domenica 14 febbraio 2016

La Stampa 14.2.16
La difesa della famiglia tradizionale tiene insieme Bagnasco e Kirill
Le parole di Bergoglio aprono la strada a un’inedita “alleanza”
di Cesare Martinetti


Per meglio capire la fuga in avanti del cardinal Bagnasco quando ha chiesto che il parlamento italiano si esprimesse con voto segreto sulle unioni civili, bisognava aspettare qualche ora e leggere per intero la dichiarazione congiunta firmata a L’Avana da Papa Francesco con il Patriarca di Mosca Kirill. Al primo punto dell’agenda c’è la difesa dei cristiani perseguitati in Oriente (e non solo) e subito dopo in grande evidenza la difesa della famiglia, nelle sue forme tradizionali: matrimonio uomo-donna, procreazione naturale e non assistita, no alle unioni civili. Tutto logico, certo, la differenza è che mentre Papa Francesco si trova a predicare questi valori nell’Europa dei matrimoni gay, Kirill guida la sua chiesa in un Paese dove la politica – almeno a parole – li condivide talmente tanto da consentire un clima di aperta intolleranza verso molti soggetti tra cui i gay. E questo senza che il patriarca abbia mai avuto niente da ridire.
L’invasione di campo di Bagnasco (così inaspettata nella Chiesa di Francesco da risvegliare ricordi della Cei di Ruini, se non ben più antichi) non era certo una gaffe, ma il modo in cui una parte del mondo cattolico guarda alle ricadute di clima del dopo l’Avana. Finalmente una santa alleanza su matrimoni e valori non negoziabili. Insomma se Stalin si chiedeva quante divisioni ha il Papa, non è da escludere che in Vaticano qualcuno abbia fatto i conti di quante divisioni ha Putin. Sono parecchie e si muovono – in Siria per esempio - con l’incondizionata benedizione di Kirill, che non ha fatto una piega per gli intensi e indiscriminati bombardamenti russi nei giorni scorsi ad Aleppo e dintorni che hanno scosso Angela Merkel.
Ma le vere divisioni di Putin a cui guarda una parte ormai significativa del mondo cattolico tradizionalista, in Francia e in Italia, non sono quelle militari, bensì a quelle politico-culturali, alla diffusione di un soft-power i cui capisaldi sono: no alla globalizzazione, no alla democrazia libertaria occidentale, no all’invasione islamica, no all’alta finanza apolide e mondialista, no al modello consumistico americano.
Questo mondo si esprime in Italia soprattutto nel web attraverso siti e blog dai titoli combattivi. Su «Riscossa Cristiana» si legge di un’Europa «in marcia verso il totalitarismo». La «Nuova Bussola» apre l’edizione ora online con un attacco a Renzi per la risposta a Bagnasco («Imbavaglia i vescovi») e affida a Massimo Introvigne il commento all’incontro di L’Avana dove si mette al primo punto di importanza «la famiglia» e non la persecuzione dei cristiani. Il settimanale «Tempi» già nel 2013 aveva messo in copertina un Putin con il titolo «L’indispensabile».
Ma se il Cremlino finora ha espresso solo frasi di circostanza sull’incontro di L’Avana, la sua propaganda in Occidente che si chiama Sputnik.news (e che ha preso il posto della storica Radio Mosca) non ha usato giri di parole per appropriarsi dell’evento. Papa Francesco è certamente «un visionario che crede nelle dinamiche della Storia e nella bontà dell’uomo», come ha scritto ieri Enzo Bianchi, ma dalle parti di Mosca pensano che avesse bisogno di trovare un luogo più confortevole dell’Europa scristianizzata e sottomessa all’aggressione islamica dove qualcuno a cominciare dal capo dello Stato pensa che il matrimonio – per dirne una - sia un affare tra un uomo e una donna. Che poi Putin ci creda o no è un’altra questione. Le sue esibizioni in cattedrale certificano l’avvenuta transizione dalla religione «oppio dei popoli» alla religione «instrumentum regni». Kirill non l’ha mai deluso. Lo farà Francesco?

Corriere 14.2.16
La religiosità «deviata» della Santa Muerte protettrice dei criminali
di Rocco Cotroneo


La Niña Blanca, La Señora, La Hermosa. Più spesso soltanto la Santa Muerte. Così viene chiamata in Messico una delle forme più curiose e affascinanti di religiosità popolare, il culto della morte, avversata dal Vaticano e strettamente legata al mondo sul quale si abbattono ora gli strali di Francesco, quello del narcotraffico. Il Papa latinoamericano, da buon conoscitore del sincretismo che pervade il suo Continente, non ne ha fatto accenno, anche perché l’equazione tra chi professa questi culti e la delinquenza è tutt’altro che scontata. Non sarebbe corretto farlo. Milioni di fedeli, 1.500 altarini dedicati alla morte solo a Città del Messico, non possono essere liquidati come complici del crimine. La Santa Muerte è nei rosari recitati in catarsi collettive, dove si prega insieme a Dio, Gesù Cristo e San Giuda Taddeo. Il simbolo più comune è lo scheletro vestito da un saio francescano, con la tradizionale falce tra le mani. Affonda le radici nella storia, quando il Messico era un Paese assai più pacifico di adesso e non si trafficava droga verso gli Stati Uniti.
Ma i tatuaggi, i riti nelle carceri, gli altarini trovati nelle case dei latitanti oggi lasciano pochi dubbi. Così come alcuni episodi di cronaca nera degli ultimi anni. Al pari dei rituali antichi delle nostre mafie, il legame tra religiosità «deviata» e affiliazione a gruppi criminali è un fatto. Assume aspetti che giustificano agli occhi dei membri delle gang la barbarie di alcuni comportamenti, offrendo una sponda mistica al crimine. Doppio pericolo, dunque, agli occhi della Chiesa: allontana dalla dottrina e giustifica i peccati. Non è paragonabile ad altre forme sincretiche diffuse nel Continente, come la Santeria cubana o il Candomblé brasiliano, che di richiamo al crimine non hanno proprio nulla. E non pare sia servita a molto l’iniziativa dell’arcivescovo di Città del Messico, Norberto Rivera, il quale anni fa annunciò l’arrivo di esorcisti per lottare contro l’idolatria pagana e rimettere ordine tra i cristiani.
Sempre negli anni scorsi, nell’oceano delle migliaia di morti violente in Messico, ne sono state identificate alcune come possibili «offerte» alla Signora della morte. Forse narcos che cercavano la sua protezione nella vita pericolosa che si sono scelti. David Romo, un ex ufficiale autoproclamatosi vescovo della setta, è stato arrestato nel 2012 e condannato a ben 66 anni di carcere per furti, sequestri, estorsione. I suoi uomini taglieggiavano spacciandosi per membri dei Los Zetas, uno dei grandi cartelli. Lo stesso anno, due bambini e una donna furono uccisi nello Stato di Sonora, senza altro motivo se non versare il loro sangue su un altare della Santa Muerte, al fine di chiedere protezione per un boss locale.

Repubblica 14.2.16
Crudeltà e riti pagani la mistica dei boss per dare forza alle gang
I cartelli della droga si rifanno a divinità che “proteggono”. Ma sono migliaia i morti nella guerra tra bande
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON NEL nome della madre, della morte e della coca, la chiesa della narcoreligione si espande fra il Messico, il Caribe e gli Stati della “Frontera” del Sud America ogni giorno più forte, più sanguinaria e più seguita. Mentre Papa Francesco chiede di combattere «contro la metastasi del narcotraffico che divora il Paese» e s’inginocchia davanti alla mite Vergine di Guadalupe e prega per quella che è, o sembra essere, la forza ancora immensa della Chiesa di Roma in Messico, il culto delle divinità dell’ombra che i vescovi cattolici non esitano a definire “sataniche” conquistano gli spiriti disperati e le braccia violente del narcotraffico. E diventano “Narcoculto”, una nuova mistica della morte che sposa la criminalità spietata dei “boss” della coca alla notte profonda e antica e appassionata della “Santeria” e del “Voodoo”.
Nelle celle delle prigioni messicane, dove sono rinchiusi, almeno fino a quando evadono, i soldati e i generali dell’esercito della droga che ha già fatto almeno 40 mila morti negli ultimi cinque anni in Messico, le guardie carcerarie trovano invariabilmente il santino della massima divinità del Narcoculto, l’immaginetta della “Santa Muerte”, lo scheletro della divinità suprema che protegge e benedice, con il sorriso sdentato del teschio ingioiellato e la falce classica. Se non è lei, è un altro dei grandi santi del culto, Jesús Malverde, un messicano immaginario tratto dalla figura reale di Josè Mazo, un uomo che fra l’800 e il ‘900, rimasto orfano e diseredato, si dedicò a furti e rapine per distribuire ricchezze ai poveri.
Fu catturato e giustiziato naturalmente dopo il tradimento di un Giuda. Nelle città, processioni con la sua immagine si snodano per chiedere la protezione di questo “Angelo dei Poveri”, il Robin Hood dipinto con immancabili baffoni neri sotto occhi febbrili, il “Narcosantòn” che aveva tra i suoi massimi devoti Joaquin Guzman, “El Chapo”. A lui, a Jesús Malverde, il superboss chiedeva protezione dagli arresti, protezione che ora, dopo l’ennesima incarcerzione, sembra essere mancata.
Ma le morti, gli ammazzamenti nelle guerre di gang, le stragi di innocenti e il sangue di poliziotti e militari sparso negli Stati messicani per controllare i flussi della cocaina non dissuadono nè raffreddanno i “fedeli”, dai capi ai loro soldati. Gli agenti della DEA, l’agenzia statunitese per la guerra al traffico degli stupefacenti, raccontano le testimonianze degli arrestati e dei pentiti che ricordano la liturgia dell’affiliazione a bande nel nome dei santi e santoni spesso ripresi da quel culto de “Los Santos” che il sincretismo fra paganesimo e cristianesimo ha diffuso da New Orleans al Brasile, con l’interazione fra gli schiavi africani e le religioni indigene. E arrivano fino a New York dove i tempietti, e i negozi di articoli religiosi dedicati alla “Santa Muerte”, alla regina del Narcoculto, non mancano.
Come tutte le religioni, anche il “Narcoculto” conosce scismi e dissensi al proprio interno. I cartelli del Golfo e la violentissima Gang Zeta venerano la Vergine dello Scheletro, la “Santa Muerte”, mentre i cartelli di Sinaloa e di Sonora preferiscono Jesús Malverde, considerato più abile nel prevenire arresti, vista la sua storia di Robin Hood messicano sfuggito per 40 anni alla caccia dei “Federales”. Membri di culti rivali attaccano e devastano simboli religiosi altrui, come a Houston, dove una grande statua della “Santa Muerte” in un cimitero è stata demolita in una notte.
Una profanazione che ha provocato l’immediata rappresaglia dei suoi fedeli che hanno denunciato una famiglie devota a Jesús Malverde, provocando l’irruzione della polizia. In casa, davanti all’altarino del baffuto Angelo dei Diseredati, gli agenti hanno trovato ossa umane. Il padrone di casa ha spiegato di averle comperate in Rete. Pochi dubbi invece sulla causa di morte di una donna di 60 anni e di due bambini, decapitati da Silvia Meraz Moreno, devotissima della “Santa dello Scheletro”. Un’offerta alla dea, per assicurare la protezione sulla gang della quale Silvia faceva parte.
Come nelle liturgie parareligiose delle mafie italiane ormai ben conosciute e descritte, così il misticismo dei narcotrafficanti messicani è una miscela di superstizione, di autogiustificazione, di fidelizzazione che serve non soltanto a dare identità ai fedeli, ma a rispondere al sospetto di colpa, sublimandolo nell’adorazione di divinità superiori. «Non lo faccio per me, ma per Jesús» disse una “mula”, un trasportatore di coca e di anfetamine fermato in Arizona mentre guidava un minivan ornato da statue e immagini del “Narcosantòn”, come fosse il missionario di una nuova crociata.
Neppure il confinè fra religiosità autentica e alibi mistici per killer è netto, perchè il culto della “Santa Muerte” conta milioni di rispettabilissimi fedeli senza rapporti nè legami con le organizzioni criminali, il più conosciuto dei quali è l’attore Gregory Beasly, che sostiene di avere ottenuto, dopo anni duri, un ruolo nella magnifica serie tv di “Breaking Bad” e nel film “Linewatch” dopo aver chiesto la grazia al teschio con il diadema, presentato a lui da un santone messicano.

Repubblica 14.2.16
La Lombardia nega il bonus agli adottati
di Alessandra Corica


MILANO. La Lombardia esclude le famiglie con figli adottati dal bonus bebè. L’assegno, introdotto lo scorso autunno dal governatore leghista Roberto Maroni, prevede per le famiglie lombarde con un Isee sotto i 30mila euro l’erogazione di 800 euro se hanno avuto, entro il 31 dicembre, il secondo figlio. E di mille euro per il terzo. Al Pirellone sono arrivate circa 2mila domande, di cui la metà già approvata: tra queste, però, nessuna è a favore di genitori adottivi. A denunciare il caso è uno dei partiti della stessa maggioranza di Maroni, il Nuovo centrodestra: «È un errore da correggere — dice il capogruppo lombardo di Ncd, Angelo Capelli —. Le famiglie che adottano si fanno carico di un percorso talvolta insormontabile, con costi che per i soli adempimenti in Italia si attestano, secondo una ricerca della Bocconi, in oltre 4mila euro. Per tutto l’iter, la cifra arriva a 20mila: vanno sostenute». I primi a scoprire la beffa sono stati Susanna e Maurizio Larghi, una coppia di quarantenni della provincia di Bergamo. Genitori di tre bimbi, tutti adottati: la sentenza che ha permesso alla famiglia di accogliere il loro terzo bimbo è dello scorso dicembre. Entro i termini, quindi, previsti dal bando della Regione per il bonus bebè. La coppia, però, è stata esclusa: dopo avere inviato al Pirellone una richiesta sui moduli da compilare, gli uffici regionali hanno inviato una mail alla famiglia, spiegando che «l’adozione non è prevista nei criteri della delibera». E che quindi per loro «non è possibile accedere al contributo». Una risposta che ha fatto ribellare la coppia: «Non siamo genitori di serie B, ma una famiglia come tutte le altre. Accediamo già ad altri contributi, come l’assegno di natalità dell’Inps: solo la Regione ci esclude, anche se abbiamo gli stessi doveri e diritti di qualsiasi altro genitore».

