ora il
bianco, ora il nero dei due occhi grifagni». Nello stesso capitolo
affiorano anche richiami al Giulio Cesare di Shakespeare, un passo del
monologo di Bruto, quando parla dell’intervallo che si frappone tra il
compiere un’azione terribile e il primo impulso a compierla, una sorta
di sogno orribile, di incubo: quel passo è addirittura ripreso nel
pensiero di Lucia angosciata durante la preparazione del citato
matrimonio a sorpresa in casa di don Abbondio.
Cesare-Svetonio-Dante-Shakespeare.
Canfora è implacabile. Esamina ogni dettaglio, non molla la preda. Non
molla difatti il nostro Manzoni, e va al Cinque maggio, dove si mettono
insieme Cesare e il Giustiniano di Dante di Paradiso VI: Cesare «fu di
tal volo / che nol seguiteria lingua né penna». E Manzoni a sua volta
scriverà di Napoleone: «di quel securo il fulmine tenea dietro al
baleno». E ancora Giustiniano, quando insisteva sulle fulminanti
campagne di guerra di Cesare, prepara la via a Manzoni che nella sua Ode
ci dirà dell’altrettanto fulminante, velocissima carriera guerresca di
Napoleone: «Dall’Alpi alle Piramidi / dal Manzanarre al Reno…», e poi
«scoppiò da Scilla al Tanai / dall’uno all’altro mar».
Stesso
ritmo accelerato, stessa sequenza spazio-temporale vorticosa. In questi
casi però Manzoni mette a confronto due grandi, Cesare-Napoleone. Nel
capitolo VII dei Promessi sposi invece capovolgerà la prospettiva
storica. Ormai pensa che la storia non è fatta dai grandi, tant’è vero
che il Cesare dantesco dagli occhi grifagni ora è grottescamente
rovesciato in un bravaccio. Una vera «stoccata anticesariana». A un
bandito di strada sono attribuiti gli occhi del Cesare dantesco e
svetoniano: è un gioco dissacrante, come Manzoni ama fare ogni tanto,
per esempio (è sempre Canfora a notarlo) quando paragona Don Rodrigo che
fugge scornato dal paese dopo il voltafaccia dell’Innominato al
Catilina in fuga da Roma, come l’aveva descritto Sallustio nel De
coniuratione Catilinae.
Siamo soltanto che alle prime venti pagine
di questo denso volumetto. Nelle seguenti Canfora continuerà a parlare
fittamente di Svetonio, e di Livio, di Orosio, di Lucano, di Sallustio,
di Tacito, libri essenziali della biblioteca storica di Dante. Un
piccolo libro, questo di Canfora, ma talmento ricco di riferimenti e di
scaltrezza che non solo ci addottrina, ma dimostra compiutamente che
forse la letteratura esiste - scriveva Zanzotto - «quasi come invito a
entrare in un coro di citazioni». Ci vuole uno Sherlock Holmes della
filologia come Canfora per scovarle, incrociarle, e interpretarle a
fondo.
La Stampa 14.2.16
Cosmacini narra mille anni di medicina
di Piero Bianucci
Medico
con una laurea in filosofia, radiologo, docente alla Statale di Milano e
all’Università Vita-Salute del San Raffaele, già collaboratore di don
Gnocchi, a 85 anni Giorgio Cosmacini è il nostro più autorevole storico
della medicina. Dopo decine di saggi spesso intrecciati con la bioetica,
ora ci mette tra le mani un piccolo libro che fonde inscindibilmente le
sue due culture, quella bio-medica e quella umanistica.
Medicina
narrata (Sedizioni, pp. 92, € 18) traccia un percorso letterario lungo
quasi mille anni usando come bussola la malattia: non casi patologici
singoli, ma malattie che hanno segnato la storia e la società
trasformandosi talvolta in visioni del mondo. È il caso della peste da
Boccaccio a Manzoni a Camus: rispettivamente ecatombe esorcizzata con il
gioco, dramma inscritto nel disegno della Provvidenza, metafora del
nazismo e del Male. O della sifilide che corrode Benvenuto Cellini
diventando nell’immaginario collettivo marchio sociale e punizione del
peccato, proprio come cinque secoli dopo accadrà con l’Aids. O ancora la
tubercolosi, sublimata in segno di ipersensibilità romantica, o ancora
il cancro in Tolstoj, o la malaria in Verga.
In pagine veloci
Cosmacini riesce a raccontare la storia delle grandi malattie riflesse
nello specchio della letteratura, la loro fenomenologia, il loro vissuto
sociale, i rimedi tentati nel corso dei secoli, da quelli popolari a
quelli scientifici. Sotto traccia, c’è una attenzione costante al
rapporto tra paziente e malattia (guai a identificare l’uno nell’altro:
non c’è il diabetico ma la persona malata di diabete) e al rapporto non
meno delicato tra medico e paziente, oggi esposto al rischio che il
tecnicismo uccida l’empatia umana. Claudio Magris, di recente, coglieva
un segnale di allarme nel linguaggio medico sempre più specialistico, e
raccomandava la cura prima del malato e poi della malattia. È questa la
strada da riconquistare, forti, ma non schiavi, delle acquisizioni
scientifiche. Ed è anche l’unico modo per contrastare le pseudomedicine
new age.
Repubblica 14.2.16
Un Nobel alla memoria per Einstein
di Piergiorgio Odifreddi
Ha
fatto scalpore nei media la notizia, arrivata giovedì scorso, della
rilevazione di onde gravitazionali. Uno scalpore forse eccessivo, per
due motivi. Anzitutto, perché si è trattato di un’osservazione
sperimentale, e non di una previsione teorica. E poi, perché si è
trattato di una conferma, e non di una smentita. In altre parole, tutto è
in ordine nella Relatività generale che Albert Einstein formulò un
secolo fa, nel novembre del 1915. La stessa cosa era successa nel 2012
con l’osservazione del bosone di Higgs, anch’esso previsto mezzo secolo
prima. Quella volta la conseguenza era che tutto è in ordine con la
meccanica quantistica, che lo stesso Einstein aveva contribuito a
formulare. Ma non da solo, come per la Relatività, bensì in un processo
collettivo che coinvolse alcune delle più belle menti della fisica del
Novecento.
Non è facile prevedere se gli osservatori delle onde
gravitazionali prenderanno ora il premio Nobel. Quelli del bosone di
Higgs non l’hanno preso, perché nel 2013 è stato premiato Higgs stesso:
colui che l’aveva previsto, cioè, non coloro che l’hanno confermato.
Semmai un premio Nobel dovrebbe andare alla memoria a Einstein, che
vinse il suo nel 1921, ma non per la relatività. Anzi, finora nessuno
l’ha mai preso in quel campo, e forse sarebbe ora di rimediare: le onde
gravitazionali potrebbero infine offrire un’occasione.
Corriere 14.2.16
Azar Nafisi : i libri sono utili se mettono i lettori a disagio
intervista di Luca Mastrantonio
La
scrittrice iraniana Azar Nafisi, nata nel 1955, ha studiato da giovane
in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Tornata in patria nel 1979, ha
insegnato a lungo all’università, mettendosi in urto con le autorità di
Teheran
Negli anni Novanta Azar Nafisi ha lasciato l’Iran per
trasferirsi negli Usa, dove insegna alla Johns Hopkins University. Il
suo libro più noto è Leggere Lolita a Teheran , edito da Adelphi nel
2004
A vedere certe vecchie foto dell’Iran e quelle
americane di oggi, la vita di Azar Nafisi sembra passata dalla notte al
giorno. Forse è l’effetto del bianco e nero delle foto dei primi anni
all’università a Teheran, con il bianco delle scritte a gesso sulla
lavagna, nera, e il nero del velo a incorniciare il volto, chiaro;
opposto alla vivacità a colori della nuova vita americana, radiosa negli
scatti al matrimonio del figlio Dara (nel 2015, mentre la sorella si è
sposata nel 2014). In una c’è anche Bryce, il cane di Dara: «Da piccola —
dice Nafisi — ne avrei tanto voluto uno, ma mia madre era contro gli
animali domestici». A Bryce hanno messo una cravatta blu, con puntini
bianchi, come quella dello sposo, racconta via mail la scrittrice che
vive a Washington, dove insegna alla John Hopkins University; ma con
l’Iran, lasciato nel 1997, sempre nel cuore (ha anche una passione per
l’Italia, dove è pubblicata da Adelphi: l’ultimo libro è La Repubblica
dell’Immaginazione ).
Su Twitter ha scritto che Washington con la neve le sembra Teheran.
«Vivo
a Foggy Bottom, vicino al fiume Potomac. Ogni mattina mi sveglio e lo
saluto, come a Teheran guardavo le montagne innevate: è il mio contatto
emotivo con la città. All’inizio di quest’anno, guardando fuori dalla
finestra, tutto era bianco, con strisce di luce e gli uccelli sul fiume
ghiacciato. Mi sono tornati i ricordi delle giornate luminose di neve a
Teheran, le passeggiate con un’amica d’infanzia, i racconti, i bignè con
panna fresca, il sorbetto di ciliegia fatto da mia madre con la neve».
Oggi in Europa si discute del velo islamico. Lei fu espulsa dall’università nel 1981 per averlo rifiutato.
«Chiariamo:
la mia protesta non era contro il velo in sé, ognuno può criticarlo o
difenderlo, ma contro l’imposizione che viola i diritti delle donne.
Deve essere una scelta personale, non dello Stato o di altre autorità.
Comunque, 17 anni dopo quell’episodio ho lasciato il Paese perché non
avevo modo di fare quello che amavo: insegnare letteratura. Mi sentivo
esiliata nella terra dove sono nata. Così me ne sono andata, con mio
marito, Bijan Naderi, che ho conosciuto nel movimento studentesco, e i
due figli, Dara e Negar, nati durante la guerra Iran-Iraq».
A metà gennaio è entrato in vigore l’accordo tra Usa e Iran sul nucleare. Lei come lo giudica?
«Mi
preoccupa la mancanza di strategia politica degli Stati Uniti. I
negoziati possono creare le basi per un Iran più aperto, ma ciò non
avverrà automaticamente. L’America doveva tenere il punto sulle atrocità
che il regime commette. Tra i miei amici restati in Iran alcuni pensano
che questo possa costringere Teheran ad essere più aperta,
responsabile. Altri credono sia uno stratagemma dal regime per ottenere
più soldi da utilizzare per un maggiore controllo sul popolo iraniano.
Con Rouhani presidente non ci sono stati miglioramenti su diritti umani,
numero di esecuzioni, torture, carcere, corruzione...».
A fine febbraio in Iran ci saranno nuove elezioni. Quali sono le sue previsioni?
«Il
Consiglio dei Guardiani, che decide chi ammettere o no, ha invalidato
le candidature delle opposizioni: che esito democratico possono avere?»
Qual è il suo orientamento per le presidenziali Usa?
«Voterò
democratico. Ci sono buoni candidati, devo ancora decidere. Sono
consapevole dei punti deboli di Hillary Clinton, ha una matrice troppo
politica, ma è tosta, focalizzata sul lavoro; da sempre ha sostenuto i
diritti delle donne e dei bambini».
In «Leggere Lolita a Teheran» lei usava i classici per «leggere» il suo Paese. Per gli Usa che titolo sceglie?
«Direi
Le avventure di Huckleberry Finn , perché ancora ci turba. La destra,
che vuole vietare Harry Potter nelle scuole perché promuoverebbe riti
“satanici”, vuole censurare il libro di Twain per il linguaggio rozzo e
la mancanza di rispetto verso la religione; la sinistra, invece, per la
parola nigger , cioè perché il libro non è politicamente corretto.
Entrambe si trovano disagio: il libro è pericoloso e offensivo. Bene!