La Stampa 14.2.16
Perché Renzi è figlio dell’exploit grillino
di Giovanni Orsina


Sono passati tre anni dalle ultime elezioni politiche. A che cosa è servito il Movimento 5 stelle, in questi trentasei mesi? E a che cosa serve adesso?
Il Movimento, innanzitutto, ha incanalato e fatto sfogare dentro il perimetro della democrazia l’immensa insoddisfazione prodotta dalla crisi economica, dal collasso del sistema bipolare, e dalla sensazione diffusa che, col gabinetto Monti, Bruxelles avesse commissariato l’Italia. Questo risultato, che Grillo ha rivendicato più volte, è stato con ogni probabilità il più importante che il M5s abbia ottenuto. Agli insoddisfatti, poi, ha regalato un sogno, tanto più importante quanto più il governo tecnocratico era ritenuto «alieno»: la democrazia diretta via web.
Il Movimento, in secondo luogo, ha posto con forza il tema dei costi della politica e dell’onestà degli amministratori pubblici. Così facendo ha sortito senz’altro degli effetti positivi - anche se ne ha sortiti pure di negativi. Il confine fra moralità e legalità da un lato, moralismo e giustizialismo dall’altro è sottile. Nel nostro Paese poi, dove da sempre è sottilissimo, negli ultimi venticinque anni s’è assottigliato ancora di più. E bisognerebbe capire - ma non è facile - fino a che punto si siano davvero rafforzate legalità e onestà, grazie al M5s, e quanto invece giustizialismo e moralismo.
L’ossessione per gli scontrini e l’enfasi sull’integrità hanno fatto passare in secondo piano rispettivamente iniziativa politica e competenze. La propaganda grillina ha rafforzato inoltre l’idea che la politica non debba costare e i politici non vadano pagati. Una convinzione che si presta a sortite demagogiche fin troppo facili, ma resta profondamente sbagliata: se la politica e i politici non funzionano, la soluzione non è pagarli meno, ma selezionarli e controllarli meglio.
Dubito che nel Movimento siano contenti del terzo risultato che hanno raggiunto: Matteo Renzi. Che Renzi sia figlio dell’«ondata» grillina del 2013, sarebbe difficile negarlo. Che sia un figlio «buono» è parecchio più discutibile, naturalmente. Considero uno sviluppo positivo, a ogni modo, che la sinistra italiana sia infine stata costretta a prendere atto del suo abissale ritardo sui tempi storici, e a modernizzarsi. A debito del Movimento infine, in quarta posizione, troviamo l’aver alimentato l’indignazione aprioristica, il complottismo e la perdita del senso di realtà.
E adesso, dopo tre anni, a che cosa serve il M5s? Così com’è, non più a molto. Rischia soprattutto di far danno, anzi - in particolare, di inchiodare Renzi a Palazzo Chigi per il prossimo ventennio, dopo avercelo portato. Prendiamo tre vicende recenti che hanno riguardato il Movimento: il caso di Quarto, la marcia indietro sulle unioni civili, il decalogo (surreale) che i candidati alle elezioni comunali romane dovranno sottoscrivere, impegnandosi a dimettersi e pagare una multa salatissima se, una volta eletti, non rispetteranno le indicazioni di Grillo e Casaleggio. Che cosa segnalano, queste tre vicende? La prima, che il mito della «gente comune» in politica rende il Movimento permeabile alla malavita organizzata. E che, quando ciò accade, moralità e moralismo, il desiderio di essere puliti e la necessità di apparirlo, entrano in cortocircuito. La seconda, che il mito della democrazia diretta dev’essere frettolosamente e maldestramente abbandonato quando entra in conflitto con la politica più classica, ossia con la tattica parlamentare e il consenso elettorale. La terza, che il mito dell’«uno vale uno» genera caos, e che dal caos non nascono democrazie, dirette o delegate, ma autocrati irresponsabili.
Prese insieme - e sommate alle notevoli difficoltà che il Movimento sta incontrando là dove amministra, oltre che alle continue ondate di dimissioni, secessioni ed espulsioni - le tre vicende dimostrano che i miti della gente comune, della democrazia diretta e dell’uno vale uno altro non sono che, appunto, dei miti. Destinati se va bene a rivelarsi soltanto irrealizzabili, e quando va male a creare problemi. Spiace dirlo per chi ci ha creduto in buona fede, ma le cose non sarebbero in alcun modo potute andare diversamente. Né lo potrebbero in futuro.
Poiché però quei miti rappresentano la ragion d’essere del grillismo, nel momento in cui essi rivelano il loro carattere mitologico, del Movimento non rimane più molto. Restano parecchi voti, certo, radicati in tanta frustrazione e, forse, in un po’ di speranza. Ma con la frustrazione non si governa. E si governa poco anche con la speranza, se non la si mette al servizio di un progetto politico. In compenso, se quella frustrazione la si raccoglie tutta e la si incanala in un vicolo cieco, si fa il gioco di chi qualche risposta politica almeno prova a darla. Renzi, appunto.

La Stampa 14.2.16
La protesta dei Conservatori: “Dopo sedici anni siamo ancora in attesa di una riforma
Oggi hanno suonato per strada gli studenti di quasi tutti i 77 Conservatori d’Italia in segno di protesta. Convocato dal governo il presidente della Conferenza dei direttori: “Non sanno cosa rispondere, sono passati otto ministri e niente è cambiato”
di Antonella Mariotti

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La Stampa 14.2.16
“Cara ministra Giannini non si vanti dei miei successi”
La denuncia della studiosa emigrata in Olanda
di Valentina Arcovio


«Ho solo chiesto alla ministra di non strumentalizzare i nostri risultati. Non sono una vittoria dell’Italia, ma un’occasione mancata». È così che la 42enne Roberta D’Alessandro, una dei 31 ricercatori italiani ad aver vinto il prestigioso bando europeo «Erc Consolidator» e tra i 13 vincitori italiani che useranno la prestigiosa borsa di studio per fare ricerca all’estero, precisa lo scopo del duro post pubblicato ieri e indirizzato al ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Stefania Giannini.
Proprio il giorno prima il ministro aveva commentato entusiasta i risultati del bando che vede l’Italia terza per numero di assegnatari della borsa e prima per numero di ricercatrici vincitrici. Quello che per Giannini rappresenta «un’altra ottima notizia per la ricerca italiana», per D’Alessandro e Francesco Berto, altro vincitore italiano del grant «Eerc» che lavora all’estero, è l’ennesima beffa. Da qui lo sfogo su Facebook, commentato e rapidamente condiviso migliaia di volte.
La ricercatrice, di origini abruzzesi, è un «cervello in fuga» da 15 anni. Dopo varie esperienze all’estero, ora insegna Linguistica all’Università di Leida in Olanda. «Dopo il dottorato - racconta - ho provato a rientrare e non ci sono riuscita. Arrivavo sempre seconda, con i complimenti della commissione. Così ho giurato che non avrei mai più fatto domanda in Italia».
Per questo non ci sta a essere considerata un successo italiano. «La mia “Erc” e quella del collega Berto sono olandesi, non italiane. L’Italia - precisa - non ci ha voluto, preferendoci, nei vari concorsi, persone che nella lista degli assegnatari dei fondi “Erc” non compaiono, né compariranno mai».
D’Alessandro non è l’unica a pensarla così. Infatti, la metà dei vincitori italiani del grant europeo farà ricerca all’estero. In Italia continueranno a lavorarci i ricercatori che, quando hanno vinto il grant, si trovavano già nel nostro Paese. E nessun cervello straniero porterà la sua borsa da noi. Il fatto più bizzarro è che D’Alessandro spenderà i 2 milioni di euro vinti a studiare i dialetti italiani.
Sempre in Olanda, il 42enne di Mestre Francesco Berto, altro vincitore «Erc», insegna Filosofia all’Università di Amsterdam. «Il ministro è venuto fuori con commenti in cui si vanta della la ricerca italiana, ma - sottolinea - sarebbe stato più corretto dire “la ricerca fatta da gente con un passaporto italiano”».
Dopo la laurea all’Università Ca’ Foscari di Venezia e un post-dottorato a Padova, Berto ha lasciato l’Italia nel 2007. «Ero disoccupato. Ho lavorato prima due anni a Parigi, poi nel Regno Unito e negli Usa e oggi sono ad Amsterdam». Ma lui non ha del tutto interrotto i contatti con l’Italia. E anche l’Italia non ha del tutto interrotto i rapporti con lui: peccato che l’ha fatto per intimargli ingiustamente di pagare una tassa che solo chi possiede una tv in Italia deve allo Stato. «La Rai mi ha cercato a lungo - racconta - sostenendo che dovevo pagare il canone. E mi ha trovato sempre». Ora nei progetti di Berto ci sarebbe l’intenzione di tornare, ma solo «a condizioni di lavoro più o meno equivalenti».

La Stampa 14.2.16
Mamma uccide il figlio di otto anni poi si ammazza


Una 32enne ha sparato con un fucile da caccia al figlio di 8 anni e poi ha rivolto l’arma contro di sé. È l’omicidio-suicidio lo scenario sempre più concreto, secondo i carabinieri, avvenuto in un appartamento uno stabilimento di Sambucheto, nella zona industriale di Recanati (Macerata).
La porta di casa era chiusa, il fucile era accanto al corpo di Laura Paoletti (laureata in economia e titolare di un’attività di cartotecnica) in una posizione tale da far pensare che, dopo aver sparato al figlio, si sia messa l’arma sotto il mento prima di far partire l’ultimo colpo. Nessuno si è accorto di nulla, in un’area ricca di fabbriche e poco frequentata il sabato mattina.
Il padre della donna ha scoperto i corpi verso le 14, al rientro a casa: lei e il bambino abitavano con lui temporaneamente, in attesa di trasferirsi in una casa in campagna in via di ristrutturazione. Nel passato di Laura una relazione complessa con il padre del bimbo, un geometra di 39 anni del luogo, non sfociata in una vera e propria convivenza finita con una burrascosa rottura, con denunce reciproche e, da parte di lei, per stalking nei confronti dell’ex compagno.
Tra i motivi di tensione, la custodia del bambino e i tempi e modalità di visita del padre. Con l’assistenza di alcuni legali, era stato raggiunto da poco un accordo in base al quale l’uomo poteva trascorrere con il figlioletto i pomeriggi di mercoledì e venerdì. Ieri doveva andare a prenderlo intorno alle 16. Ma ha ricevuto prima la notizia della tragedia, portata dai carabinieri. Gli investigatori lo hanno sentito, ma il suo alibi è solido.

Repubblica 14.2.16
Tirolo
“Questa doveva essere area di collegamento europeo” I poliziotti: “Barriere inutili”
Brennero, Italia “Quel muro austriaco divide la nostra storia”
di Piero Colaprico


BOLZANO. Ai poliziotti che arrivano a Bolzano dal Sud, i colleghi mostrano una cartina per far comprendere subito «il clima»: i confini d’Italia quasi non si vedono, invece da Rovereto a Innsbruck, dipinto di giallo, si apre un grande territorio, chiamato «Euregio»: la macroregione europea che corrisponde al vecchio Tirolo e va da Trento ai confini dell’Austria con la Germania. Questa karte, o in italiano, questa «cartina interregionale» che riporta confini irreali dal punto di vista della geografia attuale, si trova regolarmente negli uffici pubblici.
Eppure, oggi, come già è successo mesi fa a Spielfeld, al confine con la Slovenia, l’Austria immagina anche con l’Italia il ritorno se non del filo spinato, sicuramente di container e blocchi stradali e ferroviari, e di autostrada ridotta a una sola corsia — questa l’ipotesi della polizia tirolese, ventilata l’altro ieri — in modo da facilitare i controlli a vista dei migranti e dei profughi.
Domani, a Bolzano s’incontrano — a testimoniare la preoccupazione generale — Gunther Platter, presidente del Tirolo, Arno Kompatscher, presidente della provincia di Bolzano, e Ugo Rossi, della provincia di Trento. Nell’attesa della politica, vista da vicino la situazione appare molto più frastagliata di quello che viene detto.
Innanzitutto, migranti e profughi non usano l’auto o il bus, ma il treno. E quale treno? La pattuglie trilaterali — poliziotto italiano, austriaco, tedesco — lavorano da tempo, ma — confida un agente — «noi siamo sui treni internazionali, giusto? Sul Roma- Monaco, diciamo. Qui però anche i treni regionali sono internazionali, e questi convogli regionali non è che siano molto controllati. Ma quante “trilaterali” ci vorrebbero?». Non solo: «Se c’è da presidiare un varco, noi ci muoviamo in cento, in divisa, con la macchina che sulla fiancata ha come da Statuto la scritta bilingue, polizia/ polizei, giusto? Peccato che chi vuole passare fa molto in fretta ad avere le informazioni giuste e prova a passare dove il valico è sguarnito».
Fuori dalla stazione ferroviaria del Brennero, a due minuti a piedi, c’è una casa gialla a tre piani. La curano i giovani e non giovani di Volontarius, associazione con contributi pubblici, e Andrea Tremolada, 35 anni, racconta: «Nel 2014 i dati della questura dicevano che tra Italia e Austria erano passate 4mila persone, nel 2015 ci siamo anche noi, e ne abbiamo contate 27.311». Sette volte di più? Possibile? «Esatto. Nella casa gialla del servizio di assistenza umanitaria in questo periodo abbiamo circa 50 persone al giorno, magari sono state sorprese sui treni di notte, e fatte scendere. Ma abbiamo anche un flusso inverso, ci sono pachistani e afgani che tornano indietro, circa una ventina al giorno, succede da quando a Colonia ci sono state le aggressioni alle donne nella notte di Capodanno Sinceramente, non credo che un divieto, per giunta da parte di un solo Stato, possa fermare un fenomeno epocale come la migrazione ».
Come spiega a Repubblica Herbert Dorfmann, di Bressanone, eurodeputato della Sudtiroler Volkspartei, «L’Euroregione è un obiettivo mio e del mio partito ». La cartina Euregio non è infatti soltanto il pezzo di carta che stupisce i funzionari neofiti, qui è sogno politico e rivendicazione storica: «Dunque — commenta Dorfmann — «non può essere solo piste ciclabili e guide enogastronomiche. Quando l’Austria dice “Noi non lasciamo entrare tutti” esercita una pressione sulla Grecia, ma è illusorio ipotizzare di fermare al Brennero chi ha già fatto migliaia di chilometri rischiando la vita». Come lui, Stefan Pan, presidente al secondo mandato di Assoimprenditori Alto Adige, rilancia: «Euregio è una perfetta giuntura, che collega lo “stivale” italiano all’Europa del Nord, e come giuntura non può e non deve essere immobilizzata di nuovo da steccati».
Quando però si ascoltano al mercato di Bolzano le persone semplici, si entra in un altro territorio mentale. Rosi e Dina, una di lingua italiana l’altra di lingua tedesca, vendono insieme speck e formaggi al mercato e hanno la stessa idea: «Se l’Austria chiude vuol dire che non ce la fa più. Perché noi lavoriamo, paghiamo e non ci rimane niente». Mario, concorrente, lingua tedesca: «Ora chiudono, poi la situazione si calma, e riaprono. Per noi? Non è un problema». Stephanie, cameriera in birreria: «Per i sudtirolesi come me non c’è sempre bisogno di andare in Nord Tirolo, qui c’è tutto, e se c’è da fare coda, la faremo, i documenti li abbiamo ».
Sono forse anche questi i discorsi che hanno accelerato la decisione austriaca? A fine aprile si vota alle presidenziali, e per alcune regionali tirolesi (ma non Innsbruck): gli slogan anti-immigrato hanno presa su una parte dell’elettorato, si sa. E quanto la mano dura non dispiaccia da queste parti, lo rivela una copertina che Tageszeitung ha dedicato un anno fa al questore Lucio Carluccio. Titolo « Der Sheriff », commento: «Lo spietato». Aveva espulso alcuni albanesi per risse al bar e la cittadinanza non aveva apprezzato: di più.

La Stampa 14.2.16
Tutti i limiti dell’accordo di Monaco
di Stefano Stefanini


Monaco è tristemente famosa per il ben intenzionato accordo del 1938 che spianò la via alla Seconda Guerra Mondiale. I ben intenzionati negoziatori del cessate il fuoco in Siria, Kerry, Lavrov, de Mistura, Mogherini, hanno fatto bene a ricacciarne il fantasma e non darsi per vinti. Hanno però ottenuto solo un cessate il fuoco che non si applica a tutti e ad entrata in vigore ritardata di una settimana.
Non si applica alle operazioni contro Isis. E fin qui va bene: lo Stato Islamico non è parte dei negoziati. Non si applica, per i russi, ai bombardamenti contro al-Nusra. Al-Nusra è una filiale qaedista che pure non ha posto al tavolo, ma come distinguerla sul campo di battaglia dalle fazioni ribelli più accettabili? Assad si sente vincitore. Crede “fermamente” nei negoziati, ma non intende interrompere la lotta contro i terroristi che si oppongono al suo regime. Aggiunge che non si fermerà fino alla riconquista dell’intero paese: cosa resta da negoziare?
Il cessate il fuoco è stato un’intesa dell’ultima ora fra Sergei Lavrov e John Kerry. Per tutta la settimana però la Russia continuerà i bombardamenti, che colpiscono anche l’opposizione non-Isis, come ampiamente avvenuto ad Aleppo. Dopo? terrà a freno Assad o ne appoggerà l’offensiva? non avrà anche Putin la tentazione di vincere prima, trattare dopo? Visibilmente infelice, il portavoce americano ha ammesso che «conterà quello che succede sul terreno». Cioè: combattimenti a terra no, bombardamenti sì. Il guerrigliero armato di Kalashnikov smetterà di sparare pur restando bersaglio di un missile aria-terra?
I negoziatori hanno fatto del loro meglio. Con il cessate il fuoco strappato a Monaco tentano di far ripartire il negoziato di Ginevra fra le parti siriane. Guadagnano uno spiraglio essenziale per gli aiuti a popolazioni stremate. Cercano di fermare le ostilità prima che mettano faccia a faccia Damasco, Russia e Iran, da una parte, Ankara e Arabia Saudita dall’altra (le forze di Assad sono ormai vicine alla frontiera turca). Non è colpa loro se l’accordo segna i limiti, se non il fallimento della diplomazia.
L’assenza da trattative sul cessate il fuoco proprio delle parti che dovrebbero cessarlo è superabile se i negoziatori hanno mandato per rappresentarle o il potere di imporlo. A Monaco non avevano né l’uno né l’altro. Affinché la diplomazia abbia successo sono necessarie due condizioni. La prima è di essere sostenuta da credibili e forti leve di pressione. Come amava dire Theodore Roosevelt, «si va lontano parlando sommessamente e portando un grosso bastone». La seconda è di svolgersi fra Stati o entità responsabili. Con uno Stato fallito, come la Siria, anche la diplomazia fallisce.
In Siria era stata a lungo impotente perché non aveva alcun bastone; nel frattempo lo Stato precipitava nell’abisso del fallimento, con quattro milioni di rifugiati e otto di sfollati interni, fazioni che si combattono fra loro, potenze straniere e milizie che le sostengono. Chi rappresenta la Siria? Al tavolo del negoziato di Ginevra dovrebbero sedere 33 gruppi, regime compreso, Isis e al-Nusra escluse. A confronto, i ventotto partecipanti ai più riottosi Consigli Europei o Consigli Atlantici sono un coro di voci bianche.
La diplomazia ha ripreso vita quando hanno cominciato a materializzarsi alcuni bastoni. Prima quello americano contro Isis, poi quello russo a sostegno di Assad, infine quello francese di una coesione internazionale anti-terrorismo, dopo gli attentati di Beirut, Sharm el-Sheikh e Parigi. Non appena quest’ultima ha cominciato a sfilacciarsi, prima per lo scontro fra Russia e Turchia dopo il Sukhoi 24, poi per la rottura fra Arabia Saudita e Iran, la diplomazia ha cominciato a perdere colpi.
L’Italia, presente a Monaco col Ministro Gentiloni, dovrebbe studiare a fondo la lezione siriana. Perché il caso libico è identico. Altro Stato fallito. Altra diplomazia delle Nazioni Unite, da noi sostenuta con grande impegno, completamente disarmata. La soluzione politica del governo di riconciliazione nazionale non decolla; Isis si rafforza; la situazione umanitaria, di sicurezza, di aleatorietà delle forniture energetiche e di pressione migratoria peggiora costantemente. Se la diplomazia internazionale fallisce in Siria, figuriamoci in Libia, dove finora non ha alcun bastone.

Corriere 14.2.16
I sogni infranti dei ribelli: «Abbandonati dagli alleati ci accusano di essere dell’Isis»
di Lorenzo Cremonesi


GAZIANTEP (Turchia) Dalla rivoluzione popolare per rovesciare la dittatura di Bashar Assad alla lotta partigiana contro l’occupazione della Siria da parte dei russi assieme all’Iran e alle milizie sciite.
Differiscono per enfasi e dettagli le reazioni dell’opposizione siriana all’intensificarsi delle operazioni militari russe delle ultime settimane, ma nella sostanza concordano su di un punto: la superiorità bellica degli avversari è divenuta tale che occorre passare dalla guerra aperta alla guerriglia; non più pretendere di controllare il territorio, bensì organizzarsi in cellule pronte a colpire e sparire tra una popolazione che in larga maggioranza resta ostile al regime di Damasco.
«Siamo stati abbandonati dai nostri alleati. Gli aiuti forniti dagli Stati Uniti, la Nato e in generale il fronte anti-Assad, sono irrisori rispetto al sostegno che Mosca, Teheran e le milizie sciite regionali garantiscono alla dittatura criminale che domina a Damasco. È una situazione ben triste. Noi, che incarnavamo le speranze per una Siria democratica, siamo stati accusati di simpatizzare per Isis e il terrorismo jihadista. Vince la dittatura contro la democrazia e voi occidentali ne siete complici. A parole l’Occidente e il mondo libero ci hanno incoraggiato. Salvo alla prova dei fatti lasciarci soli. Oggi le poche armi e munizioni che arrivano ai nostri gruppi sono nulla rispetto a ciò che invia Mosca», sostiene il 50enne ex alto ufficiale dell’esercito siriano Abdul Jabbar Akidi incontrato ieri sera nel suo ufficio a Gaziantep. Una figura nota. Akidi era colonnello nelle prime fasi delle rivolte cinque anni fa, quando decise di disertare per unirsi a coloro che «volevano portare la libertà nel nostro Paese». Per due anni ha comandato con il grado di generale il nuovo Esercito Siriano Libero, sino al novembre 2013, quando si è dimesso «per protesta contro le troppe divisioni interne». Da allora resta però uno dei militanti più attivi e molto consultato degli esperti militari. «Ovvio che i nostri uomini non hanno la capacità di fronteggiare sul campo i jet russi e neppure le addestrate e ben equipaggiate formazioni di Guardie della Rivoluzione iraniana o di Hezbollah libanesi e sciiti iracheni. Però possono darsi alla macchia, colpire e dileguarsi. La stragrande maggioranza dei siriani è con noi. I russi e gli iraniani non potranno restare nel Paese per sempre. Dalla rivoluzione alla lotta di liberazione: faremo in modo di rendere la loro permanenza difficile. E alla fine Assad si rivelerà per quello che è: un burattino a capo di una struttura dissanguata, minoritaria».
Quanto agli accordi sul cessate il fuoco appena faticosamente raggiunti a Monaco tra Stati Uniti e Russia, il giudizio di Akidi fa eco alle decine che abbiamo raccolto tra dirigenti e militanti dell’opposizione siriana rifugiati in Turchia: «non hanno alcun valore, sono morti sul nascere».
«Vale lo stesso principio che ha caratterizzato il recente fallimento dei colloqui di Ginevra e quelli di Vienna: non è possibile negoziare mentre i nostri nemici ne approfittano per attaccare ancora più duri. Ad Aleppo oltre 400 mila civili sono sotto assedio, a Homs più di 300 mila, oltre a decine di villaggi ridotti alla fame», risponde Mohammad Abu Mazen, 37enne avvocato che dirige i 1.250 combattenti di una brigata operante a Homs. E aggiunge un’osservazione preoccupata: «Noi siamo convinti che, dopo aver battuto nel sangue le nostre milizie del fronte moderato, i russi cominceranno ad attaccare Isis. E ciò gli farà guadagnare consensi tra le opinioni pubbliche occidentali. Ma toglierà ben poco al fatto che la maggioranza dei siriani non vuole più Assad. Noi continueremo a batterci». Le ultime cronache dal terreno confermano il proseguimento dell’offensiva a guida russa. La stretta attorno ad Aleppo si è fatta più aggressiva, con l’irruzione delle forze pro-iraniane in almeno tre villaggi nei settori settentrionali. L’esercito turco intanto ha fatto fuoco contro le milizie curde siriane, che avevano approfittato del caos per catturare i villaggi di Malkiyeh e Mannagh.

La Stampa 14.2.16
Il greggio iraniano in Europa
Ecco i primi 4 milioni di barili
II Venezuela preme per tagliare la produzione. Bce: crescita a rischio
di Giuseppe Bottero


I primi quattro milioni di barili di petrolio iraniano diretti in Europa sono partiti. «Due milioni sono stati acquistati dalla compagnia francese Total e gli altri due da gruppi spagnoli e russi», ha annunciato ieri Teheran. È il primo passo di un ritorno in grande stile, che rischia di accelerare la picchiata dei prezzi del greggio e tagliare fuori i produttori statunitensi. Il Paese, che si è appena lasciato alle spalle le sanzioni, al momento punta a immettere sui mercati internazionali un milione di barili in più al giorno. L’obiettivo è alzare il ritmo, arrivando a un milione e mezzo entro l’inizio del nuovo anno persiano - prende il via il 20 marzo - per poi allungare fino a due milioni.
Non sarà semplice, spiegano gli analisti, visto che la filiera produttiva si è logorata e riammodernare le strutture ha costi molto alti. Il nuovo oro nero, però, aumenterà ancora lo squilibrio tra un’offerta sempre più abbondante e una domanda che resta molto debole.
Le mosse dell’Opec
A questo punto, la prossima mossa dovrebbe toccare all’Opec, il cartello degli esportatori che sotto la spinta delle monarchie sunnite del Golfo ha fatto precipitare il prezzo sotto la soglia critica dei 30 dollari a barile. Il Paese che più degli altri si sta muovendo per convincere i colleghi sauditi a cambiare politica è il Venezuela, sull’orlo del baratro nonostante sia seduto sulle riserve più grandi del mondo. Il presidente Nicolas Maduro ieri ha detto in tv che «il prezzo non tornerà mai più a 100 dollari al barile» e ha chiesto di agire. «Non possiamo rassegnarci a lasciare che il greggio finisca preda del mercato degli speculatori», ha spiegato il ministro del petrolio di Caracas, Eulogio Del Pino. Un appello drammatico a cercare un accordo che lascia scettici gli osservatori: intese del genere, infatti, sono semplici da eludere.
Le stime del Kuwait
In assenza di contromisure, comunque, il prezzo potrebbe in ogni caso tornare a un livello più rassicurante per i paesi produttori e per le grandi major petrolifere entro la seconda metà del 2017, prevede il presidente della Kuwait Petroleum International (Q8), Bakheet Al-Rashidi, che spera in «50-60 dollari al barile». Di certo la situazione attuale, che pure dovrebbe portare benefici ai consumatori, non tranquillizza la Banca centrale europea: il crollo del greggio e il rallentamento della crescita rappresentano «nuovi rischi» per l’economia, anche rispetto a dicembre, ha avvertito il componente del consiglio esecutivo di Francoforte, Benoit Coeuré. E i mercati si preparano a nuove sedute sulle montagne russe: dopo la picchiata del barile ai minimi da dodici anni, venerdì è stato il giorno del grande rimbalzo a 29,44 dollari. Le tre petroliere salpate dall’Iran potrebbero cambiare di nuovo le carte in tavola.

La Stampa 14.2.16
Gli occhi di Giulio Cesare da Dante ai Promessi sposi
Uno studio di Luciano Canfora indaga le fonti latine che hanno nutrito laDivina Commedia(e non solo)
di Gian Luigi Beccaria


Frammezzo alla ricchezza di dati obiettivi e riferimenti, cosa dimostra il volumetto di Luciano Canfora che esce col titolo Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante (ed. Salerno, pp. 97, € 8,90)? Mostra che chi scrive non si rifugia al fresco sotto un pero a contemplare le stelle, o si lascia lambire dallo zefiro vivificante di primavera che gli insuffla l’ispirazione, ma inventa, innova, costruisce i propri libri usando altri libri: racconta, ma al cospetto di quanto hanno fatto altri prima di lui, seguendoli, magari rovesciandoli.
Perché «gli occhi di Cesare»? Dante ha posto Cesare tra «li spiriti magni» del limbo, dove lo fa comparire «armato con li occhi grifagni». Non è casuale l’aggettivo. Non è totalmente invenzione di Dante. L’unica fonte latina che fornisca un ritratto fisico di Cesare è il capitolo 45 di uno dei testi più diffusi nel Medioevo occidentale, il De vita Caesaris di Svetonio. Il quale Svetonio aveva scritto: «nigris vegetisque oculis». Dante vuole mettere in rilievo gli occhi vividi, lucidi e neri, simili a quelli di un falcone, o grifone, di un uccello di rapina insomma: occhi fieri, lampeggianti, come di animale sempre pronto a ghermire.
Una volta indicata la fonte certa, Canfora compie un secondo passo, e cita Manzoni, capitolo VII dei Promessi sposi: c’è un bravo armato (sta a guardia dell’osteria dove Renzo, Tonio e Gervaso cenano insieme per preparare il colpo di mano del matrimonio clandestino) appoggiato al vano della porta che fa «lampeggiare ora il bianco, ora il nero dei due occhi grifagni». Nello stesso capitolo affiorano anche richiami al Giulio Cesare di Shakespeare, un passo del monologo di Bruto, quando parla dell’intervallo che si frappone tra il compiere un’azione terribile e il primo impulso a compierla, una sorta di sogno orribile, di incubo: quel passo è addirittura ripreso nel pensiero di Lucia angosciata durante la preparazione del citato matrimonio a sorpresa in casa di don Abbondio.
Cesare-Svetonio-Dante-Shakespeare. Canfora è implacabile. Esamina ogni dettaglio, non molla la preda. Non molla difatti il nostro Manzoni, e va al Cinque maggio, dove si mettono insieme Cesare e il Giustiniano di Dante di Paradiso VI: Cesare «fu di tal volo / che nol seguiteria lingua né penna». E Manzoni a sua volta scriverà di Napoleone: «di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno». E ancora Giustiniano, quando insisteva sulle fulminanti campagne di guerra di Cesare, prepara la via a Manzoni che nella sua Ode ci dirà dell’altrettanto fulminante, velocissima carriera guerresca di Napoleone: «Dall’Alpi alle Piramidi / dal Manzanarre al Reno…», e poi «scoppiò da Scilla al Tanai / dall’uno all’altro mar».
Stesso ritmo accelerato, stessa sequenza spazio-temporale vorticosa. In questi casi però Manzoni mette a confronto due grandi, Cesare-Napoleone. Nel capitolo VII dei Promessi sposi invece capovolgerà la prospettiva storica. Ormai pensa che la storia non è fatta dai grandi, tant’è vero che il Cesare dantesco dagli occhi grifagni ora è grottescamente rovesciato in un bravaccio. Una vera «stoccata anticesariana». A un bandito di strada sono attribuiti gli occhi del Cesare dantesco e svetoniano: è un gioco dissacrante, come Manzoni ama fare ogni tanto, per esempio (è sempre Canfora a notarlo) quando paragona Don Rodrigo che fugge scornato dal paese dopo il voltafaccia dell’Innominato al Catilina in fuga da Roma, come l’aveva descritto Sallustio nel De coniuratione Catilinae.
Siamo soltanto che alle prime venti pagine di questo denso volumetto. Nelle seguenti Canfora continuerà a parlare fittamente di Svetonio, e di Livio, di Orosio, di Lucano, di Sallustio, di Tacito, libri essenziali della biblioteca storica di Dante. Un piccolo libro, questo di Canfora, ma talmento ricco di riferimenti e di scaltrezza che non solo ci addottrina, ma dimostra compiutamente che forse la letteratura esiste - scriveva Zanzotto - «quasi come invito a entrare in un coro di citazioni». Ci vuole uno Sherlock Holmes della filologia come Canfora per scovarle, incrociarle, e interpretarle a fondo.

La Stampa 14.2.16
Cosmacini narra mille anni di medicina
di Piero Bianucci


Medico con una laurea in filosofia, radiologo, docente alla Statale di Milano e all’Università Vita-Salute del San Raffaele, già collaboratore di don Gnocchi, a 85 anni Giorgio Cosmacini è il nostro più autorevole storico della medicina. Dopo decine di saggi spesso intrecciati con la bioetica, ora ci mette tra le mani un piccolo libro che fonde inscindibilmente le sue due culture, quella bio-medica e quella umanistica.
Medicina narrata (Sedizioni, pp. 92, € 18) traccia un percorso letterario lungo quasi mille anni usando come bussola la malattia: non casi patologici singoli, ma malattie che hanno segnato la storia e la società trasformandosi talvolta in visioni del mondo. È il caso della peste da Boccaccio a Manzoni a Camus: rispettivamente ecatombe esorcizzata con il gioco, dramma inscritto nel disegno della Provvidenza, metafora del nazismo e del Male. O della sifilide che corrode Benvenuto Cellini diventando nell’immaginario collettivo marchio sociale e punizione del peccato, proprio come cinque secoli dopo accadrà con l’Aids. O ancora la tubercolosi, sublimata in segno di ipersensibilità romantica, o ancora il cancro in Tolstoj, o la malaria in Verga.
In pagine veloci Cosmacini riesce a raccontare la storia delle grandi malattie riflesse nello specchio della letteratura, la loro fenomenologia, il loro vissuto sociale, i rimedi tentati nel corso dei secoli, da quelli popolari a quelli scientifici. Sotto traccia, c’è una attenzione costante al rapporto tra paziente e malattia (guai a identificare l’uno nell’altro: non c’è il diabetico ma la persona malata di diabete) e al rapporto non meno delicato tra medico e paziente, oggi esposto al rischio che il tecnicismo uccida l’empatia umana. Claudio Magris, di recente, coglieva un segnale di allarme nel linguaggio medico sempre più specialistico, e raccomandava la cura prima del malato e poi della malattia. È questa la strada da riconquistare, forti, ma non schiavi, delle acquisizioni scientifiche. Ed è anche l’unico modo per contrastare le pseudomedicine new age.

Repubblica 14.2.16
Un Nobel alla memoria per Einstein
di Piergiorgio Odifreddi


Ha fatto scalpore nei media la notizia, arrivata giovedì scorso, della rilevazione di onde gravitazionali. Uno scalpore forse eccessivo, per due motivi. Anzitutto, perché si è trattato di un’osservazione sperimentale, e non di una previsione teorica. E poi, perché si è trattato di una conferma, e non di una smentita. In altre parole, tutto è in ordine nella Relatività generale che Albert Einstein formulò un secolo fa, nel novembre del 1915. La stessa cosa era successa nel 2012 con l’osservazione del bosone di Higgs, anch’esso previsto mezzo secolo prima. Quella volta la conseguenza era che tutto è in ordine con la meccanica quantistica, che lo stesso Einstein aveva contribuito a formulare. Ma non da solo, come per la Relatività, bensì in un processo collettivo che coinvolse alcune delle più belle menti della fisica del Novecento.
Non è facile prevedere se gli osservatori delle onde gravitazionali prenderanno ora il premio Nobel. Quelli del bosone di Higgs non l’hanno preso, perché nel 2013 è stato premiato Higgs stesso: colui che l’aveva previsto, cioè, non coloro che l’hanno confermato. Semmai un premio Nobel dovrebbe andare alla memoria a Einstein, che vinse il suo nel 1921, ma non per la relatività. Anzi, finora nessuno l’ha mai preso in quel campo, e forse sarebbe ora di rimediare: le onde gravitazionali potrebbero infine offrire un’occasione.