Come James Baldwin ci ricorda, scrittori e artisti non devono farci
sentire al sicuro, devono “turbare la pace”, mettere in discussione non
solo il mondo o quelli con cui non siamo d’accordo, ma pure le nostre
supposizioni, i pregiudizi. La parola nigger in quel contesto è usata
non per insultare gli schiavi, ma per esporre la crudeltà e la violenza
della schiavitù. Se un libro a più di un secolo di distanza ancora ci
turba, è perché rivela chiaramente, senza sentimentalismi, la natura
atroce della schiavitù, e il fatto inquietante che possono essere
razziste non solo le persone terribili, ma pure quelle gentili».
Il politicamente corretto non sembra compatibile con la grande letteratura.
«Il
politicamente corretto non consente il dibattito e vuole eliminare i
pregiudizi facendo appello alle emozioni. Si basa sul desiderio di
trovare soluzioni facili per situazioni molto complesse, mentre la
grande narrativa deve farci sentire in difficoltà. Prendiamo Va’, metti
una sentinella di Harper Lee, dove scopriamo che l’avvocato Atticus
Finch, eroe del B uio oltre la siepe , in realtà è un razzista. Non può
esserlo uno che lotta per la giustizia? È così che Harper Lee ci mostra i
paradossi, le contraddizioni dell’animo umano».
A volte si cade nel vizio opposto: il politicamente scorretto ad ogni costo.
«Non
confonderei il piano letterario con quello del potere. Prendiamo Donald
Trump: rappresenta la denigrazione della fantasia e delle idee, mostra
come l’arroganza affondi le sue radici nell’ignoranza. Lui è il lato
commerciale dell’America, che ama solo la celebrità, la negazione della
storia, la realtà sostituita con le illusioni».
A proposito di celebrità, lei ha postato su Facebook una foto con David Bowie.
«È
stato un bellissimo incontro. Volevo parlargli delle sue canzoni, ma
avevo paura di fare troppo la fan… Lo immaginavo cool e pieno di charme,
in un modo unico e ultraterreno, come il Piccolo principe. E lui è
realmente così! La mia canzone preferita è Changes , soprattutto quando
dice “Mi sono voltato verso di me”: mi affascina l’idea dello straniero
che vediamo allo specchio, che ci conosce e sbeffeggia».
Lei è celebre per libri autobiografici e di immaginario letterario. A quando un’opera di pura fiction?
«Non so, deve venire naturale. Finché non ne realizzerò una, non sarò soddisfatta».
Una biografia che le piacerebbe scrivere?
«Sono
sempre stata affascinata da scrittori classici di cui si sa poco, come
il grande poeta epico persiano Ferdowsi. O, tra i moderni, Alam Taj, una
poetessa che non ha mai pubblicato poesie, ma le nascondeva nei libri
che leggeva. E faceva la casalinga».
Corriere La Lettura 14.2.16
Il contagio
Il
panico delle Borse per i titoli tossici, il reclutamento sul web dei
terroristi, le emergenze sanitarie: non si contano i fenomeni virali,
fino a configurare un processo sempre in atto, scarsamente prevedibile,
che può espandersi o contrarsi. Questo tuttavia finisce pur sempre per
rivelare ciò che, nell’essere umano, è stabile e duraturo, e si
rinnova a ogni generazione. Ne hanno parlato Albert Camus nella «Peste» e
George Orwell in «1984».
Ma forse la pagina più istruttiva si trova già nelle «Storie» di Tito Livio
di Emanuele Trevi
Non
sono il solo a nutrire una tenace diffidenza nei confronti
dell’aggettivo «globale». Con tutte le sue pretese di spiegare la
realtà, mi sembra una parola difettosa, sospesa tra la pura tautologia e
la petizione di principio. Più che esprimere un pensiero, denuncia
un’abitudine. Al concetto di «virale», invece, e alla metafora del
«contagio» che gli fa da base, attribuisco una grande credibilità. Il
«virale» designa alla perfezione tutti gli innumerevoli fenomeni che
costituiscono la cosiddetta «globalità». Non è un destino, una legge, un
dato di fatto a cui dobbiamo adeguarci, bensì un processo sempre in
atto, scarsamente prevedibile, dotato di possibilità di espansione e
contrazione.
Per constatare quanto la metafora sia adatta a render
conto di molti dei fenomeni più emblematici del nostro tempo, lungo un
arco di significato che va dalle catastrofi economiche ai prodotti
estetici, basta seguire un telegiornale dall’inizio alla fine. In queste
settimane, la notizia di apertura riguardava spesso le Borse asiatiche.
Ogni mattina, misteriose fluttuazioni di valori e listini generano un
contagio di sfiducia che accompagna il corso del sole come i fidi
cavalli alati della mitologia, ritornando al punto di partenza dopo
essersi propagato attraversando mari e continenti. Simili a medici che
hanno esaurito tutti i loro rimedi, gli operatori finiscono sempre per
guardare i loro monitor a braccia conserte, augurandosi che chi ha
deciso di inoculare il virus questa volta non esageri.
Dalla
finanza alla geopolitica, in un notiziario, il passo è breve. Il
bollettino del terrorismo planetario va aggiornato di continuo, ma
l’orrore delle imprese jihadiste è la conseguenza di un altro genere di
contagio, che infesta le reti dei social network contatto dopo contatto.
Questo virus è così potente da trasformare nel giro di qualche giorno
persone in apparenza normalissime in mostri decisi a farsi saltare in
aria trascinando con sé il maggior numero possibile di innocenti.
L’efficacia del reclutamento incute quasi più paura degli attentati. I
servizi finali di un telegiornale per tradizione sono meno ansiogeni, e
appartengono a quell’indefinibile galassia che nelle redazioni viene
definita come «cultura e spettacoli». Ma non per questo la metafora del
contagio perde la sua forza: al contrario, la viralità decreta molte
delle effimere glorie artistiche di oggi, con grande scorno dei vecchi
critici aggrappati ai loro scranni e a un modello del sapere e del
giudizio in via d’estinzione.
Nell’immaginare questo telegiornale,
stavo dimenticando che è sempre più raro un periodo privo di minacciosi
allarmi sanitari — come appunto il virus Zika di questi tempi o le
ricorrenti paure legate alla meningite —, destinati o meno a tramutarsi
in emergenze vere e proprie. Tra i tanti impieghi metaforici, un
concetto deve pur mantenere una sua base di senso letterale. Altrimenti,
le metafore farebbero la fine dei palloncini che si perdono nel cielo.
Le epidemie e i contagi, considerati in senso sanitario, risvegliano
tratti arcaici nella nostra umanità dall’illusione di un progresso
lineare e infinito. Sorridiamo degli antichi e della loro teoria dei
«miasmi» vaganti nell’atmosfera, inorridiamo leggendo la Storia della
colonna infame di Manzoni, ma con tutta la nostra tecnologia, i vaccini
sono difficili da trovare come gli aghi nel pagliaio dei proverbi. Ed è
il nostro modo di vita, fondato sulla facilità degli spostamenti e dei
contatti, a rendere i virus più pericolosi di quanto lo fossero
nell’Atene di Tucidide o nella Londra di Daniel Defoe.
La verità è
che, prima ancora che definirsi «mortale», l’umanità dovrebbe pensare a
se stessa come la forma di vita più «contagiabile» al mondo. Dagli
organi del corpo alle più sottili e impalpabili emozioni, non esiste
nulla in noi che sia dotato di un’esistenza autonoma. A partire dalla
più umana delle facoltà, quello straordinario contagio perpetuo che è il
linguaggio. Sarà per questo che tutte le forme di saggezza superiore
elaborate dalle culture più diverse hanno in comune un ideale di
separazione tanto fisica quanto spirituale. Dai filosofi-maghi taoisti
ai sapienti greci, dagli asceti indiani ai poeti romantici, per non
parlare degli eremiti cristiani dei primi secoli, un buon uso della
solitudine è la caratteristica fondamentale dell’uomo dotato in misura
eccezionale di poteri spirituali e consapevolezza. Come lo Zarathustra
di Nietzsche, quest’uomo potrà pure un bel giorno decidere di scendere
fra gli uomini dalla sua montagna, ma è lì che è diventato se stesso. La
solitudine lo ha preservato dal contagio delle opinioni, ha tenuto
acceso in lui il fuoco esclusivo della verità.
Non si tratta di un
vano ideale aristocratico di sapore fascistoide. Una preoccupazione non
diversa poteva animare Albert Camus quando, nel 1947, pubblicava La
peste , un capolavoro che troppo spesso tendiamo a relegare
nell’insipido limbo delle letture scolastiche. E invece, è uno di quei
libri che non sentono gli anni, il frutto di un’intuizione antropologica
fulminante. La grande allegoria di Camus si basa su un sorprendente
rovesciamento: l’epidemia di peste che si abbatte all’improvviso su
Orano è certamente un’emergenza imprevedibile. Ma se lo stato
d’eccezione sovverte abitudini e valori, finisce pur sempre per rivelare
ciò che, nell’essere umano, è stabile e duraturo, e si rinnova a ogni
generazione. Il contagio è immaginato da Camus come un assedio. Dalla
pacifica e sonnolenta città della costa algerina, nessuno può più
uscire. E chi si trovava fuori nei giorni in cui l’epidemia è scoppiata,
non può fare ritorno a casa. Mentre il conto dei morti sale implacabile
giorno dopo giorno, si instaurano nuove leggi e vengono minacciate
severe punizioni per chi le infrange. Sono tutte misure profilattiche
razionali, ispirate al bene comune. Ma c’è un prezzo da pagare. La peste
rende tutti uguali. Il primo effetto della paura sembra quello di
annullare quelle esigenze di libertà che sono proprie all’individuo,
all’irripetibile conformazione dei suoi desideri e delle sue speranze.
Non potrebbe andare diversamente, vista la situazione. È la regola di
ogni emergenza: sanitaria, economica, criminale. La grande morìa dei
topi di Orano, descritta nelle pagine iniziali della Peste , suona come
una terribile profezia, un geroglifico che nessuno al momento è capace
di decifrare. A far inorridire non è solo la malattia che accomuna
uomini e bestie nella stessa sorte, ma il fatto che i topi sono
un’entità collettiva, la sinistra parodia di una società dove
l’esistenza del singolo non ha più nessun peso, nessun senso.
Pochi
mesi dopo La peste , George Orwell pubblicò 1984 . Questi due grandi
scrittori, spiriti liberi in un mondo infestato dal conformismo e
dall’ottimismo di partito, raccontarono più o meno la stessa storia. La
peste di Orano e il Grande Fratello non si oppongono, ma si integrano,
sono simboli di un male che per manifestarsi non fa distinzione tra
catastrofi naturali e incubi culturali. Non mancano, ahimè, le occasioni
di constatare quanto sia illuminante il corto circuito innescato da
Camus fra la peste e i flagelli inventati dall’uomo. Non c’è nulla che
assomigli alla sua Orano stremata dal contagio più delle immagini di
Parigi e Bruxelles paralizzate dal terrore che si vedevano in
televisione lo scorso novembre.
Ancora meglio di Orwell e Camus,
noi oggi sappiamo che non c’è modo di rimediare alla caratteristica
suprema della nostra vita fisiologica e mentale, che consiste in un
grado irrimediabile di contagiabilità. La solitudine degli antichi saggi
è diventata una strada impraticabile, una specie di mito psicologico.
Forse l’unica vera risorsa che ci resta è quella di andare a scuola
dalla peste, combattere il contagio con le sue stesse armi.
È
l’idea che mi ispira quello che, in tutta la sterminata letteratura
sulle epidemie, mi sembra il racconto più ricco di senso, e misterioso.