Corriere 14.2.16
Azar Nafisi : i libri sono utili se mettono i lettori a disagio
intervista di Luca Mastrantonio


La scrittrice iraniana Azar Nafisi, nata nel 1955, ha studiato da giovane in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Tornata in patria nel 1979, ha insegnato a lungo all’università, mettendosi in urto con le autorità di Teheran
Negli anni Novanta Azar Nafisi ha lasciato l’Iran per trasferirsi negli Usa, dove insegna alla Johns Hopkins University. Il suo libro più noto è Leggere Lolita a Teheran , edito da Adelphi nel 2004

A vedere certe vecchie foto dell’Iran e quelle americane di oggi, la vita di Azar Nafisi sembra passata dalla notte al giorno. Forse è l’effetto del bianco e nero delle foto dei primi anni all’università a Teheran, con il bianco delle scritte a gesso sulla lavagna, nera, e il nero del velo a incorniciare il volto, chiaro; opposto alla vivacità a colori della nuova vita americana, radiosa negli scatti al matrimonio del figlio Dara (nel 2015, mentre la sorella si è sposata nel 2014). In una c’è anche Bryce, il cane di Dara: «Da piccola — dice Nafisi — ne avrei tanto voluto uno, ma mia madre era contro gli animali domestici». A Bryce hanno messo una cravatta blu, con puntini bianchi, come quella dello sposo, racconta via mail la scrittrice che vive a Washington, dove insegna alla John Hopkins University; ma con l’Iran, lasciato nel 1997, sempre nel cuore (ha anche una passione per l’Italia, dove è pubblicata da Adelphi: l’ultimo libro è La Repubblica dell’Immaginazione ).
Su Twitter ha scritto che Washington con la neve le sembra Teheran.
«Vivo a Foggy Bottom, vicino al fiume Potomac. Ogni mattina mi sveglio e lo saluto, come a Teheran guardavo le montagne innevate: è il mio contatto emotivo con la città. All’inizio di quest’anno, guardando fuori dalla finestra, tutto era bianco, con strisce di luce e gli uccelli sul fiume ghiacciato. Mi sono tornati i ricordi delle giornate luminose di neve a Teheran, le passeggiate con un’amica d’infanzia, i racconti, i bignè con panna fresca, il sorbetto di ciliegia fatto da mia madre con la neve».
Oggi in Europa si discute del velo islamico. Lei fu espulsa dall’università nel 1981 per averlo rifiutato.
«Chiariamo: la mia protesta non era contro il velo in sé, ognuno può criticarlo o difenderlo, ma contro l’imposizione che viola i diritti delle donne. Deve essere una scelta personale, non dello Stato o di altre autorità. Comunque, 17 anni dopo quell’episodio ho lasciato il Paese perché non avevo modo di fare quello che amavo: insegnare letteratura. Mi sentivo esiliata nella terra dove sono nata. Così me ne sono andata, con mio marito, Bijan Naderi, che ho conosciuto nel movimento studentesco, e i due figli, Dara e Negar, nati durante la guerra Iran-Iraq».
A metà gennaio è entrato in vigore l’accordo tra Usa e Iran sul nucleare. Lei come lo giudica?
«Mi preoccupa la mancanza di strategia politica degli Stati Uniti. I negoziati possono creare le basi per un Iran più aperto, ma ciò non avverrà automaticamente. L’America doveva tenere il punto sulle atrocità che il regime commette. Tra i miei amici restati in Iran alcuni pensano che questo possa costringere Teheran ad essere più aperta, responsabile. Altri credono sia uno stratagemma dal regime per ottenere più soldi da utilizzare per un maggiore controllo sul popolo iraniano. Con Rouhani presidente non ci sono stati miglioramenti su diritti umani, numero di esecuzioni, torture, carcere, corruzione...».
A fine febbraio in Iran ci saranno nuove elezioni. Quali sono le sue previsioni?
«Il Consiglio dei Guardiani, che decide chi ammettere o no, ha invalidato le candidature delle opposizioni: che esito democratico possono avere?»
Qual è il suo orientamento per le presidenziali Usa?
«Voterò democratico. Ci sono buoni candidati, devo ancora decidere. Sono consapevole dei punti deboli di Hillary Clinton, ha una matrice troppo politica, ma è tosta, focalizzata sul lavoro; da sempre ha sostenuto i diritti delle donne e dei bambini».
In «Leggere Lolita a Teheran» lei usava i classici per «leggere» il suo Paese. Per gli Usa che titolo sceglie?
«Direi Le avventure di Huckleberry Finn , perché ancora ci turba. La destra, che vuole vietare Harry Potter nelle scuole perché promuoverebbe riti “satanici”, vuole censurare il libro di Twain per il linguaggio rozzo e la mancanza di rispetto verso la religione; la sinistra, invece, per la parola nigger , cioè perché il libro non è politicamente corretto. Entrambe si trovano disagio: il libro è pericoloso e offensivo. Bene! Come James Baldwin ci ricorda, scrittori e artisti non devono farci sentire al sicuro, devono “turbare la pace”, mettere in discussione non solo il mondo o quelli con cui non siamo d’accordo, ma pure le nostre supposizioni, i pregiudizi. La parola nigger in quel contesto è usata non per insultare gli schiavi, ma per esporre la crudeltà e la violenza della schiavitù. Se un libro a più di un secolo di distanza ancora ci turba, è perché rivela chiaramente, senza sentimentalismi, la natura atroce della schiavitù, e il fatto inquietante che possono essere razziste non solo le persone terribili, ma pure quelle gentili».
Il politicamente corretto non sembra compatibile con la grande letteratura.
«Il politicamente corretto non consente il dibattito e vuole eliminare i pregiudizi facendo appello alle emozioni. Si basa sul desiderio di trovare soluzioni facili per situazioni molto complesse, mentre la grande narrativa deve farci sentire in difficoltà. Prendiamo Va’, metti una sentinella di Harper Lee, dove scopriamo che l’avvocato Atticus Finch, eroe del B uio oltre la siepe , in realtà è un razzista. Non può esserlo uno che lotta per la giustizia? È così che Harper Lee ci mostra i paradossi, le contraddizioni dell’animo umano».
A volte si cade nel vizio opposto: il politicamente scorretto ad ogni costo.
«Non confonderei il piano letterario con quello del potere. Prendiamo Donald Trump: rappresenta la denigrazione della fantasia e delle idee, mostra come l’arroganza affondi le sue radici nell’ignoranza. Lui è il lato commerciale dell’America, che ama solo la celebrità, la negazione della storia, la realtà sostituita con le illusioni».
A proposito di celebrità, lei ha postato su Facebook una foto con David Bowie.
«È stato un bellissimo incontro. Volevo parlargli delle sue canzoni, ma avevo paura di fare troppo la fan… Lo immaginavo cool e pieno di charme, in un modo unico e ultraterreno, come il Piccolo principe. E lui è realmente così! La mia canzone preferita è Changes , soprattutto quando dice “Mi sono voltato verso di me”: mi affascina l’idea dello straniero che vediamo allo specchio, che ci conosce e sbeffeggia».
Lei è celebre per libri autobiografici e di immaginario letterario. A quando un’opera di pura fiction?
«Non so, deve venire naturale. Finché non ne realizzerò una, non sarò soddisfatta».
Una biografia che le piacerebbe scrivere?
«Sono sempre stata affascinata da scrittori classici di cui si sa poco, come il grande poeta epico persiano Ferdowsi. O, tra i moderni, Alam Taj, una poetessa che non ha mai pubblicato poesie, ma le nascondeva nei libri che leggeva. E faceva la casalinga».

Corriere La Lettura 14.2.16
Il contagio
Il panico delle Borse per i titoli tossici, il reclutamento sul web dei terroristi, le emergenze sanitarie: non si contano i fenomeni virali, fino a configurare un processo sempre in atto, scarsamente prevedibile, che può espandersi o contrarsi. Questo tuttavia finisce pur sempre per rivelare ciò che, nell’essere umano, è stabile e duraturo, e si rinnova a ogni generazione. Ne hanno parlato Albert Camus nella «Peste» e George Orwell in «1984».
Ma forse la pagina più istruttiva si trova già nelle «Storie» di Tito Livio
di Emanuele Trevi


Non sono il solo a nutrire una tenace diffidenza nei confronti dell’aggettivo «globale». Con tutte le sue pretese di spiegare la realtà, mi sembra una parola difettosa, sospesa tra la pura tautologia e la petizione di principio. Più che esprimere un pensiero, denuncia un’abitudine. Al concetto di «virale», invece, e alla metafora del «contagio» che gli fa da base, attribuisco una grande credibilità. Il «virale» designa alla perfezione tutti gli innumerevoli fenomeni che costituiscono la cosiddetta «globalità». Non è un destino, una legge, un dato di fatto a cui dobbiamo adeguarci, bensì un processo sempre in atto, scarsamente prevedibile, dotato di possibilità di espansione e contrazione.
Per constatare quanto la metafora sia adatta a render conto di molti dei fenomeni più emblematici del nostro tempo, lungo un arco di significato che va dalle catastrofi economiche ai prodotti estetici, basta seguire un telegiornale dall’inizio alla fine. In queste settimane, la notizia di apertura riguardava spesso le Borse asiatiche. Ogni mattina, misteriose fluttuazioni di valori e listini generano un contagio di sfiducia che accompagna il corso del sole come i fidi cavalli alati della mitologia, ritornando al punto di partenza dopo essersi propagato attraversando mari e continenti. Simili a medici che hanno esaurito tutti i loro rimedi, gli operatori finiscono sempre per guardare i loro monitor a braccia conserte, augurandosi che chi ha deciso di inoculare il virus questa volta non esageri.
Dalla finanza alla geopolitica, in un notiziario, il passo è breve. Il bollettino del terrorismo planetario va aggiornato di continuo, ma l’orrore delle imprese jihadiste è la conseguenza di un altro genere di contagio, che infesta le reti dei social network contatto dopo contatto. Questo virus è così potente da trasformare nel giro di qualche giorno persone in apparenza normalissime in mostri decisi a farsi saltare in aria trascinando con sé il maggior numero possibile di innocenti. L’efficacia del reclutamento incute quasi più paura degli attentati. I servizi finali di un telegiornale per tradizione sono meno ansiogeni, e appartengono a quell’indefinibile galassia che nelle redazioni viene definita come «cultura e spettacoli». Ma non per questo la metafora del contagio perde la sua forza: al contrario, la viralità decreta molte delle effimere glorie artistiche di oggi, con grande scorno dei vecchi critici aggrappati ai loro scranni e a un modello del sapere e del giudizio in via d’estinzione.
Nell’immaginare questo telegiornale, stavo dimenticando che è sempre più raro un periodo privo di minacciosi allarmi sanitari — come appunto il virus Zika di questi tempi o le ricorrenti paure legate alla meningite —, destinati o meno a tramutarsi in emergenze vere e proprie. Tra i tanti impieghi metaforici, un concetto deve pur mantenere una sua base di senso letterale. Altrimenti, le metafore farebbero la fine dei palloncini che si perdono nel cielo. Le epidemie e i contagi, considerati in senso sanitario, risvegliano tratti arcaici nella nostra umanità dall’illusione di un progresso lineare e infinito. Sorridiamo degli antichi e della loro teoria dei «miasmi» vaganti nell’atmosfera, inorridiamo leggendo la Storia della colonna infame di Manzoni, ma con tutta la nostra tecnologia, i vaccini sono difficili da trovare come gli aghi nel pagliaio dei proverbi. Ed è il nostro modo di vita, fondato sulla facilità degli spostamenti e dei contatti, a rendere i virus più pericolosi di quanto lo fossero nell’Atene di Tucidide o nella Londra di Daniel Defoe.
La verità è che, prima ancora che definirsi «mortale», l’umanità dovrebbe pensare a se stessa come la forma di vita più «contagiabile» al mondo. Dagli organi del corpo alle più sottili e impalpabili emozioni, non esiste nulla in noi che sia dotato di un’esistenza autonoma. A partire dalla più umana delle facoltà, quello straordinario contagio perpetuo che è il linguaggio. Sarà per questo che tutte le forme di saggezza superiore elaborate dalle culture più diverse hanno in comune un ideale di separazione tanto fisica quanto spirituale. Dai filosofi-maghi taoisti ai sapienti greci, dagli asceti indiani ai poeti romantici, per non parlare degli eremiti cristiani dei primi secoli, un buon uso della solitudine è la caratteristica fondamentale dell’uomo dotato in misura eccezionale di poteri spirituali e consapevolezza. Come lo Zarathustra di Nietzsche, quest’uomo potrà pure un bel giorno decidere di scendere fra gli uomini dalla sua montagna, ma è lì che è diventato se stesso. La solitudine lo ha preservato dal contagio delle opinioni, ha tenuto acceso in lui il fuoco esclusivo della verità.
Non si tratta di un vano ideale aristocratico di sapore fascistoide. Una preoccupazione non diversa poteva animare Albert Camus quando, nel 1947, pubblicava La peste , un capolavoro che troppo spesso tendiamo a relegare nell’insipido limbo delle letture scolastiche. E invece, è uno di quei libri che non sentono gli anni, il frutto di un’intuizione antropologica fulminante. La grande allegoria di Camus si basa su un sorprendente rovesciamento: l’epidemia di peste che si abbatte all’improvviso su Orano è certamente un’emergenza imprevedibile. Ma se lo stato d’eccezione sovverte abitudini e valori, finisce pur sempre per rivelare ciò che, nell’essere umano, è stabile e duraturo, e si rinnova a ogni generazione. Il contagio è immaginato da Camus come un assedio. Dalla pacifica e sonnolenta città della costa algerina, nessuno può più uscire. E chi si trovava fuori nei giorni in cui l’epidemia è scoppiata, non può fare ritorno a casa. Mentre il conto dei morti sale implacabile giorno dopo giorno, si instaurano nuove leggi e vengono minacciate severe punizioni per chi le infrange. Sono tutte misure profilattiche razionali, ispirate al bene comune. Ma c’è un prezzo da pagare. La peste rende tutti uguali. Il primo effetto della paura sembra quello di annullare quelle esigenze di libertà che sono proprie all’individuo, all’irripetibile conformazione dei suoi desideri e delle sue speranze. Non potrebbe andare diversamente, vista la situazione. È la regola di ogni emergenza: sanitaria, economica, criminale. La grande morìa dei topi di Orano, descritta nelle pagine iniziali della Peste , suona come una terribile profezia, un geroglifico che nessuno al momento è capace di decifrare. A far inorridire non è solo la malattia che accomuna uomini e bestie nella stessa sorte, ma il fatto che i topi sono un’entità collettiva, la sinistra parodia di una società dove l’esistenza del singolo non ha più nessun peso, nessun senso.
Pochi mesi dopo La peste , George Orwell pubblicò 1984 . Questi due grandi scrittori, spiriti liberi in un mondo infestato dal conformismo e dall’ottimismo di partito, raccontarono più o meno la stessa storia. La peste di Orano e il Grande Fratello non si oppongono, ma si integrano, sono simboli di un male che per manifestarsi non fa distinzione tra catastrofi naturali e incubi culturali. Non mancano, ahimè, le occasioni di constatare quanto sia illuminante il corto circuito innescato da Camus fra la peste e i flagelli inventati dall’uomo. Non c’è nulla che assomigli alla sua Orano stremata dal contagio più delle immagini di Parigi e Bruxelles paralizzate dal terrore che si vedevano in televisione lo scorso novembre.
Ancora meglio di Orwell e Camus, noi oggi sappiamo che non c’è modo di rimediare alla caratteristica suprema della nostra vita fisiologica e mentale, che consiste in un grado irrimediabile di contagiabilità. La solitudine degli antichi saggi è diventata una strada impraticabile, una specie di mito psicologico. Forse l’unica vera risorsa che ci resta è quella di andare a scuola dalla peste, combattere il contagio con le sue stesse armi.
È l’idea che mi ispira quello che, in tutta la sterminata letteratura sulle epidemie, mi sembra il racconto più ricco di senso, e misterioso. Si tratta di poche righe del libro VII delle Storie di Tito Livio. Nel 364 avanti Cristo, una pestilenza molto aggressiva aveva messo Roma in ginocchio. Non si sapeva più quale dio implorare. Ai due consoli in carica viene una di quelle idee che solo la disperazione sa suggerire. Su invito delle autorità romane, arrivò in città dall’Etruria una compagnia di attori. I Romani, ci ricorda Livio, in quei tempi di sobrietà repubblicana erano guerrieri che al massimo si concedevano i rozzi piaceri del circo. L’impressione prodotta da quegli uomini e quelle donne che si aggiravano nelle strade silenziose della città infestata dovette essere di stupore e meraviglia. Non facevano nulla di speciale, osserva Livio, limitandosi a suonare il flauto e a mimare qualche azione stereotipata. Probabilmente non si trattava di una rappresentazione molto castigata. Ma la cosa più importante è che i giovani romani iniziarono a imitarli. Si scambiavano versi rozzi, destinati a suscitare il riso, e provavano a muoversi in modo adeguato alle cose che dicevano. Quei misteriosi stranieri avevano portato nelle mura di Roma il bacillo del teatro.
C’è molto da meditare su questa strana notizia che già ai tempi di Livio proveniva da un passato ormai remoto. Quello che ci racconta il grande storico è il sorgere di una forza contraria là dove tutto cospirava alla fine: un contagio nel contagio. Non è stata ancora trovata una strategia più efficace di questa.

Corriere La Lettura 14.2.16
All’origine dell’ira
Che cosa sono gli scoppi di collera? Si tratta di qualcosa anticamente finalizzato alla nostra sicurezza che oggi può addirittura metterla a repentaglio. Perché? Perché il cervello si è formato per dare risposte rapide a situazioni pericolose, non per essere logico. Perciò non sempre distinguiamo bene e male
di Leonardo Boncinelli


Quando ero piccolo mio padre inveiva spesso contro i mercanti di armi — «di cannoni», diceva lui — che riteneva essere all’origine di tutte le guerre. A quell’epoca io non avevo la più pallida idea di che cosa fosse la biologia — l’ho scoperta solo a 25 anni! — e ancora meno la biologia del comportamento, ma la faccenda non mi quadrava affatto. Mi pareva semplicistica, antistorica e poco aderente all’osservazione della ordinaria microconflittualità quotidiana di tutti contro tutti, suscettibile di alcuni improvvisi incredibili inasprimenti. A parte il fatto che non esiste alcun fenomeno che abbia un’unica causa, sarebbe stato opportuno, pensavo, chiedersi se la conflittualità tra individui non avesse anche una qualche base biologica, oltre che storica.
A metà gennaio la rivista «Science» ha pubblicato una recensione del libro Why we snap , cioè «Perché scattiamo. Comprendere il circuito della collera nel nostro cervello» di R. Douglas Fields (Dutton, 2015). In questa lunga recensione, Pascal Wallisch, psicologo dell’Università di New York, tocca molti dei temi connessi all’argomento, a partire dalla nostra cosiddetta razionalità e dalla nostra scarsa linearità di comportamento. Lo studio delle dinamiche economiche assume che queste vedano come attore principale un essere umano dotato di specifiche qualità, che è stato convenzionalmente definito homo oeconomicus . La caratteristica fondamentale di costui o di costei è quella di agire sempre razionalmente e lucidamente, in modo da massimizzare il proprio guadagno, tenendo conto delle condizioni in cui si trova a operare. Si tratta ovviamente di una idealizzazione — come quelle di un moto in assenza di attrito, di gas ideale e di corpo solido — utile per impostare un’analisi dei processi economici che si osservano nelle varie situazioni.
Le neuroscienze ci hanno insegnato però negli ultimi trent’anni che nessuno di noi si può comportare così in ogni situazione, non solo in pratica, ma nemmeno in teoria. Perché? Perché ciascuno di noi possiede una sorta di «razionalità limitata», limitata per almeno due ragioni. Perché, anche se fosse perfetta, la nostra razionalità dovrebbe sempre fare i conti con l’interferenza del nostro onnipresente universo emotivo, e soprattutto perché la razionalità di ciascuno di noi è gravemente imperfetta e mostra specifiche «falle», vere e proprie «illusioni cognitive», che ci inducono spesso a fare scelte sbagliate, soprattutto, va detto, se si deve decidere in fretta e in condizioni di stress.
Tanto per giocare, sottoponetevi a questo semplice problemino, abbastanza noto e di cui s’è già scritto su «la Lettura». Un tifoso compra insieme una felpa e un distintivo della propria squadra preferita. Per comprare le due cose, spende 110 euro. Se la felpa è costata 100 euro più del distintivo, quanto è costato il distintivo? Provate a rispondere e vedrete che molti di voi daranno una risposta sbagliata, non perché siate stupidi, ma perché il nostro cervello funziona bene soltanto fino a un certo punto, a meno che non lo si metta alla frusta. Cosa che spesso non si fa e che è, per esempio, all’origine del fatto che le cose costino 4,99 euro invece che 5. E questi non sono che alcuni esempi elementari.
Colui che ha il merito principale di avere scoperto queste sorprendenti proprietà del nostro cervello, Daniel Kahneman, ha ottenuto un premio Nobel per la sua scoperta. L’andamento dell’economia mondiale degli ultimi anni, d’altra parte, ha messo drammaticamente a nudo quanto difettosi, oltre che improvvidamente emotivi, siano i ragionamenti di cui sono capaci anche i migliori operatori di mercato. Considerazioni del genere sono ormai all’ordine del giorno e ne è anche nata una nuova scienza, la neuroeconomia.
Ma qual è il motivo per cui il ragionamento degli individui ha tutte queste defaillance ? La risposta è semplice. Quando il nostro cervello si è formato e perfezionato non esistevano partite di scacchi, indovinelli logici o agenti delle assicurazioni, mentre esisteva un enorme numero di situazioni pericolose dove era richiesta una pronta valutazione delle condizioni ambientali e una decisione molto spedita. La nostra mente doveva essere veloce a valutare, e capace di decisioni tempestive, piuttosto che logicamente ineccepibili. Noi abbiamo ereditato un cervello di questo tipo e quello usiamo anche oggi che le condizioni esterne sono tanto diverse. Ci vorranno millenni, se ci saranno, perché quello cambi e ci dobbiamo arrangiare con ciò che abbiamo, ovvero un buon compromesso fra prontezza e rigore. Il fatto poi che possediamo una matematica e perfino una logica, una disciplina nata anzi praticamente adulta già venticinque secoli fa, deriva dal fatto che non esiste al mondo un unico individuo, ma una moltitudine di persone che, agendo collettivamente, riescono a sopperire ai difetti logici di ciascuno di noi.
Se si vogliono veramente comprendere molte delle nostre caratteristiche occorre spesso mettere la questione in prospettiva e considerarla da un punto di vista evoluzionistico, anche se con le dovute cautele.
Lo stesso vale per i nostri inopinati scatti di collera, per le nostre ostilità, sorde o conclamate, e la nostra perdurante e logorante conflittualità sociale. Negarlo serve solamente a impedirci di comprendere e magari porre rimedio, perché comprendere è sempre necessario anche per poter cambiare le cose e renderle più in linea con i nostri desideri. Non basta desiderarlo, sperarlo o prometterlo, come fanno molto spesso i promettitori di professione, iperbolici reclamizzatori del nulla.
Anche per quanto riguarda gli scoppi d’ira, rari fortunatamente, ma talvolta disastrosi e spesso memorabili anche per chi vi è stato coinvolto, è possibile individuare un’origine evolutiva, che può anche rivelare il suo volto paradossale: qualcosa originariamente finalizzato a proteggere la nostra sicurezza, la può mettere gravemente a rischio nel mondo di oggi, e comunque spingerci a comportamenti inappropriati alla situazione. Nove sembrano essere le situazioni più indicate per scatenare la nostra collera: una minaccia per la nostra vita oppure per parti del nostro corpo; una minaccia per il partner o altri membri della famiglia oppure anche per il gruppo di appartenenza; insulti a noi oppure all’ordinamento sociale; un tentativo di invadere il nostro territorio oppure di appropriarsi di roba nostra; e infine una qualche forma di costrizione che ci impedisca libertà d’azione. Sopravvivenza, quindi, e integrità per noi e le persone a noi più vicine, territorialità in senso proprio o esteso, e libertà di manovra materiale e virtuale, sono, non sorprendentemente, le questioni sul tavolo, alle quali teniamo sopra a tutto il resto. A queste aggiungerei almeno l’intransigenza per una mancanza di rispetto e di considerazione, istanza molto sentita oggi in un mondo dominato dalla conoscenza e dalla comunicazione.
Che cosa mette in moto tutto questo? Mette in moto una serie di aree cerebrali connesse con l’emotività, dopo una valutazione prettamente emotiva mediata dall’amigdala e una più meditata operata dell’ippocampo. A seguito di tutto ciò si passa o non si passa all’azione, in dipendenza della gravità degli stimoli, della situazione complessiva e dell’indole del soggetto implicato, il cui comportamento può anche variare da momento a momento.
Questo è quello che accade dentro di noi. Su questo va poi esercitata un’eventuale azione inibitoria da parte della corteccia cerebrale e della nostra cosiddetta razionalità, sulla base della nostra indole e dell’educazione che abbiamo ricevuto. La cosa può magari essere egregiamente arginata centinaia di volte e manifestarsi più o meno clamorosamente soltanto una o due volte. Spesso senza una concreta possibilità di prevedere. Oppure restare a «bollire in pentola» per anni senza manifestazione alcuna e magari «esplodere» all’improvviso, con atti concreti di ostilità o con decisioni altrettanto inconfondibili verso questo o quello oppure questi o quelli, anche mai incontrati di persona.
Il quadro è essenzialmente questo, e non c’è dubbio che contrasti un po’ con la concezione tipica della nostra cultura, figlia della filosofia occidentale e riflessa nelle norme del diritto, che considerano l’uomo come capace di distinguere chiaramente il bene dal male e quindi pienamente responsabile delle proprie azioni e dei propri errori.
L’autore fa notare però che molte di queste idee sono state elaborate per via speculativa secoli e secoli prima dello sviluppo delle moderne neuroscienze. Viene quasi da pensare che per molta filosofia valga quanto abbiamo detto di certe istanze biologiche: erano fondamentali e di grande utilità una volta; possono essere di dubbia utilità o anche d’intralcio oggi. Un po’ di quello che ci hanno insegnato le neuroscienze potrebbe essere perciò proficuamente incorporato nelle nostre concezioni correnti.

Corriere La Lettura 14.2.16
L’ambiente «innesca» i geni. Così possono esplodere comportamenti antisociali
Le violenze sui bambini e le violenze da grandi
di Giuseppe Remuzzi


Geni o ambiente? Il solito problema mai risolto che questa volta si applica a chi ha subito violenza da piccolo. Questi bambini, dall’adolescenza in poi possono avere comportamenti antisociali e qualcuno diventa persino aggressivo o commette dei crimini. Non tutti però, molti di loro avranno una vita normale, socievoli o meno si capisce, ma come tutti gli altri.
Perché qualcuno di loro sì e qualcuno no? Non lo sa nessuno. Potrebbe dipendere dai geni di cui si sa qualcosa ma non tutto, oppure dall’ambiente, dai genitori per esempio o dalle persone che frequentano o dalla scuola e dalle possibilità economiche. Come orientarsi?
Provate a chiedere a un genetista, vi dirà quasi sicuramente che tutto dipende dal Dna; poi fate la stessa domanda a uno psicologo, vi risponderà che è tutta questione di ambiente, quello in cui questi ragazzi sono cresciuti. Insomma siete al punto di prima, chi ha ragione? Tutti e due almeno un po’. Il fatto è che per rispondere a domande così bisognerebbe aver studiato il problema in modo molto più approfondito di come è stato fatto finora. Ci vorrebbero dati su varie popolazioni di ragazzi e si dovrebbero poter confrontare quelli che hanno avuto un’infanzia felice con chi invece ha subito violenza e il comportamento di questi ragazzi poi andrebbe seguito nel tempo e lo si dovrebbe poter fare per un periodo abbastanza lungo. Difficile, ma non impossibile, tanto che ricercatori del Canada — il lavoro è pubblicato su «The British Journal of Psychiatry» di questi giorni — ci sono riusciti. Hanno preso in esame più di tremila ragazzi, la maggior parte di loro con una vita del tutto normale fin da piccoli, ma c’era anche chi aveva avuto un’infanzia difficile. L’obiettivo di tutto questo poi era di studiare l’influenza dei geni sul comportamento che i ragazzi avrebbero avuto negli anni successivi. I ricercatori non potevano certo studiare l’intero genoma — almeno 30 mila geni con interazioni estremamente articolate tra loro e sistemi di regolazione che rendono tutto ancora più complicato — perché mettere in rapporto una o più alterazioni genetiche con diversi comportamenti è più difficile che cercare l’ago nel pagliaio. Così hanno fatto riferimento a un lavoro precedente pubblicato su «Science» da un gruppo di psichiatri inglesi, americani e neozelandesi che aveva già dimostrato come i comportamenti antisociali di chi aveva subito violenza da piccolo dipendevano soprattutto da un gene che presiede alla sintesi di una proteina: monoaminossidasi A (MAOA) — si tratta di un enzima che degrada noradrenalina, serotonina e dopamina, ormoni che funzionano come «neurotrasmettitori», aiutano cioè i neuroni a dialogare fra loro e in questo modo governano emozioni, tono dell’umore ma anche depressione, rabbia e tanto d’altro.
Una volta deciso di concentrarsi su quel gene, il resto diventava più facile. Si trattava di mettere in rapporto certe variazioni (i medici dicono polimorfismi) del gene MAOA con il comportamento dei ragazzi nel tempo confrontando chi aveva subito violenza da piccolo con gli altri.
La prima informazione che viene fuori da questo studio — e non è di poco conto — è che essere esposti a violenza da piccoli aumenta davvero la probabilità di sviluppare con il tempo una personalità antisociale fino ad arrivare, per qualcuno di questi, a comportamenti aggressivi, in famiglia per esempio o con il partner. Fin qui non c’è niente di nuovo e ci si poteva arrivare con il buon senso, ma il rigore con cui è stato condotto questo studio e il tempo di osservazione così prolungato ci consentono oggi di avere qualche certezza in più.
Un’altra informazione importante che emerge dallo studio canadese è che la variazione del gene MAOA, proprio quello identificato più di dieci anni fa su «Science», influenza in modo importante l’eventuale comportamento antisociale di chi ha subito violenza da piccolo. Questo polimorfismo ce l’ha il 30 per cento della popolazione e sono proprio i portatori di questa variazione ad avere alla lunga le maggiori difficoltà di rapporto con gli altri.
Ma l’informazione forse più importante che emerge da questo studio è che la variazione genetica da sola non basta a scatenare comportamenti antisociali. L’effetto negativo dell’alterazione genetica sul comportamento si esprime solo in contesti molto particolari che configurano di fatto circostanze ambientali sfavorevoli. Così la domanda che c’eravamo posti all’inizio (vale per questo ma per tantissime altre condizioni in cui ci si interroga sull’influenza dei geni rispetto all’ambiente) andrebbe posta in un altro modo: «Com’è che l’ambiente può modificare l’espressione o la funzione di certi geni?». Più si studia e più ci si rende conto che non ci sono comportamenti che dipendono dai geni e comportamenti che dipendono dall’ambiente. Ci sono piuttosto predisposizioni genetiche che consentono in circostanze ambientali particolari di sviluppare certi comportamenti piuttosto che altri. Ed è vero anche il contrario. Capita che l’ambiente possa influenzare attraverso modifiche che i medici chiamano epigenetiche, l’espressione di certi geni e questo si traduce in comportamenti diversi a seconda delle circostanze.
Insomma, nel caso dei bambini che hanno subito violenza da piccoli non bastano i geni per sviluppare comportamenti antisociali e altre forme di labilità psichica: ci vogliono circostanze ambientali sfavorevoli. Il termine «ambiente» però è un po’ vago. Il passo successivo rispetto allo studio del «British Journal of Psychiatry» sarà quello di capire quali sono queste circostanze ambientali sfavorevoli e come si possono prevenire i comportamenti antisociali ed eventualmente aggressivi. E non è solo una curiosità; il giorno che riusciremo a capirlo la vita di questi ragazzi potrebbe cambiare.