Si tratta di poche righe del libro VII delle Storie di Tito Livio. Nel
364 avanti Cristo, una pestilenza molto aggressiva aveva messo Roma in
ginocchio. Non si sapeva più quale dio implorare. Ai due consoli in
carica viene una di quelle idee che solo la disperazione sa suggerire.
Su invito delle autorità romane, arrivò in città dall’Etruria una
compagnia di attori. I Romani, ci ricorda Livio, in quei tempi di
sobrietà repubblicana erano guerrieri che al massimo si concedevano i
rozzi piaceri del circo. L’impressione prodotta da quegli uomini e
quelle donne che si aggiravano nelle strade silenziose della città
infestata dovette essere di stupore e meraviglia. Non facevano nulla di
speciale, osserva Livio, limitandosi a suonare il flauto e a mimare
qualche azione stereotipata. Probabilmente non si trattava di una
rappresentazione molto castigata. Ma la cosa più importante è che i
giovani romani iniziarono a imitarli. Si scambiavano versi rozzi,
destinati a suscitare il riso, e provavano a muoversi in modo adeguato
alle cose che dicevano. Quei misteriosi stranieri avevano portato nelle
mura di Roma il bacillo del teatro.
C’è molto da meditare su
questa strana notizia che già ai tempi di Livio proveniva da un passato
ormai remoto. Quello che ci racconta il grande storico è il sorgere di
una forza contraria là dove tutto cospirava alla fine: un contagio nel
contagio. Non è stata ancora trovata una strategia più efficace di
questa.
Corriere La Lettura 14.2.16
All’origine dell’ira
Che
cosa sono gli scoppi di collera? Si tratta di qualcosa anticamente
finalizzato alla nostra sicurezza che oggi può addirittura metterla a
repentaglio. Perché? Perché il cervello si è formato per dare
risposte rapide a situazioni pericolose, non per essere logico. Perciò
non sempre distinguiamo bene e male
di Leonardo Boncinelli
Quando
ero piccolo mio padre inveiva spesso contro i mercanti di armi — «di
cannoni», diceva lui — che riteneva essere all’origine di tutte le
guerre. A quell’epoca io non avevo la più pallida idea di che cosa fosse
la biologia — l’ho scoperta solo a 25 anni! — e ancora meno la biologia
del comportamento, ma la faccenda non mi quadrava affatto. Mi pareva
semplicistica, antistorica e poco aderente all’osservazione della
ordinaria microconflittualità quotidiana di tutti contro tutti,
suscettibile di alcuni improvvisi incredibili inasprimenti. A parte il
fatto che non esiste alcun fenomeno che abbia un’unica causa, sarebbe
stato opportuno, pensavo, chiedersi se la conflittualità tra individui
non avesse anche una qualche base biologica, oltre che storica.
A
metà gennaio la rivista «Science» ha pubblicato una recensione del libro
Why we snap , cioè «Perché scattiamo. Comprendere il circuito della
collera nel nostro cervello» di R. Douglas Fields (Dutton, 2015). In
questa lunga recensione, Pascal Wallisch, psicologo dell’Università di
New York, tocca molti dei temi connessi all’argomento, a partire dalla
nostra cosiddetta razionalità e dalla nostra scarsa linearità di
comportamento. Lo studio delle dinamiche economiche assume che queste
vedano come attore principale un essere umano dotato di specifiche
qualità, che è stato convenzionalmente definito homo oeconomicus . La
caratteristica fondamentale di costui o di costei è quella di agire
sempre razionalmente e lucidamente, in modo da massimizzare il proprio
guadagno, tenendo conto delle condizioni in cui si trova a operare. Si
tratta ovviamente di una idealizzazione — come quelle di un moto in
assenza di attrito, di gas ideale e di corpo solido — utile per
impostare un’analisi dei processi economici che si osservano nelle varie
situazioni.
Le neuroscienze ci hanno insegnato però negli ultimi
trent’anni che nessuno di noi si può comportare così in ogni situazione,
non solo in pratica, ma nemmeno in teoria. Perché? Perché ciascuno di
noi possiede una sorta di «razionalità limitata», limitata per almeno
due ragioni. Perché, anche se fosse perfetta, la nostra razionalità
dovrebbe sempre fare i conti con l’interferenza del nostro onnipresente
universo emotivo, e soprattutto perché la razionalità di ciascuno di noi
è gravemente imperfetta e mostra specifiche «falle», vere e proprie
«illusioni cognitive», che ci inducono spesso a fare scelte sbagliate,
soprattutto, va detto, se si deve decidere in fretta e in condizioni di
stress.
Tanto per giocare, sottoponetevi a questo semplice
problemino, abbastanza noto e di cui s’è già scritto su «la Lettura». Un
tifoso compra insieme una felpa e un distintivo della propria squadra
preferita. Per comprare le due cose, spende 110 euro. Se la felpa è
costata 100 euro più del distintivo, quanto è costato il distintivo?
Provate a rispondere e vedrete che molti di voi daranno una risposta
sbagliata, non perché siate stupidi, ma perché il nostro cervello
funziona bene soltanto fino a un certo punto, a meno che non lo si metta
alla frusta. Cosa che spesso non si fa e che è, per esempio,
all’origine del fatto che le cose costino 4,99 euro invece che 5. E
questi non sono che alcuni esempi elementari.
Colui che ha il
merito principale di avere scoperto queste sorprendenti proprietà del
nostro cervello, Daniel Kahneman, ha ottenuto un premio Nobel per la sua
scoperta. L’andamento dell’economia mondiale degli ultimi anni, d’altra
parte, ha messo drammaticamente a nudo quanto difettosi, oltre che
improvvidamente emotivi, siano i ragionamenti di cui sono capaci anche i
migliori operatori di mercato. Considerazioni del genere sono ormai
all’ordine del giorno e ne è anche nata una nuova scienza, la
neuroeconomia.
Ma qual è il motivo per cui il ragionamento degli
individui ha tutte queste defaillance ? La risposta è semplice. Quando
il nostro cervello si è formato e perfezionato non esistevano partite di
scacchi, indovinelli logici o agenti delle assicurazioni, mentre
esisteva un enorme numero di situazioni pericolose dove era richiesta
una pronta valutazione delle condizioni ambientali e una decisione molto
spedita. La nostra mente doveva essere veloce a valutare, e capace di
decisioni tempestive, piuttosto che logicamente ineccepibili. Noi
abbiamo ereditato un cervello di questo tipo e quello usiamo anche oggi
che le condizioni esterne sono tanto diverse. Ci vorranno millenni, se
ci saranno, perché quello cambi e ci dobbiamo arrangiare con ciò che
abbiamo, ovvero un buon compromesso fra prontezza e rigore. Il fatto poi
che possediamo una matematica e perfino una logica, una disciplina nata
anzi praticamente adulta già venticinque secoli fa, deriva dal fatto
che non esiste al mondo un unico individuo, ma una moltitudine di
persone che, agendo collettivamente, riescono a sopperire ai difetti
logici di ciascuno di noi.
Se si vogliono veramente comprendere
molte delle nostre caratteristiche occorre spesso mettere la questione
in prospettiva e considerarla da un punto di vista evoluzionistico,
anche se con le dovute cautele.
Lo stesso vale per i nostri
inopinati scatti di collera, per le nostre ostilità, sorde o conclamate,
e la nostra perdurante e logorante conflittualità sociale. Negarlo
serve solamente a impedirci di comprendere e magari porre rimedio,
perché comprendere è sempre necessario anche per poter cambiare le cose e
renderle più in linea con i nostri desideri. Non basta desiderarlo,
sperarlo o prometterlo, come fanno molto spesso i promettitori di
professione, iperbolici reclamizzatori del nulla.
Anche per quanto
riguarda gli scoppi d’ira, rari fortunatamente, ma talvolta disastrosi e
spesso memorabili anche per chi vi è stato coinvolto, è possibile
individuare un’origine evolutiva, che può anche rivelare il suo volto
paradossale: qualcosa originariamente finalizzato a proteggere la nostra
sicurezza, la può mettere gravemente a rischio nel mondo di oggi, e
comunque spingerci a comportamenti inappropriati alla situazione. Nove
sembrano essere le situazioni più indicate per scatenare la nostra
collera: una minaccia per la nostra vita oppure per parti del nostro
corpo; una minaccia per il partner o altri membri della famiglia oppure
anche per il gruppo di appartenenza; insulti a noi oppure
all’ordinamento sociale; un tentativo di invadere il nostro territorio
oppure di appropriarsi di roba nostra; e infine una qualche forma di
costrizione che ci impedisca libertà d’azione. Sopravvivenza, quindi, e
integrità per noi e le persone a noi più vicine, territorialità in senso
proprio o esteso, e libertà di manovra materiale e virtuale, sono, non
sorprendentemente, le questioni sul tavolo, alle quali teniamo sopra a
tutto il resto. A queste aggiungerei almeno l’intransigenza per una
mancanza di rispetto e di considerazione, istanza molto sentita oggi in
un mondo dominato dalla conoscenza e dalla comunicazione.
Che cosa
mette in moto tutto questo? Mette in moto una serie di aree cerebrali
connesse con l’emotività, dopo una valutazione prettamente emotiva
mediata dall’amigdala e una più meditata operata dell’ippocampo. A
seguito di tutto ciò si passa o non si passa all’azione, in dipendenza
della gravità degli stimoli, della situazione complessiva e dell’indole
del soggetto implicato, il cui comportamento può anche variare da
momento a momento.
Questo è quello che accade dentro di noi. Su
questo va poi esercitata un’eventuale azione inibitoria da parte della
corteccia cerebrale e della nostra cosiddetta razionalità, sulla base
della nostra indole e dell’educazione che abbiamo ricevuto. La cosa può
magari essere egregiamente arginata centinaia di volte e manifestarsi
più o meno clamorosamente soltanto una o due volte. Spesso senza una
concreta possibilità di prevedere. Oppure restare a «bollire in pentola»
per anni senza manifestazione alcuna e magari «esplodere»
all’improvviso, con atti concreti di ostilità o con decisioni
altrettanto inconfondibili verso questo o quello oppure questi o quelli,
anche mai incontrati di persona.
Il quadro è essenzialmente
questo, e non c’è dubbio che contrasti un po’ con la concezione tipica
della nostra cultura, figlia della filosofia occidentale e riflessa
nelle norme del diritto, che considerano l’uomo come capace di
distinguere chiaramente il bene dal male e quindi pienamente
responsabile delle proprie azioni e dei propri errori.
L’autore fa
notare però che molte di queste idee sono state elaborate per via
speculativa secoli e secoli prima dello sviluppo delle moderne
neuroscienze. Viene quasi da pensare che per molta filosofia valga
quanto abbiamo detto di certe istanze biologiche: erano fondamentali e
di grande utilità una volta; possono essere di dubbia utilità o anche
d’intralcio oggi. Un po’ di quello che ci hanno insegnato le
neuroscienze potrebbe essere perciò proficuamente incorporato nelle
nostre concezioni correnti.
Corriere La Lettura 14.2.16
L’ambiente «innesca» i geni. Così possono esplodere comportamenti antisociali
Le violenze sui bambini e le violenze da grandi
di Giuseppe Remuzzi
Geni
o ambiente? Il solito problema mai risolto che questa volta si applica a
chi ha subito violenza da piccolo. Questi bambini, dall’adolescenza in
poi possono avere comportamenti antisociali e qualcuno diventa persino
aggressivo o commette dei crimini. Non tutti però, molti di loro avranno
una vita normale, socievoli o meno si capisce, ma come tutti gli altri.
Perché
qualcuno di loro sì e qualcuno no? Non lo sa nessuno. Potrebbe
dipendere dai geni di cui si sa qualcosa ma non tutto, oppure
dall’ambiente, dai genitori per esempio o dalle persone che frequentano o
dalla scuola e dalle possibilità economiche. Come orientarsi?