Corriere La Lettura 14.2.16
Due ipotesi. Predatori o impulsivi
di Giancarlo Dimaggio


Lo farà ancora? Di fronte alla violenza è l’unica domanda che mi interessa. Chi ha picchiato, rubato, stuprato, ucciso recidiverà? La sfida è a tre livelli: prevedere, prevenire e curare. È di quelle responsabilità che fanno tremare le vene dei polsi. Distinguerò tra un ragazzo geloso e un vero stalker? Terrò in carcere un soggetto che invece, se aiutato, sarebbe libero dall’impero della rabbia? Consiglierò la libertà di un uomo che con quasi certezza tornerà alla violenza? I miei strumenti saranno capaci di cambiare quelli la cui aggressività può essere controllata? Lontani dal seminare certezze, abbiamo conoscenze da offrire. La prima: si può, grosso modo, classificare il comportamento aggressivo in premeditato e impulsivo. L’aggressione premeditata è deliberata, eseguita anche a freddo. È predatoria: l’obiettivo è garantirsi risorse. Denaro, status, partner sessuali. Si attiva perché c’è una preda in vista, tipo una ragazza desiderabile. Oppure perché un pericolo minaccia i propri possedimenti. Mi hai sfidato? Vuoi sottrarmi la donna, controllare il territorio in cui spaccio? Peggio per te, devo sottometterti. Con ogni mezzo. Come diceva Pablo Escobar, il boss del cartello di Medellín ritratto nel telefilm Narcos : «Plata o plomo». Soldi o piombo. L’aggressore premeditato corrisponde quasi del tutto al profilo dello psicopatico, personalità a sangue freddo, incapace di rimorso, disinteressato al dolore degli altri. Siamo chiari: per questo tipo di personalità, gli strumenti di cura sono spuntati, inutile provarci. In sua presenza, l’obiettivo è proteggere la comunità. Allo stato attuale delle conoscenze l’idea che si debba tentare di riabilitarla è moralismo d’accatto, il prezzo lo pagano le vittime future. Altra storia è l’aggressione impulsiva, lì il terapeuta può agire. Con Patrizia Velotti, curatrice del libro Comprendere il Male (il Mulino), ho svolto una ricerca pubblicata su «Comprehensive Psychiatry». Emergevano due profili di comportamento antisociale. Il primo: gli aggressivi di natura. La loro violenza è indipendente dalla capacità di osservare il proprio animo. Predatori, potenziali psicopatici. Il secondo: persone con minor tasso di aggressività, che tendevano al comportamento antisociale soprattutto in presenza di scarse capacità di osservarsi: tecnicamente le chiamiamo bassa mentalizzazione, metacognizione o mindfulness . Come funziona? Semplice: subiscono un torto. Gli va il sangue al cervello e aggrediscono, senza pensare. È il profilo dell’aggressore impulsivo. Ma, tra minaccia percepita e attacco, la mente ha un tempo di latenza, in cui si può inserire lo psicoterapeuta. Li si porti allora a soffermarsi sul dolore provato prima di aggredire l’altro e, quando lo intravedono, li si aiuti a cercare altre strade per placarlo. Possono capire che il torto non era grave, che la mancanza di attenzione della compagna non era un’offesa irreparabile e, invece di reagire con violenza, è possibile dialogare. Scoprono che quella ferita si può lenire, l’aggressione diventa superflua.

Corriere La Lettura 14.2.16
C’è del rischio in Danimarca
Grøndahl: il modello scandinavo si regge su equilibri sottili E i migranti li devono accettare, il multiculturalismo è finito
La legge sulla confisca di beni ai profughi, la tenuta del welfare, la costruzione di nuove frontiere: conversazione con lo scrittore che è appena stato a Lampedusa per capire cosa sta succedendo all’Europa
colloquio con Donatella De Cesare


La Danimarca è per noi il paesaggio fiabesco di Andersen, dei personaggi che hanno animato la nostra infanzia, così reali da resistere anche nell’epoca del virtuale. Ma è anche il modello della socialdemocrazia, dello Stato sociale che pensa ai cittadini, e dei cittadini che contraccambiano con fiducia. Come dimenticare, poi, il Paese europeo che ha salvato i suoi ebrei? Tuttavia, l’immagine della Danimarca, già scalfita dall’emergere di forze xenofobe, appare oggi, agli occhi di molti italiani, sotto una luce inquietante. Ha destato scalpore e sdegno l’introduzione della legge, varata il 26 gennaio dal Parlamento danese, che prevede la confisca dei beni ai profughi. Jens Christian Grøndahl, lei è tra le voci più autorevoli e apprezzate della letteratura danese contemporanea. Che cosa ne pensa di questa legge? Non trova che sia la negazione stessa di ogni etica?
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL — Come altri Paesi, la Danimarca deve far fronte a un numero enorme di richiedenti asilo, dei quali più della metà emigranti in cerca di una vita migliore. Quel che infastidisce, nella nuova legge, è l’obiettivo: fare in modo che i rifugiati non vengano da noi. Certo, è disumano costringere chi ha ottenuto asilo ad aspettare non più un anno, ma tre, prima di chiamare a sé la propria famiglia. Ed è anche molto goffo, quasi surreale, pretendere che i poliziotti confischino i beni. Bisogna dire, però, che la legge è stata modificata e che ora non è previsto il sequestro di fedi nuziali e oggetti di valore affettivo. Leggi simili sono già applicate in Norvegia, Olanda, Austria e in alcuni Länder tedeschi. Ma questo, purtroppo, è il punto a cui siamo. Come il resto d’Europa, anche la Danimarca paga il prezzo per non essere stata in grado di cooperare, per aver permesso che il trattato di Dublino andasse a rotoli.
DONATELLA DI CESARE — A me sembra che il trattato di Dublino, purtroppo ancora vigente, secondo il quale l’identificazione avviene solo nel Paese d’ingresso, oltre a danneggiare i profughi, sia andato a scapito dell’Italia e della Grecia. E poi, una cosa è pretendere le tasse dai cittadini, altra è confiscare denaro e preziosi a chi cerca rifugio.
Per tornare, però, allo Stato sociale: ritiene che si debba parlare di una crisi del modello scandinavo?
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL — Lo Stato sociale è estremamente costoso. Sebbene le tasse raggiungano ormai più della metà delle nostre entrate, la domanda crescente di servizi non può più trovare risposta. Il welfare poggia su un contratto sociale molto sottile, su una fiducia elevata fra cittadini e istituzioni, su un equilibrio delicato tra diritti e doveri. Dal punto di vista degli italiani capisco che il welfare danese possa apparire estremamente generoso. E in effetti lo è. Ma si basa anche sull’obbligo dei singoli cittadini.
DONATELLA DI CESARE — Di recente il filosofo tedesco Peter Sloterdijk ha criticato la politica di Angela Merkel, sostenendo che «abbiamo bisogno di frontiere» e che i limiti sono fatti per essere rispettati. Difende, insomma, lo Stato-nazione. Non posso in nessun modo concordare con lui su questo. Credo, al contrario, che tutti noi europei non avremmo mai dovuto permettere i muri e il filo spinato, in Ungheria e altrove. Lei pensa che abbiamo bisogno di frontiere?
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL — Le tragedie del Mediterraneo non sarebbero accadute, se solo l’Europa avesse agito all’unisono, stabilendo il modo per condividere il peso e la responsabilità di accogliere i profughi, integrando quelli che hanno diritto ad avere protezione e mandando indietro quelli che non lo hanno. Il problema è che i rifugiati preferiscono chiedere asilo in Svezia o in Germania piuttosto che in altri Paesi.
Abbiamo bisogno di frontiere? Solo in una prospettiva logistica ed economica. E queste sono preoccupazioni reali. Pur nel nostro ruolo di intellettuali, non dobbiamo dimenticare i problemi pratici che i nostri politici devono affrontare. Tuttavia, finiremmo per squalificarci, sotto un profilo morale e culturale, se ci facessimo assalire dalla paura solo perché ci sono persone per le quali l’Europa è sinonimo di speranza. Credo che dovremmo restare aperti verso tutti coloro che desiderano dare il loro contributo alla vita sociale, ma dovremmo anche far sì che condividano i valori universali della democrazia e si lascino alle spalle quei costumi che non sono compatibili con le norme di una moderna società secolarizzata.
DONATELLA DI CESARE — Ho molte perplessità quando si parla di «valori universali». Se c’è un progetto che ha fallito, è l’universalismo. La ragione universale è sempre la propria — mai quella altrui. Sono stata di recente in Danimarca e ho avuto l’impressione che il razzismo sia in agguato e l’antisemitismo sia un fenomeno esplosivo. Basti ricordare l’attacco terroristico contro la sinagoga di Copenaghen il 15 febbraio di un anno fa.
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL — Non credo che il razzismo sia un problema importante in Danimarca. Ci si può imbattere in una certa xenofobia, dovuta al fatto che la Danimarca è rimasta etnicamente omogenea e geograficamente isolata. È vero, però, che l’antisemitismo ha trovato nuove espressioni. Una di queste è l’antisionismo della sinistra: la critica alla occupazione dei territori porta a modalità nuove, talvolta quasi impercettibili, con cui si mette in questione il diritto di Israele a esistere. Inoltre c’è un antisemitismo latente fra i musulmani, che rappresenta il pericolo più grave. In alcuni quartieri di Copenaghen gli ebrei non possono camminare senza il timore di essere insultati. Lo stesso avviene, d’altronde, per i gay. Gli omosessuali hanno uguali diritti in Danimarca — e di ciò siamo orgogliosi.
Ecco le questioni rilevanti. Perciò, a mio avviso, il multiculturalismo può dirsi finito.
DONATELLA DI CESARE — Nei suoi racconti le donne sono spesso protagoniste. Sono donne fragili, ma anche capaci di giocare ruoli diversi, sul lavoro e nella vita privata. Come se potessero per questo attingere a una fonte antica, quasi preclusa agli uomini. Penso alla figura di Ingrid Dreyer nel suo romanzo Quattro giorni di marzo .
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL — Appartengo a una generazione di uomini che sono già figli dell’emancipazione. Quattro giorni di marzo si basa sulla storia di mia madre, che ha divorziato da mio padre e ha lasciato la famiglia per seguire la carriera di fotografa e diventare se stessa in modo più compiuto. È stato doloroso, ma la simpatia per le sue scelte di vita fa parte della mia formazione. Questo spiega forse perché i miei romanzi abbiano spesso come protagonista una donna forte, emancipata, ma che avverte anche la solitudine, l’angoscia, i dubbi che formano il lato oscuro della libertà. Nel libro descrivo tre generazioni di donne che si dibattono nel conflitto tra la realizzazione personale e la responsabilità. Di qui ho tratto ispirazione per la mia scrittura. E ho deciso che il mio ruolo sarebbe stato giocato da un personaggio femminile. Immagino spesso di scrivere dal punto di vista di una donna. Certo, in quanto uomini e donne siamo differenti. Ma non dobbiamo ridurci ai nostri generi. La letteratura dischiude la nostra immaginazione, come scrittori e come lettori; ci permette di immedesimarci e soprattutto ci ricorda che dell’altro conosciamo molto più di quel che siamo disposti ad ammettere.
DONATELLA DI CESARE — L’emancipazione delle donne è per lei un punto di non ritorno...
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL — Esatto. Gli assalti sessuali a Colonia sono un campanello d’allarme. L’uguaglianza è il cuore stesso della società danese, dove uomini e donne preferiscono il presente, con i suoi conflitti e dilemmi, rispetto al passato patriarcale. Ogni rifugiato dovrà separasi da questa parte della sua cultura che gli impedisce il rispetto per le donne. Lo dobbiamo a noi stessi e lo dobbiamo alle donne che vengono da culture basate sulla repressione e la violenza.
DONATELLA DI CESARE — Eppure, come forse saprà, la violenza sulle donne si consuma quasi quotidianamente anche in Italia.
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL — Sono costernato. Penso che tutti gli uomini dovrebbero sentirsi responsabili. È sbagliato accettare che una certa dose di aggressività latente faccia parte del make up psicologico maschile. Non c’è quasi uomo che non si senta intimidito dalle donne autonome. Può scegliere allora di reagire con la violenza — o con le armi più sottili del disprezzo e dell’arroganza. È la conferma che aveva tutti i motivi per sentirsi inferiore. Oppure può liberarsi dall’idea di dover essere superiore e dominante. Ma non si deve sottovalutare il timore profondo che gli uomini nutrono per la sessualità femminile. Cultura non è forse altro che il controllo esercitato dagli uomini sulla forza bruta di fronte al desiderio femminile.
DONATELLA DI CESARE — Lei viene spesso in Italia. Anche per scrivere. In cerca, dunque, di ispirazione. Certo, non di tranquillità...
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL — Vengo in Italia da quando avevo 14 anni. Ricordo ancora quando a Firenze ho ammirato la prima volta dalle colline la cupola di Brunelleschi. Un’epifania. Ho sempre la sensazione strana di tornare a casa. È una questione, per dirla con Goethe, di «affinità elettive». Di solito vengo sempre a Roma — per scrivere, camminare, pensare. Ho un grande rispetto per il vostro stile di vita, la cura dei dettagli. Solleva l’anima.
DONATELLA DI CESARE — Eppure i problemi non mancano. Se penso agli studenti universitari che hanno dovuto andare via! Qui mancano i fondi per la ricerca. Alcuni sono anche nelle vostre università.
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL — Mi rattrista moltissimo che così tanti giovani abbiano difficoltà a trovare un lavoro, a costruirsi una famiglia. Le generazioni più vecchie non vogliono mettersi da parte?
DONATELLA DI CESARE — Nei giorni scorsi lei è stato a Lampedusa...
JENS CHRISTIAN GRØNDAHL — Due anni fa, nel mio ultimo soggiorno a Roma, ho scritto un lungo saggio sull’identità europea. Questa volta cerco di proseguire quelle riflessioni provando a comprendere meglio le sfide che ci aspettano. In che modo la crisi dei rifugiati ha cambiato la percezione che abbiamo di noi stessi, come italiani, come danesi, e come europei? A Lampedusa ho incontrato autorità municipali e cittadini. Voglio capire cosa è avvenuto in una comunità così minuscola, lontana dalla terraferma; voglio stare letteralmente nel mezzo della tragedia. Per una volta, dunque, lo scrittore resta in silenzio e si mette in ascolto.

Corriere La Lettura 14.2.16
Tutto accade, persino Dio
Nel confronto tra gli studiosi di varie scuole si attenua la distinzione tra evento e oggetto, già messa in dubbio da Tommaso d’Aquino: anche l’eternità del Creatore viene vista in maniera dinamica
di Giovanni Ventimiglia