Provate
a chiedere a un genetista, vi dirà quasi sicuramente che tutto dipende
dal Dna; poi fate la stessa domanda a uno psicologo, vi risponderà che è
tutta questione di ambiente, quello in cui questi ragazzi sono
cresciuti. Insomma siete al punto di prima, chi ha ragione? Tutti e due
almeno un po’. Il fatto è che per rispondere a domande così bisognerebbe
aver studiato il problema in modo molto più approfondito di come è
stato fatto finora. Ci vorrebbero dati su varie popolazioni di ragazzi e
si dovrebbero poter confrontare quelli che hanno avuto un’infanzia
felice con chi invece ha subito violenza e il comportamento di questi
ragazzi poi andrebbe seguito nel tempo e lo si dovrebbe poter fare per
un periodo abbastanza lungo. Difficile, ma non impossibile, tanto che
ricercatori del Canada — il lavoro è pubblicato su «The British Journal
of Psychiatry» di questi giorni — ci sono riusciti. Hanno preso in esame
più di tremila ragazzi, la maggior parte di loro con una vita del tutto
normale fin da piccoli, ma c’era anche chi aveva avuto un’infanzia
difficile. L’obiettivo di tutto questo poi era di studiare l’influenza
dei geni sul comportamento che i ragazzi avrebbero avuto negli anni
successivi. I ricercatori non potevano certo studiare l’intero genoma —
almeno 30 mila geni con interazioni estremamente articolate tra loro e
sistemi di regolazione che rendono tutto ancora più complicato — perché
mettere in rapporto una o più alterazioni genetiche con diversi
comportamenti è più difficile che cercare l’ago nel pagliaio. Così hanno
fatto riferimento a un lavoro precedente pubblicato su «Science» da un
gruppo di psichiatri inglesi, americani e neozelandesi che aveva già
dimostrato come i comportamenti antisociali di chi aveva subito violenza
da piccolo dipendevano soprattutto da un gene che presiede alla sintesi
di una proteina: monoaminossidasi A (MAOA) — si tratta di un enzima che
degrada noradrenalina, serotonina e dopamina, ormoni che funzionano
come «neurotrasmettitori», aiutano cioè i neuroni a dialogare fra loro e
in questo modo governano emozioni, tono dell’umore ma anche
depressione, rabbia e tanto d’altro.
Una volta deciso di
concentrarsi su quel gene, il resto diventava più facile. Si trattava di
mettere in rapporto certe variazioni (i medici dicono polimorfismi) del
gene MAOA con il comportamento dei ragazzi nel tempo confrontando chi
aveva subito violenza da piccolo con gli altri.
La prima
informazione che viene fuori da questo studio — e non è di poco conto — è
che essere esposti a violenza da piccoli aumenta davvero la probabilità
di sviluppare con il tempo una personalità antisociale fino ad
arrivare, per qualcuno di questi, a comportamenti aggressivi, in
famiglia per esempio o con il partner. Fin qui non c’è niente di nuovo e
ci si poteva arrivare con il buon senso, ma il rigore con cui è stato
condotto questo studio e il tempo di osservazione così prolungato ci
consentono oggi di avere qualche certezza in più.
Un’altra
informazione importante che emerge dallo studio canadese è che la
variazione del gene MAOA, proprio quello identificato più di dieci anni
fa su «Science», influenza in modo importante l’eventuale comportamento
antisociale di chi ha subito violenza da piccolo. Questo polimorfismo ce
l’ha il 30 per cento della popolazione e sono proprio i portatori di
questa variazione ad avere alla lunga le maggiori difficoltà di rapporto
con gli altri.
Ma l’informazione forse più importante che emerge
da questo studio è che la variazione genetica da sola non basta a
scatenare comportamenti antisociali. L’effetto negativo dell’alterazione
genetica sul comportamento si esprime solo in contesti molto
particolari che configurano di fatto circostanze ambientali sfavorevoli.
Così la domanda che c’eravamo posti all’inizio (vale per questo ma per
tantissime altre condizioni in cui ci si interroga sull’influenza dei
geni rispetto all’ambiente) andrebbe posta in un altro modo: «Com’è che
l’ambiente può modificare l’espressione o la funzione di certi geni?».
Più si studia e più ci si rende conto che non ci sono comportamenti che
dipendono dai geni e comportamenti che dipendono dall’ambiente. Ci sono
piuttosto predisposizioni genetiche che consentono in circostanze
ambientali particolari di sviluppare certi comportamenti piuttosto che
altri. Ed è vero anche il contrario. Capita che l’ambiente possa
influenzare attraverso modifiche che i medici chiamano epigenetiche,
l’espressione di certi geni e questo si traduce in comportamenti diversi
a seconda delle circostanze.
Insomma, nel caso dei bambini che
hanno subito violenza da piccoli non bastano i geni per sviluppare
comportamenti antisociali e altre forme di labilità psichica: ci
vogliono circostanze ambientali sfavorevoli. Il termine «ambiente» però è
un po’ vago. Il passo successivo rispetto allo studio del «British
Journal of Psychiatry» sarà quello di capire quali sono queste
circostanze ambientali sfavorevoli e come si possono prevenire i
comportamenti antisociali ed eventualmente aggressivi. E non è solo una
curiosità; il giorno che riusciremo a capirlo la vita di questi ragazzi
potrebbe cambiare.
Corriere La Lettura 14.2.16
Due ipotesi. Predatori o impulsivi
di Giancarlo Dimaggio
Lo
farà ancora? Di fronte alla violenza è l’unica domanda che mi
interessa. Chi ha picchiato, rubato, stuprato, ucciso recidiverà? La
sfida è a tre livelli: prevedere, prevenire e curare. È di quelle
responsabilità che fanno tremare le vene dei polsi. Distinguerò tra un
ragazzo geloso e un vero stalker? Terrò in carcere un soggetto che
invece, se aiutato, sarebbe libero dall’impero della rabbia? Consiglierò
la libertà di un uomo che con quasi certezza tornerà alla violenza? I
miei strumenti saranno capaci di cambiare quelli la cui aggressività può
essere controllata? Lontani dal seminare certezze, abbiamo conoscenze
da offrire. La prima: si può, grosso modo, classificare il comportamento
aggressivo in premeditato e impulsivo. L’aggressione premeditata è
deliberata, eseguita anche a freddo. È predatoria: l’obiettivo è
garantirsi risorse. Denaro, status, partner sessuali. Si attiva perché
c’è una preda in vista, tipo una ragazza desiderabile. Oppure perché un
pericolo minaccia i propri possedimenti. Mi hai sfidato? Vuoi sottrarmi
la donna, controllare il territorio in cui spaccio? Peggio per te, devo
sottometterti. Con ogni mezzo. Come diceva Pablo Escobar, il boss del
cartello di Medellín ritratto nel telefilm Narcos : «Plata o plomo».
Soldi o piombo. L’aggressore premeditato corrisponde quasi del tutto al
profilo dello psicopatico, personalità a sangue freddo, incapace di
rimorso, disinteressato al dolore degli altri. Siamo chiari: per questo
tipo di personalità, gli strumenti di cura sono spuntati, inutile
provarci. In sua presenza, l’obiettivo è proteggere la comunità. Allo
stato attuale delle conoscenze l’idea che si debba tentare di
riabilitarla è moralismo d’accatto, il prezzo lo pagano le vittime
future. Altra storia è l’aggressione impulsiva, lì il terapeuta può
agire. Con Patrizia Velotti, curatrice del libro Comprendere il Male (il
Mulino), ho svolto una ricerca pubblicata su «Comprehensive
Psychiatry». Emergevano due profili di comportamento antisociale. Il
primo: gli aggressivi di natura. La loro violenza è indipendente dalla
capacità di osservare il proprio animo. Predatori, potenziali
psicopatici. Il secondo: persone con minor tasso di aggressività, che
tendevano al comportamento antisociale soprattutto in presenza di scarse
capacità di osservarsi: tecnicamente le chiamiamo bassa
mentalizzazione, metacognizione o mindfulness . Come funziona? Semplice:
subiscono un torto. Gli va il sangue al cervello e aggrediscono, senza
pensare. È il profilo dell’aggressore impulsivo. Ma, tra minaccia
percepita e attacco, la mente ha un tempo di latenza, in cui si può
inserire lo psicoterapeuta. Li si porti allora a soffermarsi sul dolore
provato prima di aggredire l’altro e, quando lo intravedono, li si aiuti
a cercare altre strade per placarlo. Possono capire che il torto non
era grave, che la mancanza di attenzione della compagna non era
un’offesa irreparabile e, invece di reagire con violenza, è possibile
dialogare. Scoprono che quella ferita si può lenire, l’aggressione
diventa superflua.
Corriere La Lettura 14.2.16
C’è del rischio in Danimarca
Grøndahl: il modello scandinavo si regge su equilibri sottili E i migranti li devono accettare, il multiculturalismo è finito
La
legge sulla confisca di beni ai profughi, la tenuta del welfare, la
costruzione di nuove frontiere: conversazione con lo scrittore che è
appena stato a Lampedusa per capire cosa sta succedendo all’Europa
colloquio con Donatella De Cesare
La
Danimarca è per noi il paesaggio fiabesco di Andersen, dei personaggi
che hanno animato la nostra infanzia, così reali da resistere anche
nell’epoca del virtuale. Ma è anche il modello della socialdemocrazia,
dello Stato sociale che pensa ai cittadini, e dei cittadini che
contraccambiano con fiducia. Come dimenticare, poi, il Paese europeo che
ha salvato i suoi ebrei? Tuttavia, l’immagine della Danimarca, già
scalfita dall’emergere di forze xenofobe, appare oggi, agli occhi di
molti italiani, sotto una luce inquietante. Ha destato scalpore e sdegno
l’introduzione della legge, varata il 26 gennaio dal Parlamento danese,
che prevede la confisca dei beni ai profughi. Jens Christian Grøndahl,
lei è tra le voci più autorevoli e apprezzate della letteratura danese
contemporanea. Che cosa ne pensa di questa legge? Non trova che sia la
negazione stessa di ogni etica?
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL — Come
altri Paesi, la Danimarca deve far fronte a un numero enorme di
richiedenti asilo, dei quali più della metà emigranti in cerca di una
vita migliore. Quel che infastidisce, nella nuova legge, è l’obiettivo:
fare in modo che i rifugiati non vengano da noi. Certo, è disumano
costringere chi ha ottenuto asilo ad aspettare non più un anno, ma tre,
prima di chiamare a sé la propria famiglia. Ed è anche molto goffo,
quasi surreale, pretendere che i poliziotti confischino i beni. Bisogna
dire, però, che la legge è stata modificata e che ora non è previsto il
sequestro di fedi nuziali e oggetti di valore affettivo. Leggi simili
sono già applicate in Norvegia, Olanda, Austria e in alcuni Länder
tedeschi. Ma questo, purtroppo, è il punto a cui siamo. Come il resto
d’Europa, anche la Danimarca paga il prezzo per non essere stata in
grado di cooperare, per aver permesso che il trattato di Dublino andasse
a rotoli.
DONATELLA DI CESARE — A me sembra che il trattato di
Dublino, purtroppo ancora vigente, secondo il quale l’identificazione
avviene solo nel Paese d’ingresso, oltre a danneggiare i profughi, sia
andato a scapito dell’Italia e della Grecia. E poi, una cosa è
pretendere le tasse dai cittadini, altra è confiscare denaro e preziosi a
chi cerca rifugio.
Per tornare, però, allo Stato sociale: ritiene che si debba parlare di una crisi del modello scandinavo?
JENS
CHRISTIAN GRØNDAHL — Lo Stato sociale è estremamente costoso. Sebbene
le tasse raggiungano ormai più della metà delle nostre entrate, la
domanda crescente di servizi non può più trovare risposta. Il welfare
poggia su un contratto sociale molto sottile, su una fiducia elevata fra
cittadini e istituzioni, su un equilibrio delicato tra diritti e
doveri. Dal punto di vista degli italiani capisco che il welfare danese
possa apparire estremamente generoso. E in effetti lo è. Ma si basa
anche sull’obbligo dei singoli cittadini.
DONATELLA DI CESARE — Di
recente il filosofo tedesco Peter Sloterdijk ha criticato la politica
di Angela Merkel, sostenendo che «abbiamo bisogno di frontiere» e che i
limiti sono fatti per essere rispettati. Difende, insomma, lo
Stato-nazione. Non posso in nessun modo concordare con lui su questo.
Credo, al contrario, che tutti noi europei non avremmo mai dovuto
permettere i muri e il filo spinato, in Ungheria e altrove. Lei pensa
che abbiamo bisogno di frontiere?
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL — Le
tragedie del Mediterraneo non sarebbero accadute, se solo l’Europa
avesse agito all’unisono, stabilendo il modo per condividere il peso e
la responsabilità di accogliere i profughi, integrando quelli che hanno
diritto ad avere protezione e mandando indietro quelli che non lo hanno.
Il problema è che i rifugiati preferiscono chiedere asilo in Svezia o
in Germania piuttosto che in altri Paesi.
Abbiamo bisogno di
frontiere? Solo in una prospettiva logistica ed economica. E queste sono
preoccupazioni reali. Pur nel nostro ruolo di intellettuali, non
dobbiamo dimenticare i problemi pratici che i nostri politici devono
affrontare. Tuttavia, finiremmo per squalificarci, sotto un profilo
morale e culturale, se ci facessimo assalire dalla paura solo perché ci
sono persone per le quali l’Europa è sinonimo di speranza. Credo che
dovremmo restare aperti verso tutti coloro che desiderano dare il loro
contributo alla vita sociale, ma dovremmo anche far sì che condividano i
valori universali della democrazia e si lascino alle spalle quei
costumi che non sono compatibili con le norme di una moderna società
secolarizzata.
DONATELLA DI CESARE — Ho molte perplessità quando
si parla di «valori universali». Se c’è un progetto che ha fallito, è
l’universalismo. La ragione universale è sempre la propria — mai quella
altrui. Sono stata di recente in Danimarca e ho avuto l’impressione che
il razzismo sia in agguato e l’antisemitismo sia un fenomeno esplosivo.
Basti ricordare l’attacco terroristico contro la sinagoga di Copenaghen
il 15 febbraio di un anno fa.
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL — Non credo
che il razzismo sia un problema importante in Danimarca. Ci si può
imbattere in una certa xenofobia, dovuta al fatto che la Danimarca è
rimasta etnicamente omogenea e geograficamente isolata. È vero, però,
che l’antisemitismo ha trovato nuove espressioni. Una di queste è
l’antisionismo della sinistra: la critica alla occupazione dei territori
porta a modalità nuove, talvolta quasi impercettibili, con cui si mette
in questione il diritto di Israele a esistere. Inoltre c’è un
antisemitismo latente fra i musulmani, che rappresenta il pericolo più
grave. In alcuni quartieri di Copenaghen gli ebrei non possono camminare
senza il timore di essere insultati. Lo stesso avviene, d’altronde, per
i gay. Gli omosessuali hanno uguali diritti in Danimarca — e di ciò
siamo orgogliosi.
Ecco le questioni rilevanti. Perciò, a mio avviso, il multiculturalismo può dirsi finito.
DONATELLA
DI CESARE — Nei suoi racconti le donne sono spesso protagoniste. Sono
donne fragili, ma anche capaci di giocare ruoli diversi, sul lavoro e
nella vita privata. Come se potessero per questo attingere a una fonte
antica, quasi preclusa agli uomini. Penso alla figura di Ingrid Dreyer
nel suo romanzo Quattro giorni di marzo .
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL —
Appartengo a una generazione di uomini che sono già figli
dell’emancipazione. Quattro giorni di marzo si basa sulla storia di mia
madre, che ha divorziato da mio padre e ha lasciato la famiglia per
seguire la carriera di fotografa e diventare se stessa in modo più
compiuto. È stato doloroso, ma la simpatia per le sue scelte di vita fa
parte della mia formazione. Questo spiega forse perché i miei romanzi
abbiano spesso come protagonista una donna forte, emancipata, ma che
avverte anche la solitudine, l’angoscia, i dubbi che formano il lato
oscuro della libertà. Nel libro descrivo tre generazioni di donne che si
dibattono nel conflitto tra la realizzazione personale e la
responsabilità. Di qui ho tratto ispirazione per la mia scrittura. E ho
deciso che il mio ruolo sarebbe stato giocato da un personaggio
femminile. Immagino spesso di scrivere dal punto di vista di una donna.
Certo, in quanto uomini e donne siamo differenti. Ma non dobbiamo
ridurci ai nostri generi. La letteratura dischiude la nostra
immaginazione, come scrittori e come lettori; ci permette di
immedesimarci e soprattutto ci ricorda che dell’altro conosciamo molto
più di quel che siamo disposti ad ammettere.
DONATELLA DI CESARE — L’emancipazione delle donne è per lei un punto di non ritorno...
JENS
CHRISTIAN GRØNDAHL — Esatto. Gli assalti sessuali a Colonia sono un
campanello d’allarme. L’uguaglianza è il cuore stesso della società
danese, dove uomini e donne preferiscono il presente, con i suoi
conflitti e dilemmi, rispetto al passato patriarcale. Ogni rifugiato
dovrà separasi da questa parte della sua cultura che gli impedisce il
rispetto per le donne. Lo dobbiamo a noi stessi e lo dobbiamo alle donne
che vengono da culture basate sulla repressione e la violenza.
DONATELLA DI CESARE — Eppure, come forse saprà, la violenza sulle donne si consuma quasi quotidianamente anche in Italia.
JENS
CHRISTIAN GRØNDAHL — Sono costernato. Penso che tutti gli uomini
dovrebbero sentirsi responsabili. È sbagliato accettare che una certa
dose di aggressività latente faccia parte del make up psicologico
maschile. Non c’è quasi uomo che non si senta intimidito dalle donne
autonome. Può scegliere allora di reagire con la violenza — o con le
armi più sottili del disprezzo e dell’arroganza. È la conferma che aveva
tutti i motivi per sentirsi inferiore. Oppure può liberarsi dall’idea
di dover essere superiore e dominante. Ma non si deve sottovalutare il
timore profondo che gli uomini nutrono per la sessualità femminile.
Cultura non è forse altro che il controllo esercitato dagli uomini sulla
forza bruta di fronte al desiderio femminile.
DONATELLA DI CESARE
— Lei viene spesso in Italia. Anche per scrivere. In cerca, dunque, di
ispirazione. Certo, non di tranquillità...
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL
— Vengo in Italia da quando avevo 14 anni. Ricordo ancora quando a
Firenze ho ammirato la prima volta dalle colline la cupola di
Brunelleschi. Un’epifania. Ho sempre la sensazione strana di tornare a
casa. È una questione, per dirla con Goethe, di «affinità elettive». Di
solito vengo sempre a Roma — per scrivere, camminare, pensare. Ho un
grande rispetto per il vostro stile di vita, la cura dei dettagli.
Solleva l’anima.
DONATELLA DI CESARE — Eppure i problemi non
mancano. Se penso agli studenti universitari che hanno dovuto andare
via! Qui mancano i fondi per la ricerca. Alcuni sono anche nelle vostre
università.
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL — Mi rattrista moltissimo che
così tanti giovani abbiano difficoltà a trovare un lavoro, a costruirsi
una famiglia. Le generazioni più vecchie non vogliono mettersi da parte?
DONATELLA DI CESARE — Nei giorni scorsi lei è stato a Lampedusa...
JENS
CHRISTIAN GRØNDAHL — Due anni fa, nel mio ultimo soggiorno a Roma, ho
scritto un lungo saggio sull’identità europea. Questa volta cerco di
proseguire quelle riflessioni provando a comprendere meglio le sfide che
ci aspettano. In che modo la crisi dei rifugiati ha cambiato la
percezione che abbiamo di noi stessi, come italiani, come danesi, e come
europei? A Lampedusa ho incontrato autorità municipali e cittadini.
Voglio capire cosa è avvenuto in una comunità così minuscola, lontana
dalla terraferma; voglio stare letteralmente nel mezzo della tragedia.
Per una volta, dunque, lo scrittore resta in silenzio e si mette in
ascolto.
Corriere La Lettura 14.2.16
Tutto accade, persino Dio
Nel
confronto tra gli studiosi di varie scuole si attenua la distinzione
tra evento e oggetto, già messa in dubbio da Tommaso d’Aquino: anche
l’eternità del Creatore viene vista in maniera dinamica
di Giovanni Ventimiglia
Quando
nell’ormai lontano 1983 giunsi a Milano dalla Sicilia per studiare
all’università, feci ben presto due scoperte interessanti: la prima era
che a Milano, a differenza che al Sud, non si faceva distinzione fra il
«lavoro» e la «festa», dal momento che le feste erano addirittura
organizzate da chi, per lavoro, organizzava feste; la seconda era che le
feste non si chiamavano «feste» ma «eventi» (e l’«organizzatore di
eventi» sembrava a tanti il top della scala sociale). Molti anni sono
passati da allora, ma la parola «evento» è ancora lì. Anzi, l’«evento»
sembra diventato il simbolo stesso della cultura contemporanea, la cifra
dell’effimero, che oggi c’è, e fa notizia, e domani non c’è più. Da
Expo alla notte delle lanterne l’«evento» impazza. Persino molti profili
di Facebook (letteralmente «libro delle facce», cioè di persone) sono
nient’altro che «eventi».
Che cosa pensano del concetto di
«evento» i filosofi? Se consultiamo due testi autorevoli in proposito,
ossia l’ Enciclopedia filosofica Bompiani e la nota Stanford
Encyclopedia of Philosophy online non possiamo che rimanere confusi e
delusi. La stessa voce, infatti, sembra parlare, nei due testi, di cose
completamente diverse, riferendosi in ogni caso ad autori diversi: il
lemma «evento» dell’ Enciclopedia filosofica tratta brevemente di
Aristotele e degli Stoici, per poi saltare ai contemporanei Henri
Bergson, Alfred North Whitehead, Martin Heidegger (su cui si sofferma
giustamente a lungo), Emmanuel Lévinas, Maurice Merleau-Ponty,
Hans-Georg Gadamer, Paul Ricoeur, Henri Maldiney; la voce «events»,
invece, della Stanford Encyclopedia , riferisce solo il pensiero di
filosofi anglosassoni analitici contemporanei, come per esempio Roderick
Chisholm, Willard Van Orman Quine, Nelson Goodman, David Lewis,
Theodore Sider, spingendosi all’indietro nella storia della filosofia
fino — addirittura! — a un testo di Bertrand Russell del 1914.
D’altra
parte, entrambe le voci tengono a chiarire che l’«evento» è una
categoria tipica della filosofia contemporanea. Sarà, ma la domanda
sorge spontanea: quale «filosofia contemporanea»? Perché di certo quelle
voci sembrano appartenere a due «filosofie contemporanee» del tutto
differenti.
È un ennesimo esempio della distanza che ancora oggi
separa il pianeta della filosofia «continentale» da quello della
filosofia «analitica» anglosassone. Sembrano due linee parallele che,
per definizione, non s’incontrano mai.