Quando nell’ormai lontano 1983 giunsi a Milano dalla Sicilia per studiare all’università, feci ben presto due scoperte interessanti: la prima era che a Milano, a differenza che al Sud, non si faceva distinzione fra il «lavoro» e la «festa», dal momento che le feste erano addirittura organizzate da chi, per lavoro, organizzava feste; la seconda era che le feste non si chiamavano «feste» ma «eventi» (e l’«organizzatore di eventi» sembrava a tanti il top della scala sociale). Molti anni sono passati da allora, ma la parola «evento» è ancora lì. Anzi, l’«evento» sembra diventato il simbolo stesso della cultura contemporanea, la cifra dell’effimero, che oggi c’è, e fa notizia, e domani non c’è più. Da Expo alla notte delle lanterne l’«evento» impazza. Persino molti profili di Facebook (letteralmente «libro delle facce», cioè di persone) sono nient’altro che «eventi».
Che cosa pensano del concetto di «evento» i filosofi? Se consultiamo due testi autorevoli in proposito, ossia l’ Enciclopedia filosofica Bompiani e la nota Stanford Encyclopedia of Philosophy online non possiamo che rimanere confusi e delusi. La stessa voce, infatti, sembra parlare, nei due testi, di cose completamente diverse, riferendosi in ogni caso ad autori diversi: il lemma «evento» dell’ Enciclopedia filosofica tratta brevemente di Aristotele e degli Stoici, per poi saltare ai contemporanei Henri Bergson, Alfred North Whitehead, Martin Heidegger (su cui si sofferma giustamente a lungo), Emmanuel Lévinas, Maurice Merleau-Ponty, Hans-Georg Gadamer, Paul Ricoeur, Henri Maldiney; la voce «events», invece, della Stanford Encyclopedia , riferisce solo il pensiero di filosofi anglosassoni analitici contemporanei, come per esempio Roderick Chisholm, Willard Van Orman Quine, Nelson Goodman, David Lewis, Theodore Sider, spingendosi all’indietro nella storia della filosofia fino — addirittura! — a un testo di Bertrand Russell del 1914.
D’altra parte, entrambe le voci tengono a chiarire che l’«evento» è una categoria tipica della filosofia contemporanea. Sarà, ma la domanda sorge spontanea: quale «filosofia contemporanea»? Perché di certo quelle voci sembrano appartenere a due «filosofie contemporanee» del tutto differenti.
È un ennesimo esempio della distanza che ancora oggi separa il pianeta della filosofia «continentale» da quello della filosofia «analitica» anglosassone. Sembrano due linee parallele che, per definizione, non s’incontrano mai.
Ma è veramente così? Se si ha la pazienza di andare al di là del gergo tipico di ognuna delle due «filosofie», si fanno scoperte interessanti. In entrambi i casi, per esempio, l’«evento» è descritto come ciò che «accade» ( happens , geschieht , sich ereignet ), a differenza dell’«oggetto», che «esiste» e basta (non si dice, infatti, di un albero, che «accade»). L’«evento», inoltre, è interpretato come la sostantivizzazione di un verbo, il quale, com’è noto, si coniuga (per esempio la «festa» è la sostantivizzazione di «festeggiare», che si coniuga anche al passato «festeggiammo» o al futuro «festeggeremo»); l’«oggetto» invece è espresso da sostantivi, che non si coniugano («Ambrogio» non deriva da «ambrogiare» o «fico» da «ficheggiare»).
Di conseguenza l’«evento» ha, in entrambe le tradizioni di pensiero, un rapporto essenziale con il tempo, cioè è intrinsecamente temporale; l’«oggetto», al contrario, esiste nel tempo, allo stesso modo con cui esso esiste nello spazio (in altre parole il tempo è estrinseco all’oggetto come il luogo in cui si trova accidentalmente a essere). Ora, quasi tutti i filosofi «esistenzialisti» contemporanei e buona parte dei filosofi «analitici» (soprattutto i cosiddetti «quadridimensionalisti» come Quine) concordano nel dare il primato agli eventi rispetto agli oggetti e, di più, nell’interpretare gli oggetti come (nient’altro che) «eventi» — solo più monotoni! Insomma, ogni essere è un evento o, se si vuole, l’essere è tempo — spesso addirittura anche al di fuori del continente europeo.
Inoltre, quasi tutti i filosofi, di entrambe le tradizioni, hanno come obiettivo polemico la metafisica classica aristotelico-tomistica («ontoteologica» per i «continentali» e «tridimensionalista» per gli analitici), accusata di interpretare ciò che è come qualcosa che non accade temporalmente, e quindi come qualcosa in sé di statico, indiveniente, timeless , inerte.
Stando così le cose, il senso di confusione e di spaesamento di fronte ai due lemmi nelle due diverse enciclopedie potrebbe diminuire, per far posto alla gioia di una nuova inedita intesa fra filosofi apparentemente lontanissimi. Ora però, siccome il fine della filosofia non è lo stesso della diplomazia internazionale, ossia non consiste nel costruire «ponti», firmare protocolli d’intesa e adoperarsi per la pace nel mondo, dovremmo chiederci a questo punto se la ritrovata unica «filosofia contemporanea» abbia ragione o no a proposito dell’evento.
Anzitutto, a livello della storia della filosofia, segnalo che Tommaso d’Aquino, il padre di quella scolastica ontoteologica vilipesa da più parti, ha scritto testualmente intorno alla metà del XIII secolo: « È , detto semplicemente, significa essere in atto; e perciò significa (qualcosa) nella modalità del verbo». E ha poi aggiunto che l’essere attuale, espresso dal verbo è , si coniuga come tutti i verbi: altro che essere come oggetto statico e timeless ! Dunque, bisognerebbe indagare più attentamente, mi pare, all’interno della metafisica classica, se per caso non vi siano perle di questo tipo — personalmente ne ho trovate diverse — prima di etichettarla come estranea all’idea dell’essenziale temporalità dell’essere.
Infine, e soprattutto, ci si dovrebbe interrogare su una questione di fondo, che nella sua forma sintetica suona così: se l’essere è essenzialmente evento temporale, che ne è della nozione di Dio come Essere sussistente? Delle due l’una: o l’idea di un Essere eterno è contraddittoria, oppure si deve rimettere in questione l’idea dell’eternità dell’essere di Dio.
Il filosofo Anthony Kenny (vedi «la Lettura» del 10 maggio 2015, #180) segue la prima ipotesi, considera la nozione di un Essere eterno contraddittoria e conclude che Dio non esiste. Molti filosofi di area continentale, invece, e poi soprattutto alcuni teologi contemporanei, come ad esempio Pavel Florenskij, Hans Urs von Balthasar, Klaus Hemmerle, Piero Coda, Gisbert Greshake, Eberhard Jüngel, ritengono di dover ripensare l’idea dell’eternità di Dio e parlano di Dio, specie a partire dal suo essere compagnia di tre persone, come Ereignis («Evento» o, meglio, «Avvenimento») dinamico, seppure sottratto alla contingenza e alla fugacità.
Per quanto mi riguarda mi sembra che dal superamento di una teoria statica dell’Essere non si possa tornare indietro (persino in Tommaso d’Aquino vi sono, di nuovo, indicazioni chiare in questa direzione, specialmente nei dimenticati trattati sulla Trinità, ricchissimi di riflessioni filosofiche). Certo, se non si può tornare indietro, non significa che si sia già arrivati, perché svincolare l’«evento» temporale dalla fugacità dell’«effimero» non è cosa filosoficamente semplice.
In ogni caso mi rallegro già al pensiero del punto di arrivo di questo nuovo cammino filosofico e teologico, ossia all’idea di un Dio dinamico, non inerte, non monotono, vivo insomma, un Dio, come scriveva Heidegger «di fronte a cui si può suonare musica e ballare». Chiederei solo per favore di non chiamarlo «evento» ma, piuttosto, se proprio si vuole, semplicemente «festa».

Corriere La Lettura 14.2.16
Il terzo Reich non ha vinto
di Antonio Carioti


In fatto di punizione dei crimini nazisti il bicchiere si può considerare mezzo pieno o mezzo vuoto. Rispetto ad altri massacri rimasti quasi o del tutto impuniti (stragi coloniali anche italiane, genocidio armeno, delitti staliniani e maoisti, atrocità compiute dai khmer rossi), in questo caso particolarmente grave è stata fatta giustizia in modo piuttosto ampio, con processi e condanne (alcune alla pena capitale) che proseguono ancora oggi. Ma è vero d’altronde che molti colpevoli l’hanno fatta franca, approfittando della guerra fredda e di altre circostanze favorevoli. Ci fu anche chi venne reclutato dai servizi occidentali, come il «boia di Lione» Klaus Barbie, processato solo nel 1987. Sono le vicende che Guido Caldiron ricostruisce con estrema cura nel libro I segreti del Quarto Reich (Newton Compton, pp. 476, e 12,90), denunciando le connivenze diffuse che agevolarono a molti livelli gli ex nazisti. Le accuse dell’autore al Vaticano, alla Cia, al presidente argentino Juan Domingo Perón e a diversi regimi arabi hanno un solido fondamento. Ne ha meno, da parte di Caldiron, agitare il fantasma di un’«Internazionale nera» e di un «Quarto Reich» o addirittura parlare di nazisti solo in apparenza sconfitti e in realtà usciti «vincitori» dalla guerra. La giustizia sarà stata in parte carente, ma il verdetto della storia non è stato alterato.

Corriere La Lettura 14.2.16
Irlanda 1916, la rivolta in versi
Un secolo fa l’insurrezione nazionalista di Pasqua infiammata dalle suggestioni letterarie celtiche
Il poeta Yeats prima condannò i ribelli, poi li esaltò
di John McCourt


Le celebrazioni
Mostre, cerimonie, convegni, spettacoli teatrali: è molto ricco il programma degli eventi organizzati nella Repubblica d’Irlanda per celebrare la rivolta del 1916, che pose le basi per la conquista dell’indipendenza. È interessante notare che le iniziative principali non si terranno il 24 aprile, data dell’insurrezione, ma alla fine di marzo, nel periodo pasquale, poiché i ribelli scelsero apposta Pasqua per entrare in azione, volendo collegare la risurrezione dell’Irlanda a quella di Gesù
Bibliografia
È uscito di recente in italia il libro di James Stephens L’insurrezione di Dublino, a cura di Riccardo Michelucci (traduzione di Enrico Terrinoni, Menthalia, pp. 150, e 12). La vicenda è inserita nel suo contesto dal saggio di Eugenio F. Biagini Storia dell’Irlanda dal 1845 ad oggi (Il Mulino)

Nel 1916 l’Irlanda si trovava in uno stallo politico pressoché totale. Il tanto desiderato Home Rule , che avrebbe garantito autonomia di governo al Paese, fu sì approvato dal Parlamento britannico, ma solo per venire immediatamente congelato dal governo Asquith che, impegnato nel primo conflitto mondiale in Europa, seguiva con scarsissima attenzione la situazione di crescente malcontento in Irlanda. A onor del vero due anni prima, allo scoppio della Grande guerra, il leader dell’Irish Parliamentary Party, John Redmond, aveva incoraggiato i giovani irlandesi ad arruolarsi nell’esercito britannico, e più di 200 mila avevano risposto all’appello: chi per motivi economici, chi per difendere il piccolo e cattolico Regno del Belgio invaso dai tedeschi e chi nella patriottica speranza che la partecipazione dell’Irlanda alla Grande guerra a fianco dell’impero avrebbe giovato alla causa dell’ Home Rule . Tanti morirono, molti tornarono mutilati, ma l’ Home Rule Bill rimase bloccato negli uffici di Westminster.
Al Nord, intanto, gli unionisti protestanti dell’Ulster, decisi a non farsi governare dalla maggioranza cattolica, si resero di fatto indipendenti, rafforzando le proprie posizioni e acquisendo ingenti quantità di armi. Al Sud, con il passare del tempo, e visto il quasi totale disinteresse inglese per la questione irlandese, vari gruppi di indipendentisti rivoluzionari (i Volunteers ) iniziarono a concepire l’idea di un’insurrezione armata. A capeggiare i ribelli furono soprattutto scrittori, poeti e intellettuali: personaggi come Patrick Pearse, poeta e insegnante sperimentale di lingua gaelica, Joseph Plunkett, letterato e curatore dell’«Irish Review», e Thomas MacDonagh, poeta e professore di letteratura inglese all’University College Dublin.
La rivolta, pianificata in gran segreto, ebbe inizio lunedì 24 aprile 1916 (era stata progettata per la domenica di Pasqua ma, in seguito a un diverbio fra gli organizzatori, venne posticipata al giorno dopo). La giornata fu scelta per la sua forte valenza simbolica: il popolo irlandese si sarebbe liberato dal giogo inglese come Cristo era risorto dalla morte.
Le azioni centrali della rivolta furono la conquista di una serie di luoghi simbolici a Dublino e la lettura pubblica della Proclamazione della Repubblica d’Irlanda davanti al General Post Office (Gpo, ufficio postale centrale) da parte di Pearse. Il poeta Stephen McKenna, che fu uno dei testimoni, descrisse il piccolo drappello di dublinesi che passava davanti al Gpo: «C’era chi ascoltava, chi scrollava le spalle, chi ridacchiava». La popolazione non colse subito l’enorme portata della rivolta e della Proclamazione, con la quale i sette firmatari — che affermavano di parlare a, e in nome di, tutte le donne e tutti gli uomini d’Irlanda — dichiararono la sovranità del popolo irlandese e l’istituzione di una repubblica che avrebbe garantito libertà religiosa e civile, nonché pari diritti e pari opportunità a tutti i cittadini (un impegno al suffragio universale davvero progressista per l’epoca). Era una ribellione mossa non solo dal desiderio di prendere il potere, ma anche e soprattutto dalla volontà di cambiare le cose dal basso e di reagire a secoli di mala amministrazione che avevano ridotto il Paese in una condizione di estrema povertà e disuguaglianza (di classe e di religione).
I ribelli riuscirono a resistere per alcuni giorni al contrattacco inglese e, come notò lo scrittore James Stephens in L’insurrezione di Dublino , «vi è un senso di gratitudine nei confronti dei Volunteers per il fatto che sono riusciti a resistere un po’ più a lungo, perché, se li avessero sconfitti il primo o il secondo giorno, la città sarebbe stata umiliata nel profondo». Nel giro di pochi giorni la ribellione fu brutalmente repressa: 20 mila i soldati impiegati dagli inglesi, con l’ausilio di navi da guerra, contro meno di duemila irlandesi, con poche armi e anche quelle obsolete. Le bombe dell’esercito inglese rasero al suolo il centro di Dublino e ben presto le speranze degli irlandesi furono un volta di più azzerate.
Questi eventi bellici furono accolti con indifferenza dalla stragrande maggioranza della popolazione locale (per lo più contraria a un’insurrezione armata), ma ebbero grande risonanza internazionale e vennero ad esempio visti favorevolmente da chi lottava per la causa indiana o da chi si adoperava per il rovesciamento dello zar.
A differenza, però, di tante altre ribellioni del passato, la rivolta di Pasqua del 1916 si trasformò ben presto in un’inaspettata e gigantesca vittoria morale e politica da quel confusionario e caotico spargimento di sangue che era inizialmente stata. Com’è stato possibile che un’ insurrezione nata quasi senza speranze sia diventata nel giro di poco tempo un grande successo politico? In gran parte ciò è dovuto al maldestro e assurdo intervento dell’esercito britannico: la scelta di giustiziare uno a uno i giovani leader della rivolta per dare un segno di forza e far sfoggio di muscoli imperiali provocò un fortissimo risentimento nella popolazione e si rivelò ben presto un boomerang micidiale. L’ultimo dei firmatari della Proclamazione ad essere giustiziato fu James Connolly, il quale, gravemente ferito e impossibilitato a camminare, fu portato davanti al plotone d’esecuzione in barella per poi essere legato a una sedia e fucilato: un caso che divenne emblematico e che provocò la reazione indignata anche dei più moderati e degli abitanti inizialmente ostili alla rivolta.
Connolly era nato e cresciuto in Scozia da genitori irlandesi, a 14 anni si era arruolato nell’esercito e aveva prestato servizio per sette anni in Irlanda; congedatosi, era poi diventato un importante sindacalista. Davanti alla corte marziale dichiarò: «Siamo riusciti a dimostrare che gli irlandesi sono pronti a morire per conquistare gli stessi diritti nazionali per i quali il governo britannico ci ha chiesto di morire in Belgio. Fintanto che le cose rimarranno così, la causa della libertà irlandese è al sicuro». Prima della sua esecuzione, MacDonagh scrisse: «Sento una felicità che non ho mai conosciuto prima. Morirò affinché la nazione irlandese possa vivere».
Oggi contempliamo gli eventi del 1916 anche con gli occhi del grande poeta e drammaturgo William Butler Yeats, premio Nobel per la letteratura nonché fondatore e figura centrale dell’Irish Literary Revival, un movimento culturale nato alla fine dell’Ottocento che tentò di riformulare in vari modi la complessa realtà dell’identità irlandese. Centrali a questo scopo furono la rinascita della lingua e della letteratura gaelica e il recupero delle tradizioni celtiche, andate perdute e spesso accessibili solo attraverso la lingua del colonizzatore (l’inglese).
Anni dopo, nella sua poesia L’uomo e l’eco , Yeats, riferendosi al suo dramma del 1902, Cathleen Ní Houlihan («Cathleen, figlia di Houlihan» ), si chiese: «Quel dramma che scrissi votò forse alla morte gli uomini che gli inglesi fucilarono?». Il poeta inglese W. H. Auden rispose affermando: «Poetry makes nothing happen» (la poesia non fa accadere nulla). Tuttavia, con buona pace di Auden, non c’è dubbio che, in un contesto di vuoto politico come era quello irlandese, letteratura e cultura svolsero un ruolo centrale, posero le basi e crearono le condizioni per la rivolta. Intorno al famoso Abbey Theatre, legato alla rinascita celtica, si formarono piccole compagnie teatrali, spesso ancora più politicizzate dell’Abbey stesso, che ebbero un peso enorme nel risvegliare le coscienze degli irlandesi.
A ispirare tante opere del periodo fu la figura di Robert Emmet, patriota irlandese che organizzò un’insurrezione armata nel 1803 e che fu arrestato, processato e impiccato. Pearse fu uno dei tanti che lodarono l’esempio di Emmet, e d’altra parte l’idea del sacrificio di sangue come atto necessario per rivoluzioni e rinascite era tipico della cultura del tempo, in Europa quanto in Irlanda. In The Singer («Il cantante», 1915) Pearse rappresentò il potere messianico della violenza sacrificale nelle esaltate parole del protagonista, che annuncia la propria volontà di sacrificarsi per un popolo troppo timoroso per morire per la libertà: «Un uomo solo può liberare un popolo, come un sol uomo ha salvato il mondo».
Sono parole, queste, che riecheggiano anche nella Proclamazione e furono da molti rifiutate con sdegno. Primo fra tutti Yeats, che si trovava in Inghilterra allo scoppio della rivolta e fu costretto a guardarla da spettatore; proprio allora, proprio nel momento in cui il «suo» teatro rivoluzionario si era trasformato di colpo, e forse inaspettatamente, in una rivoluzione teatrale. All’inizio il poeta ne rimase inorridito, ma pian piano cominciò a scorgere l’elemento eroico, tanto da arrivare a comporre, qualche anno dopo, la celeberrima Easter 1916 («Pasqua 1916»), sublime elegia per gli uomini e le donne che lui stesso aveva un tempo duramente criticato.
C’è un’ambivalenza di fondo in questo famoso componimento che commemora la terrible beauty della strana ribellione da cui nacque lo Stato moderno irlandese. Oggi, a cent’anni di distanza, si tenta di ricordare, celebrare e interpretare un evento chiave della storia europea, contradditorio eppure indispensabile per la nascita dello Stato libero irlandese, nella consapevolezza che un approfondito studio del complicato e tragico contesto storico di quegli anni è un atto quanto mai dovuto e necessario. La rivolta di Pasqua del 1916 rappresenta un momento centrale del mutamento dei sistemi di potere in Europa e nel vasto, potente ma già declinante, impero britannico.