Ma è veramente così? Se si
ha la pazienza di andare al di là del gergo tipico di ognuna delle due
«filosofie», si fanno scoperte interessanti. In entrambi i casi, per
esempio, l’«evento» è descritto come ciò che «accade» ( happens ,
geschieht , sich ereignet ), a differenza dell’«oggetto», che «esiste» e
basta (non si dice, infatti, di un albero, che «accade»). L’«evento»,
inoltre, è interpretato come la sostantivizzazione di un verbo, il
quale, com’è noto, si coniuga (per esempio la «festa» è la
sostantivizzazione di «festeggiare», che si coniuga anche al passato
«festeggiammo» o al futuro «festeggeremo»); l’«oggetto» invece è
espresso da sostantivi, che non si coniugano («Ambrogio» non deriva da
«ambrogiare» o «fico» da «ficheggiare»).
Di conseguenza l’«evento»
ha, in entrambe le tradizioni di pensiero, un rapporto essenziale con
il tempo, cioè è intrinsecamente temporale; l’«oggetto», al contrario,
esiste nel tempo, allo stesso modo con cui esso esiste nello spazio (in
altre parole il tempo è estrinseco all’oggetto come il luogo in cui si
trova accidentalmente a essere). Ora, quasi tutti i filosofi
«esistenzialisti» contemporanei e buona parte dei filosofi «analitici»
(soprattutto i cosiddetti «quadridimensionalisti» come Quine) concordano
nel dare il primato agli eventi rispetto agli oggetti e, di più,
nell’interpretare gli oggetti come (nient’altro che) «eventi» — solo più
monotoni! Insomma, ogni essere è un evento o, se si vuole, l’essere è
tempo — spesso addirittura anche al di fuori del continente europeo.
Inoltre,
quasi tutti i filosofi, di entrambe le tradizioni, hanno come obiettivo
polemico la metafisica classica aristotelico-tomistica («ontoteologica»
per i «continentali» e «tridimensionalista» per gli analitici),
accusata di interpretare ciò che è come qualcosa che non accade
temporalmente, e quindi come qualcosa in sé di statico, indiveniente,
timeless , inerte.
Stando così le cose, il senso di confusione e
di spaesamento di fronte ai due lemmi nelle due diverse enciclopedie
potrebbe diminuire, per far posto alla gioia di una nuova inedita intesa
fra filosofi apparentemente lontanissimi. Ora però, siccome il fine
della filosofia non è lo stesso della diplomazia internazionale, ossia
non consiste nel costruire «ponti», firmare protocolli d’intesa e
adoperarsi per la pace nel mondo, dovremmo chiederci a questo punto se
la ritrovata unica «filosofia contemporanea» abbia ragione o no a
proposito dell’evento.
Anzitutto, a livello della storia della
filosofia, segnalo che Tommaso d’Aquino, il padre di quella scolastica
ontoteologica vilipesa da più parti, ha scritto testualmente intorno
alla metà del XIII secolo: « È , detto semplicemente, significa essere
in atto; e perciò significa (qualcosa) nella modalità del verbo». E ha
poi aggiunto che l’essere attuale, espresso dal verbo è , si coniuga
come tutti i verbi: altro che essere come oggetto statico e timeless !
Dunque, bisognerebbe indagare più attentamente, mi pare, all’interno
della metafisica classica, se per caso non vi siano perle di questo tipo
— personalmente ne ho trovate diverse — prima di etichettarla come
estranea all’idea dell’essenziale temporalità dell’essere.
Infine,
e soprattutto, ci si dovrebbe interrogare su una questione di fondo,
che nella sua forma sintetica suona così: se l’essere è essenzialmente
evento temporale, che ne è della nozione di Dio come Essere sussistente?
Delle due l’una: o l’idea di un Essere eterno è contraddittoria, oppure
si deve rimettere in questione l’idea dell’eternità dell’essere di Dio.
Il
filosofo Anthony Kenny (vedi «la Lettura» del 10 maggio 2015, #180)
segue la prima ipotesi, considera la nozione di un Essere eterno
contraddittoria e conclude che Dio non esiste. Molti filosofi di area
continentale, invece, e poi soprattutto alcuni teologi contemporanei,
come ad esempio Pavel Florenskij, Hans Urs von Balthasar, Klaus
Hemmerle, Piero Coda, Gisbert Greshake, Eberhard Jüngel, ritengono di
dover ripensare l’idea dell’eternità di Dio e parlano di Dio, specie a
partire dal suo essere compagnia di tre persone, come Ereignis («Evento»
o, meglio, «Avvenimento») dinamico, seppure sottratto alla contingenza e
alla fugacità.
Per quanto mi riguarda mi sembra che dal
superamento di una teoria statica dell’Essere non si possa tornare
indietro (persino in Tommaso d’Aquino vi sono, di nuovo, indicazioni
chiare in questa direzione, specialmente nei dimenticati trattati sulla
Trinità, ricchissimi di riflessioni filosofiche). Certo, se non si può
tornare indietro, non significa che si sia già arrivati, perché
svincolare l’«evento» temporale dalla fugacità dell’«effimero» non è
cosa filosoficamente semplice.
In ogni caso mi rallegro già al
pensiero del punto di arrivo di questo nuovo cammino filosofico e
teologico, ossia all’idea di un Dio dinamico, non inerte, non monotono,
vivo insomma, un Dio, come scriveva Heidegger «di fronte a cui si può
suonare musica e ballare». Chiederei solo per favore di non chiamarlo
«evento» ma, piuttosto, se proprio si vuole, semplicemente «festa».
Corriere La Lettura 14.2.16
Il terzo Reich non ha vinto
di Antonio Carioti
In
fatto di punizione dei crimini nazisti il bicchiere si può considerare
mezzo pieno o mezzo vuoto. Rispetto ad altri massacri rimasti quasi o
del tutto impuniti (stragi coloniali anche italiane, genocidio armeno,
delitti staliniani e maoisti, atrocità compiute dai khmer rossi), in
questo caso particolarmente grave è stata fatta giustizia in modo
piuttosto ampio, con processi e condanne (alcune alla pena capitale) che
proseguono ancora oggi. Ma è vero d’altronde che molti colpevoli
l’hanno fatta franca, approfittando della guerra fredda e di altre
circostanze favorevoli. Ci fu anche chi venne reclutato dai servizi
occidentali, come il «boia di Lione» Klaus Barbie, processato solo nel
1987. Sono le vicende che Guido Caldiron ricostruisce con estrema cura
nel libro I segreti del Quarto Reich (Newton Compton, pp. 476, e 12,90),
denunciando le connivenze diffuse che agevolarono a molti livelli gli
ex nazisti. Le accuse dell’autore al Vaticano, alla Cia, al presidente
argentino Juan Domingo Perón e a diversi regimi arabi hanno un solido
fondamento. Ne ha meno, da parte di Caldiron, agitare il fantasma di
un’«Internazionale nera» e di un «Quarto Reich» o addirittura parlare di
nazisti solo in apparenza sconfitti e in realtà usciti «vincitori»
dalla guerra. La giustizia sarà stata in parte carente, ma il verdetto
della storia non è stato alterato.
Corriere La Lettura 14.2.16
Irlanda 1916, la rivolta in versi
Un secolo fa l’insurrezione nazionalista di Pasqua infiammata dalle suggestioni letterarie celtiche
Il poeta Yeats prima condannò i ribelli, poi li esaltò
di John McCourt
Le celebrazioni
Mostre,
cerimonie, convegni, spettacoli teatrali: è molto ricco il programma
degli eventi organizzati nella Repubblica d’Irlanda per celebrare la
rivolta del 1916, che pose le basi per la conquista dell’indipendenza. È
interessante notare che le iniziative principali non si terranno il 24
aprile, data dell’insurrezione, ma alla fine di marzo, nel periodo
pasquale, poiché i ribelli scelsero apposta Pasqua per entrare in
azione, volendo collegare la risurrezione dell’Irlanda a quella di Gesù
Bibliografia
È
uscito di recente in italia il libro di James Stephens L’insurrezione
di Dublino, a cura di Riccardo Michelucci (traduzione di Enrico
Terrinoni, Menthalia, pp. 150, e 12). La vicenda è inserita nel suo
contesto dal saggio di Eugenio F. Biagini Storia dell’Irlanda dal 1845
ad oggi (Il Mulino)
Nel 1916 l’Irlanda si trovava in
uno stallo politico pressoché totale. Il tanto desiderato Home Rule ,
che avrebbe garantito autonomia di governo al Paese, fu sì approvato dal
Parlamento britannico, ma solo per venire immediatamente congelato dal
governo Asquith che, impegnato nel primo conflitto mondiale in Europa,
seguiva con scarsissima attenzione la situazione di crescente
malcontento in Irlanda. A onor del vero due anni prima, allo scoppio
della Grande guerra, il leader dell’Irish Parliamentary Party, John
Redmond, aveva incoraggiato i giovani irlandesi ad arruolarsi
nell’esercito britannico, e più di 200 mila avevano risposto
all’appello: chi per motivi economici, chi per difendere il piccolo e
cattolico Regno del Belgio invaso dai tedeschi e chi nella patriottica
speranza che la partecipazione dell’Irlanda alla Grande guerra a fianco
dell’impero avrebbe giovato alla causa dell’ Home Rule . Tanti morirono,
molti tornarono mutilati, ma l’ Home Rule Bill rimase bloccato negli
uffici di Westminster.
Al Nord, intanto, gli unionisti protestanti
dell’Ulster, decisi a non farsi governare dalla maggioranza cattolica,
si resero di fatto indipendenti, rafforzando le proprie posizioni e
acquisendo ingenti quantità di armi. Al Sud, con il passare del tempo, e
visto il quasi totale disinteresse inglese per la questione irlandese,
vari gruppi di indipendentisti rivoluzionari (i Volunteers ) iniziarono a
concepire l’idea di un’insurrezione armata. A capeggiare i ribelli
furono soprattutto scrittori, poeti e intellettuali: personaggi come
Patrick Pearse, poeta e insegnante sperimentale di lingua gaelica,
Joseph Plunkett, letterato e curatore dell’«Irish Review», e Thomas
MacDonagh, poeta e professore di letteratura inglese all’University
College Dublin.
La rivolta, pianificata in gran segreto, ebbe
inizio lunedì 24 aprile 1916 (era stata progettata per la domenica di
Pasqua ma, in seguito a un diverbio fra gli organizzatori, venne
posticipata al giorno dopo). La giornata fu scelta per la sua forte
valenza simbolica: il popolo irlandese si sarebbe liberato dal giogo
inglese come Cristo era risorto dalla morte.
Le azioni centrali
della rivolta furono la conquista di una serie di luoghi simbolici a
Dublino e la lettura pubblica della Proclamazione della Repubblica
d’Irlanda davanti al General Post Office (Gpo, ufficio postale centrale)
da parte di Pearse. Il poeta Stephen McKenna, che fu uno dei testimoni,
descrisse il piccolo drappello di dublinesi che passava davanti al Gpo:
«C’era chi ascoltava, chi scrollava le spalle, chi ridacchiava». La
popolazione non colse subito l’enorme portata della rivolta e della
Proclamazione, con la quale i sette firmatari — che affermavano di
parlare a, e in nome di, tutte le donne e tutti gli uomini d’Irlanda —
dichiararono la sovranità del popolo irlandese e l’istituzione di una
repubblica che avrebbe garantito libertà religiosa e civile, nonché pari
diritti e pari opportunità a tutti i cittadini (un impegno al suffragio
universale davvero progressista per l’epoca). Era una ribellione mossa
non solo dal desiderio di prendere il potere, ma anche e soprattutto
dalla volontà di cambiare le cose dal basso e di reagire a secoli di
mala amministrazione che avevano ridotto il Paese in una condizione di
estrema povertà e disuguaglianza (di classe e di religione).
I
ribelli riuscirono a resistere per alcuni giorni al contrattacco inglese
e, come notò lo scrittore James Stephens in L’insurrezione di Dublino ,
«vi è un senso di gratitudine nei confronti dei Volunteers per il fatto
che sono riusciti a resistere un po’ più a lungo, perché, se li
avessero sconfitti il primo o il secondo giorno, la città sarebbe stata
umiliata nel profondo». Nel giro di pochi giorni la ribellione fu
brutalmente repressa: 20 mila i soldati impiegati dagli inglesi, con
l’ausilio di navi da guerra, contro meno di duemila irlandesi, con poche
armi e anche quelle obsolete. Le bombe dell’esercito inglese rasero al
suolo il centro di Dublino e ben presto le speranze degli irlandesi
furono un volta di più azzerate.
Questi eventi bellici furono
accolti con indifferenza dalla stragrande maggioranza della popolazione
locale (per lo più contraria a un’insurrezione armata), ma ebbero grande
risonanza internazionale e vennero ad esempio visti favorevolmente da
chi lottava per la causa indiana o da chi si adoperava per il
rovesciamento dello zar.
A differenza, però, di tante altre
ribellioni del passato, la rivolta di Pasqua del 1916 si trasformò ben
presto in un’inaspettata e gigantesca vittoria morale e politica da quel
confusionario e caotico spargimento di sangue che era inizialmente
stata. Com’è stato possibile che un’ insurrezione nata quasi senza
speranze sia diventata nel giro di poco tempo un grande successo
politico? In gran parte ciò è dovuto al maldestro e assurdo intervento
dell’esercito britannico: la scelta di giustiziare uno a uno i giovani
leader della rivolta per dare un segno di forza e far sfoggio di muscoli
imperiali provocò un fortissimo risentimento nella popolazione e si
rivelò ben presto un boomerang micidiale. L’ultimo dei firmatari della
Proclamazione ad essere giustiziato fu James Connolly, il quale,
gravemente ferito e impossibilitato a camminare, fu portato davanti al
plotone d’esecuzione in barella per poi essere legato a una sedia e
fucilato: un caso che divenne emblematico e che provocò la reazione
indignata anche dei più moderati e degli abitanti inizialmente ostili
alla rivolta.
Connolly era nato e cresciuto in Scozia da genitori
irlandesi, a 14 anni si era arruolato nell’esercito e aveva prestato
servizio per sette anni in Irlanda; congedatosi, era poi diventato un
importante sindacalista. Davanti alla corte marziale dichiarò: «Siamo
riusciti a dimostrare che gli irlandesi sono pronti a morire per
conquistare gli stessi diritti nazionali per i quali il governo
britannico ci ha chiesto di morire in Belgio. Fintanto che le cose
rimarranno così, la causa della libertà irlandese è al sicuro». Prima
della sua esecuzione, MacDonagh scrisse: «Sento una felicità che non ho
mai conosciuto prima. Morirò affinché la nazione irlandese possa
vivere».
Oggi contempliamo gli eventi del 1916 anche con gli occhi
del grande poeta e drammaturgo William Butler Yeats, premio Nobel per
la letteratura nonché fondatore e figura centrale dell’Irish Literary
Revival, un movimento culturale nato alla fine dell’Ottocento che tentò
di riformulare in vari modi la complessa realtà dell’identità irlandese.
Centrali a questo scopo furono la rinascita della lingua e della
letteratura gaelica e il recupero delle tradizioni celtiche, andate
perdute e spesso accessibili solo attraverso la lingua del colonizzatore
(l’inglese).
Anni dopo, nella sua poesia L’uomo e l’eco , Yeats,
riferendosi al suo dramma del 1902, Cathleen Ní Houlihan («Cathleen,
figlia di Houlihan» ), si chiese: «Quel dramma che scrissi votò forse
alla morte gli uomini che gli inglesi fucilarono?». Il poeta inglese W.
H. Auden rispose affermando: «Poetry makes nothing happen» (la poesia
non fa accadere nulla). Tuttavia, con buona pace di Auden, non c’è
dubbio che, in un contesto di vuoto politico come era quello irlandese,
letteratura e cultura svolsero un ruolo centrale, posero le basi e
crearono le condizioni per la rivolta. Intorno al famoso Abbey Theatre,
legato alla rinascita celtica, si formarono piccole compagnie teatrali,
spesso ancora più politicizzate dell’Abbey stesso, che ebbero un peso
enorme nel risvegliare le coscienze degli irlandesi.
A ispirare
tante opere del periodo fu la figura di Robert Emmet, patriota irlandese
che organizzò un’insurrezione armata nel 1803 e che fu arrestato,
processato e impiccato. Pearse fu uno dei tanti che lodarono l’esempio
di Emmet, e d’altra parte l’idea del sacrificio di sangue come atto
necessario per rivoluzioni e rinascite era tipico della cultura del
tempo, in Europa quanto in Irlanda. In The Singer («Il cantante», 1915)
Pearse rappresentò il potere messianico della violenza sacrificale nelle
esaltate parole del protagonista, che annuncia la propria volontà di
sacrificarsi per un popolo troppo timoroso per morire per la libertà:
«Un uomo solo può liberare un popolo, come un sol uomo ha salvato il
mondo».
Sono parole, queste, che riecheggiano anche nella
Proclamazione e furono da molti rifiutate con sdegno. Primo fra tutti
Yeats, che si trovava in Inghilterra allo scoppio della rivolta e fu
costretto a guardarla da spettatore; proprio allora, proprio nel momento
in cui il «suo» teatro rivoluzionario si era trasformato di colpo, e
forse inaspettatamente, in una rivoluzione teatrale. All’inizio il poeta
ne rimase inorridito, ma pian piano cominciò a scorgere l’elemento
eroico, tanto da arrivare a comporre, qualche anno dopo, la celeberrima
Easter 1916 («Pasqua 1916»), sublime elegia per gli uomini e le donne
che lui stesso aveva un tempo duramente criticato.
C’è
un’ambivalenza di fondo in questo famoso componimento che commemora la
terrible beauty della strana ribellione da cui nacque lo Stato moderno
irlandese. Oggi, a cent’anni di distanza, si tenta di ricordare,
celebrare e interpretare un evento chiave della storia europea,
contradditorio eppure indispensabile per la nascita dello Stato libero
irlandese, nella consapevolezza che un approfondito studio del
complicato e tragico contesto storico di quegli anni è un atto quanto
mai dovuto e necessario. La rivolta di Pasqua del 1916 rappresenta un
momento centrale del mutamento dei sistemi di potere in Europa e nel
vasto, potente ma già declinante, impero britannico.
Corriere La Lettura 14.2.16
Patrioti e proletari L’utopia armata di James Connolly
di Giulio Giorello
«Era
la domenica di Pasqua, e nelle chiese si alzava il grido gioioso Dio è
risorto. L’indomani per le strade si diceva L’Irlanda è insorta». 1916:
così James Stephens, giornalista e scrittore, testimoniava della
Insurrezione di Dublino nel libro ora edito in italiano da Menthalia.
L’inglese to rise indica sia Cristo che esce dal sepolcro, sia il
sollevarsi di un popolo. Più laicamente, un protagonista della rivolta,
James Connolly, aveva definito «libertari» tutti coloro che valutano «la
libertà più che la vita». Nato in Scozia da genitori irlandesi nel
1868, aveva creato nel 1896 l’Irish Socialist Republican Party; poi
aveva organizzato nel vecchio come nel nuovo mondo un sindacalismo
deciso e combattivo. Ritornato dagli Stati Uniti, aveva formato a
Dublino l’Irish Citizen Army (Ica), movimento di autodifesa dei
lavoratori. Ma rischiava di trovarsi emarginato dai «compagni di lotta»
per il proletariato; mentre i nazionalisti puri non gradivano il taglio
«classista» delle sue scelte. Per Stephens il cuore di Connolly «batteva
per la questione nazionale come per quella economica», ed era «un
grande cuore!». Era anche una grande intelligenza che mirava alla
libertà piena contro ogni discriminazione politica, linguistica,
economica, religiosa o di genere. Non aveva dimenticato neppure la
guerriglia del Tirolo del 1809, che aveva sconfitto bavaresi e francesi:
ben diverse erano le vallate alpine dalle vie cittadine! Ma quel che
contava era la capacità di tramutare la propria gente in «popolo
armato».
Nel 1916 era stato scelto come centro della sollevazione
l’ufficio centrale delle poste, l’imponente General Post Office (Gpo)
dove avevano fatto irruzione i Volunteers di Patrick Pearse e i
lavoratori dell’Ica, nella indifferenza dei passanti che avevano pensato
a una delle solite manifestazioni pacifiche. Era l’inizio della
battaglia dell’Irlanda per riavere «il suo posto tra le nazioni»: per
Connolly non c’era più alcuna divisione tra i Volunteers nazionalisti e i
proletari dell’Ica; era nata l’Armata repubblicana irlandese (Ira),
quel che contava era soprattutto «fidarsi dei propri fucili».
Pochi
giorni dopo, la Dublino ribelle aveva dovuto arrendersi, benché
Connolly, nominato comandante, ancora proclamasse: «Coraggio ragazzi,
stiamo vincendo». Ma era solo la vittoria sulla sudditanza psicologica
degli irlandesi ai loro «padroni» britannici. A ribellione domata,
veniva fucilato il 12 maggio nel carcere di Kilmainham: legato a una
sedia, perché ferito a una gamba. Il suo maggior «peccato» era di essere
stato uno dei sette firmatari della Proclamazione della Repubblica.
Molti intellettuali britannici lo hanno trattato come un illuso;
qualcuno lo ha liquidato come «un desperado piccolo, taciturno e privo
di rimorsi». Ma la sua ribellione aveva segnato la nascita di quella che
sarebbe stata la Repubblica irlandese; e aveva rappresentato il colpo
di grazia per l’Impero britannico, fornendo un modello per le lotte di
liberazione del nostro tempo: dall’India di Gandhi al Sudafrica di
Mandela.
Ancora oggi le sei contee della cosiddetta Irlanda del
Nord sono vincolate al Regno Unito. Ma un giorno, diceva Stephens, «la
forza di gravità che fa girare il pianeta porterà l’Irlanda alla
libertà» di tutte le sue 32 contee. La parola più adatta per definire
l’insurrezione di Dublino, diceva, era «resistenza». Sì, certo: a
Dublino il 24 aprile 1916 come nell’Italia del 25 aprile 1945.
Repubblica Cult 14.2.16
Romano Luperini
«Improvvisamente si scoprirono quasi tutti heideggeriani. Compiaciuti nella propria debolezza»
Il rapporto ambivalente con la famiglia, la delusione politica e intellettuale, gli anni di analisi, la malattia
I ricordi del grande letterato
“Ho vissuto per fare la pace con mia madre e mio padre”
colloquio con Antonio Gnoli
Non
pensavo che Romano Luperini, critico letterario di grande meticolosità e
intuito, legato a lungo a una tradizione marxista, fosse stato un uomo
diviso. Spaccato e come irriconciliato alla vita. Mi ci fa riflettere il
suo romanzo La rancura, intriso di motivi biografici e attraversato da
una profonda sofferenza. Scopro che la “rancura”, in un verso di
Montale, segnala l’aspra relazione tra un padre e un figlio. Ed è quanto
di più avvolgente e drammatico troviamo nella storia di Luperini.
Mentre lo incontro mi soffermo a guardare il volto. La prima spaccatura è
lì, su quella superfice bella e leggermente irregolare. Tagliata
all’altezza della bocca da una innaturale e lieve smorfia: «È il
risultato di un’operazione alla carotide, qualcosa che fu presa in tempo
e ha lasciato questa traccia. Mi dissero: avrà problemi nel parlare, ma
reimparerà a deglutire. È accaduto il contrario: ingerisco con
difficoltà il cibo, ma parlo abbastanza bene».