Corriere La Lettura 14.2.16
Patrioti e proletari L’utopia armata di James Connolly
di Giulio Giorello


«Era la domenica di Pasqua, e nelle chiese si alzava il grido gioioso Dio è risorto. L’indomani per le strade si diceva L’Irlanda è insorta». 1916: così James Stephens, giornalista e scrittore, testimoniava della Insurrezione di Dublino nel libro ora edito in italiano da Menthalia. L’inglese to rise indica sia Cristo che esce dal sepolcro, sia il sollevarsi di un popolo. Più laicamente, un protagonista della rivolta, James Connolly, aveva definito «libertari» tutti coloro che valutano «la libertà più che la vita». Nato in Scozia da genitori irlandesi nel 1868, aveva creato nel 1896 l’Irish Socialist Republican Party; poi aveva organizzato nel vecchio come nel nuovo mondo un sindacalismo deciso e combattivo. Ritornato dagli Stati Uniti, aveva formato a Dublino l’Irish Citizen Army (Ica), movimento di autodifesa dei lavoratori. Ma rischiava di trovarsi emarginato dai «compagni di lotta» per il proletariato; mentre i nazionalisti puri non gradivano il taglio «classista» delle sue scelte. Per Stephens il cuore di Connolly «batteva per la questione nazionale come per quella economica», ed era «un grande cuore!». Era anche una grande intelligenza che mirava alla libertà piena contro ogni discriminazione politica, linguistica, economica, religiosa o di genere. Non aveva dimenticato neppure la guerriglia del Tirolo del 1809, che aveva sconfitto bavaresi e francesi: ben diverse erano le vallate alpine dalle vie cittadine! Ma quel che contava era la capacità di tramutare la propria gente in «popolo armato».
Nel 1916 era stato scelto come centro della sollevazione l’ufficio centrale delle poste, l’imponente General Post Office (Gpo) dove avevano fatto irruzione i Volunteers di Patrick Pearse e i lavoratori dell’Ica, nella indifferenza dei passanti che avevano pensato a una delle solite manifestazioni pacifiche. Era l’inizio della battaglia dell’Irlanda per riavere «il suo posto tra le nazioni»: per Connolly non c’era più alcuna divisione tra i Volunteers nazionalisti e i proletari dell’Ica; era nata l’Armata repubblicana irlandese (Ira), quel che contava era soprattutto «fidarsi dei propri fucili».
Pochi giorni dopo, la Dublino ribelle aveva dovuto arrendersi, benché Connolly, nominato comandante, ancora proclamasse: «Coraggio ragazzi, stiamo vincendo». Ma era solo la vittoria sulla sudditanza psicologica degli irlandesi ai loro «padroni» britannici. A ribellione domata, veniva fucilato il 12 maggio nel carcere di Kilmainham: legato a una sedia, perché ferito a una gamba. Il suo maggior «peccato» era di essere stato uno dei sette firmatari della Proclamazione della Repubblica. Molti intellettuali britannici lo hanno trattato come un illuso; qualcuno lo ha liquidato come «un desperado piccolo, taciturno e privo di rimorsi». Ma la sua ribellione aveva segnato la nascita di quella che sarebbe stata la Repubblica irlandese; e aveva rappresentato il colpo di grazia per l’Impero britannico, fornendo un modello per le lotte di liberazione del nostro tempo: dall’India di Gandhi al Sudafrica di Mandela.
Ancora oggi le sei contee della cosiddetta Irlanda del Nord sono vincolate al Regno Unito. Ma un giorno, diceva Stephens, «la forza di gravità che fa girare il pianeta porterà l’Irlanda alla libertà» di tutte le sue 32 contee. La parola più adatta per definire l’insurrezione di Dublino, diceva, era «resistenza». Sì, certo: a Dublino il 24 aprile 1916 come nell’Italia del 25 aprile 1945.

Repubblica Cult 14.2.16
Romano Luperini
«Improvvisamente si scoprirono quasi tutti heideggeriani. Compiaciuti nella propria debolezza»
Il rapporto ambivalente con la famiglia, la delusione politica e intellettuale, gli anni di analisi, la malattia
I ricordi del grande letterato
“Ho vissuto per fare la pace con mia madre e mio padre”
colloquio con Antonio Gnoli


Non pensavo che Romano Luperini, critico letterario di grande meticolosità e intuito, legato a lungo a una tradizione marxista, fosse stato un uomo diviso. Spaccato e come irriconciliato alla vita. Mi ci fa riflettere il suo romanzo La rancura, intriso di motivi biografici e attraversato da una profonda sofferenza. Scopro che la “rancura”, in un verso di Montale, segnala l’aspra relazione tra un padre e un figlio. Ed è quanto di più avvolgente e drammatico troviamo nella storia di Luperini. Mentre lo incontro mi soffermo a guardare il volto. La prima spaccatura è lì, su quella superfice bella e leggermente irregolare. Tagliata all’altezza della bocca da una innaturale e lieve smorfia: «È il risultato di un’operazione alla carotide, qualcosa che fu presa in tempo e ha lasciato questa traccia. Mi dissero: avrà problemi nel parlare, ma reimparerà a deglutire. È accaduto il contrario: ingerisco con difficoltà il cibo, ma parlo abbastanza bene».
Come ha reagito?
«Impari. L’ostinazione negli esercizi. Il sacrificio. Parli con il tuo corpo in maniera diversa. Sei più circospetto. Disincantato. Prendi i giorni per quello che sono: segmenti di 24 ore».
Quando è iniziato lo strazio?
«Circa tre anni fa. Oggi, mi pare una strana avventura. Alla base tra l’altro del romanzo che ho scritto».
Ero sorpreso, infatti, che lei saggista e studioso di letteratura si fosse cimentato con il romanzo.
«Ne avevo già scritto uno. Ma questo va a toccare aspetti della mia vita molto profondi. La rancura è nato grazie anche al rapporto con una psicologa. Mi sembrava che tutto il mondo si stesse sgretolando e io chiuso nel mio fortino di morte guardavo impotente ciò che mi accadeva. Poi arriva questa carta di riserva. Impensata. E ho scritto, convinto che dovessi farlo. Per me, la mia storia, la vita che mi restava».
In questa sua storia è fondamentale la presenza di suo padre.
«Sì, lo è».
Dolorosa e difficile.
«Diciamo soprattutto ambivalente».
Nel senso?
«Di una grande ammirazione verso quest’uomo e al tempo stesso un disprezzo o meglio un patimento che da bambino mi afferrava alla gola».
Cosa pativa esattamente?
«Sospettai, ingiustamente, che avesse delle mire nei riguardi della mia sorellastra».
Pensò che la molestasse?
«Pensai questo, sbagliando. Lo dissi alla mamma e alla fine si chiarì che l’atteggiamento di mio padre era solo quello di una persona che voleva avere un controllo totale sui figli e sulla moglie. Mi sono trascinato a lungo un senso di colpa, per quello che dissi».
Chi era suo padre?
«Era stato un grande comandante partigiano. Aveva combattuto nelle zone di confine tra l’Italia e la Jugoslavia. Divenne una sorta di figura leggendaria. Amata e temuta. E quando la guerra finì tornò al suo lavoro di maestro elementare. La vita civile non lo aiutò».
Perché?
«Troppo distante dal mondo che aveva vissuto, dagli ideali immaginati, dal pericolo corso. Eravamo nella Lucca democristiana degli anni ‘50. Mio padre si sentiva come un animale in gabbia. Viveva le giornate con il solo ossessivo ricordo di ciò che era stato».
I vostri rapporti com’erano?
«Facevo le elementari nella stessa scuola dove insegnava. La mattina uscivamo assieme. Mi teneva per mano. Io facevo resistenza. Non andavo volentieri a scuola. Mi sentivo rapito da mia madre. A volte vomitavo. E lui strattonava. “Non voglio fare tardi, per colpa tua”, diceva. Un giorno mi fece vedere una pistola Mauser. L’aveva tolta a un tedesco e conservata, con le pallottole. La smontò e rimontò davanti ai miei occhi. Poi mormorò: perché non mi sparo?».
Nel romanzo muore suicida.
«Nella vita morì di infarto. Per il suo funerale arrivarono due camion pieni di vecchi partigiani istriani e sloveni. Viaggiarono tutta la notte per dargli l’estremo saluto. C’era anche Mario Abram, il commissario politico della brigata, di cui mio padre era stato comandante militare. Tenne la commemorazione. Alcuni piansero e compresi la grandezza di quell’uomo che non si era rassegnato al nuovo corso».
Lei cosa faceva?
«Insegnavo all’università e uscivo da una grossa delusione politica. Ero smarrito. Decisi di entrare in analisi».
Con chi?
«Con Giovanni Jervis. Mio padre morì durante una di queste sedute. E la sua scomparsa si trasformò nell’elaborazione di un lutto. Ricordo il mio primo incontro con Jervis. Gli dissi: sono qui da lei perché ho un problema grande quanto una casa. Quale? Mi chiese. Mio padre, risposi. E in seguito scoprii che il problema vero era mia madre».
Lo scoprì esattamente in che senso?
«Nel senso che mi accorsi di aver vissuto sempre mio padre attraverso mia madre e i suoi problemi. Era una donna straordinaria, capace di colpevolizzarmi e di trasformare la sua debolezza in forza. Riuscì a condizionarmi».
Ne parla senza amarezza.
«Siamo tutti più o meno vittime dei nostri ruoli. Forse scelsi di fare politica anche per reagire a questa condizione familiare: Divenni comunista. Mio padre si incazzò. Mi disse tu non sai quanto male hanno fatto i comunisti»
Mi scusi ma non era un partigiano legato alle brigate di Tito?
«Quella fu la lotta che si trovò a combattere. E restò sempre fedele a quegli uomini con cui aveva rischiato la vita. Ma aveva ideali politici socialisti. Ed è la ragione per cui non condivise le mie scelte».
Le sue scelte da dove nascevano?
«C’era stato il Sessantotto, sembrò un modo per inventarsi una nuova vita».
E invece?
«Tra la politica e il gioco finì col prevalere un modo antiquato di intendere i rapporti di forza».
Nel romanzo c’è anche la figura di Vittorio Foa.
«Siamo stati amici e abbiamo creduto nelle stesse cose, nello stesso bisogno di libertà e giustizia».
Cosa non ha funzionato? A un certo punto Foa dice: abbiamo sbagliato tutto.
«Avevamo sopravvalutato il momento della soggettività politica, senza comprendere che la politica si faceva altrove».
Cosa vuol dire essere sconfitti?
«Fu lo smarrimento. Improvvisamente mi sentii così agli inizi degli anni Ottanta: sembravo l’ultimo giapponese che non aveva capito che la guerra era finita. E la cosa era tanto più comica quanto più in giro era chiaro il riposizionamento».
Ossia?
«I nostri intellettuali improvvisamente si scoprirono quasi tutti nicciani, heideggeriani, lacaniani. Danzanti. Era un gran parlare del pensiero debole. Compiaciuti nella propria debolezza».
Allude a Gianni Vattimo?
«Lui fu l’abile cantore del nuovo corso. Nel 1984, durante un convegno a Palermo, alcuni di noi si trovarono schiacciati dall’imperante misticismo».
Alcuni chi?
«Con me c’erano Edoardo Sanguineti, Francesco Leonetti e, mi pare, Giancarlo Ferretti. Venimmo isolati in mezzo a 400 persone che ci impedirono di parlare. Capisce? Ai loro occhi eravamo vecchi e superati. Uno di questi, uno dei poeti “innamorati”, mi pare fosse Milo De Angelis, minacciò di picchiarmi. Il giorno dopo si scusò. Ma questo era il clima».
Perché ha scelto di occuparsi di letteratura italiana?
«Potrei risponderle perché mi piaceva. In realtà anche qui c’entra mio padre. Era stato amico di Romano Bilenchi e credo che queste frequentazioni fiorentine abbiano influito sulle mie scelte. Mi sono anche occupato di letteratura europea e non ho disdegnato di insegnare in America».
Tuttavia, il suo insegnamento si è svolto per larga parte all’Università di Siena.
«Sì vi arrivai nel 1972. Lo stesso anno, o giù di lì, in cui giunse Franco Fortini».
Che ricordo ha di lui?
«Contraddittorio. Per un verso, era un personaggio affascinante. In grado di dire cose intelligenti e puntuali; dall’altro, sembrava posseduto da un’ingenuità narcisistica. O si era con lui o contro di lui. La sua irascibilità poteva sfiorare la violenza fisica. Soffriva di un certo complesso di persecuzione. Ma restò un intellettuale di prim’ordine. Come dire: un’intelligenza pura negata da scatti di collera. Era per carattere agli antipodi del mio amico Paolo Volponi».
Era l’opposto in che senso?
«Aveva passioni positive e un amore sconfinato per la natura. Un giorno venne a trovarmi a casa e vedendo un’enorme pianta di rosmarino, l’abbracciò. Era anche esperto di storia dell’arte. Lo portai una volta a Volterra per vedere La deposizione di Rosso Fiorentino. Cominciò a parlare del dipinto e si formò attorno a lui una piccola folla, rapita dalle sue considerazioni. Concluse dicendo che il manierismo aveva anticipato il Novecento».
Come scrittore che giudizio ne dà?
«Ha sbagliato qualche libro, me ne ha fatti di bellissimi. Le mosche del capitale è un romanzo che rimane ».
Con chi altri si vedeva allora?
«Una frequenza importante fu con Ferruccio Masini, grande germanista. Un uomo affabile e critico notevole di Nietzsche. Era un sostenitore dell’omeopatia. Quando si ammalò di cancro provò a curarsi con i sistemi naturali. Purtroppo non funzionarono».
C’era anche Mario Tronti che insegnava a Siena.
«È vero, uomo intelligente. Di tutto il gruppo operaista il più sagace e serio. Se penso a Toni Negri e al suo dannunzianesimo politico, Tronti mi appare come una stella di prima grandezza. Ma anche lui mi sembra sia finito a studiare i profeti. Della vecchia guardia materialistica vedevo volentieri Sebastiano Timpanaro. Non poteva insegnare perché non era in grado di parlare davanti a più di due persone. E per questo, uno dei più grandi filologi del ‘900, si mise a fare il correttore di bozze».
George Steiner, affascinato dalla sua storia, gli dedicò un romanzo.
«Cosa che Timpanaro non gradì. Gli parve una caricatura. Gli suggerii di tentare con l’analisi. Ma era troppo vecchio, si limitò a scrivere un saggio sul lapsus freudiano».
Quando iniziò a fare analisi?
«Nel 1978, nel pieno degli anni di piombo. E l’ho portata avanti per cinque anni».
Che cos’è la guarigione?
«Non esiste. Freud parlò di destino. Beninteso non quello dei greci, ma il saper riconoscere la spinta della propria vita. La corrente che ti attraversa. La guarigione è questo riconoscimento».
Lei l’ha trovata questa corrente?
«Penso di sì. Quando morì Jervis il mondo mi parve nuovamente crollarmi addosso. Ma Johnny, così gli amici lo chiamavano, aveva saputo creare basi solide per la mia psiche».
L’impressione che si ricava è che lei sia un uomo che ha attraversato la durezza dell’ideologia e la fragilità della vita.
«Mi riconosco e non rifiuto la fragilità».
Cosa significa accettarla?
«Sapere che il tuo destino è questo e la fragilità vi partecipa. Bisogna imparare a regredire. La persona matura non ha paura di mostrarsi fragile. È una lezione che mi ha trasmesso Jervis. Rischiai di vanificarla dopo la malattia. Ero sull’orlo della morte. Lasciai l’università. Una parte di me non esisteva più. Poi, ancora una volta, ne sono uscito. Riemerso».
Grazie al romanzo?
«Anche, ma non solo. Giunto in tarda età mi sento un autore avventizio».
In fondo tutta la sua vita è un tentativo di ricomporre l’immagine di una famiglia che lei ha vissuto in modo frantumato.
«È probabile che volessi ricomporre quelle fratture. Un giorno frugando tra le carte di mio padre vidi sulla mensola una foto che non avevo mai notato. Dietro c’era la data: dicembre 1943. Nella foto la mamma è seduta in mezzo a un campo, mentre io bambino le bacio la guancia. Era una foto che lei gli aveva inviato, durante la guerra. In seguito mio padre la incorniciò e la tenne come un reperto prezioso. Ecco, penso che lì, nascosto nel bianco e nero, ci fosse il desiderio di una ricomposizione familiare».