Come ha reagito?
«Impari.
L’ostinazione negli esercizi. Il sacrificio. Parli con il tuo corpo in
maniera diversa. Sei più circospetto. Disincantato. Prendi i giorni per
quello che sono: segmenti di 24 ore».
Quando è iniziato lo strazio?
«Circa tre anni fa. Oggi, mi pare una strana avventura. Alla base tra l’altro del romanzo che ho scritto».
Ero sorpreso, infatti, che lei saggista e studioso di letteratura si fosse cimentato con il romanzo.
«Ne
avevo già scritto uno. Ma questo va a toccare aspetti della mia vita
molto profondi. La rancura è nato grazie anche al rapporto con una
psicologa. Mi sembrava che tutto il mondo si stesse sgretolando e io
chiuso nel mio fortino di morte guardavo impotente ciò che mi accadeva.
Poi arriva questa carta di riserva. Impensata. E ho scritto, convinto
che dovessi farlo. Per me, la mia storia, la vita che mi restava».
In questa sua storia è fondamentale la presenza di suo padre.
«Sì, lo è».
Dolorosa e difficile.
«Diciamo soprattutto ambivalente».
Nel senso?
«Di
una grande ammirazione verso quest’uomo e al tempo stesso un disprezzo o
meglio un patimento che da bambino mi afferrava alla gola».
Cosa pativa esattamente?
«Sospettai, ingiustamente, che avesse delle mire nei riguardi della mia sorellastra».
Pensò che la molestasse?
«Pensai
questo, sbagliando. Lo dissi alla mamma e alla fine si chiarì che
l’atteggiamento di mio padre era solo quello di una persona che voleva
avere un controllo totale sui figli e sulla moglie. Mi sono trascinato a
lungo un senso di colpa, per quello che dissi».
Chi era suo padre?
«Era
stato un grande comandante partigiano. Aveva combattuto nelle zone di
confine tra l’Italia e la Jugoslavia. Divenne una sorta di figura
leggendaria. Amata e temuta. E quando la guerra finì tornò al suo lavoro
di maestro elementare. La vita civile non lo aiutò».
Perché?
«Troppo
distante dal mondo che aveva vissuto, dagli ideali immaginati, dal
pericolo corso. Eravamo nella Lucca democristiana degli anni ‘50. Mio
padre si sentiva come un animale in gabbia. Viveva le giornate con il
solo ossessivo ricordo di ciò che era stato».
I vostri rapporti com’erano?
«Facevo
le elementari nella stessa scuola dove insegnava. La mattina uscivamo
assieme. Mi teneva per mano. Io facevo resistenza. Non andavo volentieri
a scuola. Mi sentivo rapito da mia madre. A volte vomitavo. E lui
strattonava. “Non voglio fare tardi, per colpa tua”, diceva. Un giorno
mi fece vedere una pistola Mauser. L’aveva tolta a un tedesco e
conservata, con le pallottole. La smontò e rimontò davanti ai miei
occhi. Poi mormorò: perché non mi sparo?».
Nel romanzo muore suicida.
«Nella
vita morì di infarto. Per il suo funerale arrivarono due camion pieni
di vecchi partigiani istriani e sloveni. Viaggiarono tutta la notte per
dargli l’estremo saluto. C’era anche Mario Abram, il commissario
politico della brigata, di cui mio padre era stato comandante militare.
Tenne la commemorazione. Alcuni piansero e compresi la grandezza di
quell’uomo che non si era rassegnato al nuovo corso».
Lei cosa faceva?
«Insegnavo all’università e uscivo da una grossa delusione politica. Ero smarrito. Decisi di entrare in analisi».
Con chi?
«Con
Giovanni Jervis. Mio padre morì durante una di queste sedute. E la sua
scomparsa si trasformò nell’elaborazione di un lutto. Ricordo il mio
primo incontro con Jervis. Gli dissi: sono qui da lei perché ho un
problema grande quanto una casa. Quale? Mi chiese. Mio padre, risposi. E
in seguito scoprii che il problema vero era mia madre».
Lo scoprì esattamente in che senso?
«Nel
senso che mi accorsi di aver vissuto sempre mio padre attraverso mia
madre e i suoi problemi. Era una donna straordinaria, capace di
colpevolizzarmi e di trasformare la sua debolezza in forza. Riuscì a
condizionarmi».
Ne parla senza amarezza.
«Siamo tutti più o
meno vittime dei nostri ruoli. Forse scelsi di fare politica anche per
reagire a questa condizione familiare: Divenni comunista. Mio padre si
incazzò. Mi disse tu non sai quanto male hanno fatto i comunisti»
Mi scusi ma non era un partigiano legato alle brigate di Tito?
«Quella
fu la lotta che si trovò a combattere. E restò sempre fedele a quegli
uomini con cui aveva rischiato la vita. Ma aveva ideali politici
socialisti. Ed è la ragione per cui non condivise le mie scelte».
Le sue scelte da dove nascevano?
«C’era stato il Sessantotto, sembrò un modo per inventarsi una nuova vita».
E invece?
«Tra la politica e il gioco finì col prevalere un modo antiquato di intendere i rapporti di forza».
Nel romanzo c’è anche la figura di Vittorio Foa.
«Siamo stati amici e abbiamo creduto nelle stesse cose, nello stesso bisogno di libertà e giustizia».
Cosa non ha funzionato? A un certo punto Foa dice: abbiamo sbagliato tutto.
«Avevamo sopravvalutato il momento della soggettività politica, senza comprendere che la politica si faceva altrove».
Cosa vuol dire essere sconfitti?
«Fu
lo smarrimento. Improvvisamente mi sentii così agli inizi degli anni
Ottanta: sembravo l’ultimo giapponese che non aveva capito che la guerra
era finita. E la cosa era tanto più comica quanto più in giro era
chiaro il riposizionamento».
Ossia?
«I nostri intellettuali
improvvisamente si scoprirono quasi tutti nicciani, heideggeriani,
lacaniani. Danzanti. Era un gran parlare del pensiero debole.
Compiaciuti nella propria debolezza».
Allude a Gianni Vattimo?
«Lui
fu l’abile cantore del nuovo corso. Nel 1984, durante un convegno a
Palermo, alcuni di noi si trovarono schiacciati dall’imperante
misticismo».
Alcuni chi?
«Con me c’erano Edoardo Sanguineti,
Francesco Leonetti e, mi pare, Giancarlo Ferretti. Venimmo isolati in
mezzo a 400 persone che ci impedirono di parlare. Capisce? Ai loro occhi
eravamo vecchi e superati. Uno di questi, uno dei poeti “innamorati”,
mi pare fosse Milo De Angelis, minacciò di picchiarmi. Il giorno dopo si
scusò. Ma questo era il clima».
Perché ha scelto di occuparsi di letteratura italiana?
«Potrei
risponderle perché mi piaceva. In realtà anche qui c’entra mio padre.
Era stato amico di Romano Bilenchi e credo che queste frequentazioni
fiorentine abbiano influito sulle mie scelte. Mi sono anche occupato di
letteratura europea e non ho disdegnato di insegnare in America».
Tuttavia, il suo insegnamento si è svolto per larga parte all’Università di Siena.
«Sì vi arrivai nel 1972. Lo stesso anno, o giù di lì, in cui giunse Franco Fortini».
Che ricordo ha di lui?
«Contraddittorio.
Per un verso, era un personaggio affascinante. In grado di dire cose
intelligenti e puntuali; dall’altro, sembrava posseduto da un’ingenuità
narcisistica. O si era con lui o contro di lui. La sua irascibilità
poteva sfiorare la violenza fisica. Soffriva di un certo complesso di
persecuzione. Ma restò un intellettuale di prim’ordine. Come dire:
un’intelligenza pura negata da scatti di collera. Era per carattere agli
antipodi del mio amico Paolo Volponi».
Era l’opposto in che senso?
«Aveva
passioni positive e un amore sconfinato per la natura. Un giorno venne a
trovarmi a casa e vedendo un’enorme pianta di rosmarino, l’abbracciò.
Era anche esperto di storia dell’arte. Lo portai una volta a Volterra
per vedere La deposizione di Rosso Fiorentino. Cominciò a parlare del
dipinto e si formò attorno a lui una piccola folla, rapita dalle sue
considerazioni. Concluse dicendo che il manierismo aveva anticipato il
Novecento».
Come scrittore che giudizio ne dà?
«Ha sbagliato qualche libro, me ne ha fatti di bellissimi. Le mosche del capitale è un romanzo che rimane ».
Con chi altri si vedeva allora?
«Una
frequenza importante fu con Ferruccio Masini, grande germanista. Un
uomo affabile e critico notevole di Nietzsche. Era un sostenitore
dell’omeopatia. Quando si ammalò di cancro provò a curarsi con i sistemi
naturali. Purtroppo non funzionarono».
C’era anche Mario Tronti che insegnava a Siena.
«È
vero, uomo intelligente. Di tutto il gruppo operaista il più sagace e
serio. Se penso a Toni Negri e al suo dannunzianesimo politico, Tronti
mi appare come una stella di prima grandezza. Ma anche lui mi sembra sia
finito a studiare i profeti. Della vecchia guardia materialistica
vedevo volentieri Sebastiano Timpanaro. Non poteva insegnare perché non
era in grado di parlare davanti a più di due persone. E per questo, uno
dei più grandi filologi del ‘900, si mise a fare il correttore di
bozze».
George Steiner, affascinato dalla sua storia, gli dedicò un romanzo.
«Cosa
che Timpanaro non gradì. Gli parve una caricatura. Gli suggerii di
tentare con l’analisi. Ma era troppo vecchio, si limitò a scrivere un
saggio sul lapsus freudiano».
Quando iniziò a fare analisi?
«Nel 1978, nel pieno degli anni di piombo. E l’ho portata avanti per cinque anni».
Che cos’è la guarigione?
«Non
esiste. Freud parlò di destino. Beninteso non quello dei greci, ma il
saper riconoscere la spinta della propria vita. La corrente che ti
attraversa. La guarigione è questo riconoscimento».
Lei l’ha trovata questa corrente?
«Penso
di sì. Quando morì Jervis il mondo mi parve nuovamente crollarmi
addosso. Ma Johnny, così gli amici lo chiamavano, aveva saputo creare
basi solide per la mia psiche».
L’impressione che si ricava è che lei sia un uomo che ha attraversato la durezza dell’ideologia e la fragilità della vita.
«Mi riconosco e non rifiuto la fragilità».
Cosa significa accettarla?
«Sapere
che il tuo destino è questo e la fragilità vi partecipa. Bisogna
imparare a regredire. La persona matura non ha paura di mostrarsi
fragile. È una lezione che mi ha trasmesso Jervis. Rischiai di
vanificarla dopo la malattia. Ero sull’orlo della morte. Lasciai
l’università. Una parte di me non esisteva più. Poi, ancora una volta,
ne sono uscito. Riemerso».
Grazie al romanzo?
«Anche, ma non solo. Giunto in tarda età mi sento un autore avventizio».
In fondo tutta la sua vita è un tentativo di ricomporre l’immagine di una famiglia che lei ha vissuto in modo frantumato.
«È
probabile che volessi ricomporre quelle fratture. Un giorno frugando
tra le carte di mio padre vidi sulla mensola una foto che non avevo mai
notato. Dietro c’era la data: dicembre 1943. Nella foto la mamma è
seduta in mezzo a un campo, mentre io bambino le bacio la guancia. Era
una foto che lei gli aveva inviato, durante la guerra. In seguito mio
padre la incorniciò e la tenne come un reperto prezioso. Ecco, penso che
lì, nascosto nel bianco e nero, ci fosse il desiderio di una
ricomposizione familiare».