domenica 14 febbraio 2016

Il Sole 14.2.16Le sfide dei ballottaggi daranno un peso politico al voto amministrativo
di Roberto D’Alimonte

In tempi di grande incertezza e di sondaggi inaffidabili qualunque test elettorale in cui si contano i voti voti veri e non intenzioni – acquista un peso politico che va al di là dei numeri e della posta in gioco. Sarà così anche per le prossime elezioni amministrative.
Nel corso della Seconda Repubblica sono numerosi i casi in cui l’esito di una tornata di elezioni locali o regionali ha influito sul corso della politica nazionale. Per esempio, è stato così nel 1993. Allora era già stata approvata la legge Ciaffi che introduceva nei comuni e nelle province elezione diretta del sindaco e doppio turno. In Parlamento era in discussione la riforma elettorale innescata dal referendum Segni. Il Pds puntava su collegi uninominali e doppio turno. La Dc non era pregiudizialmente contraria. Prima della conclusione dei lavori parlamentari ci fu a giugno 1993 un turno di elezioni locali in cui si votò con il nuovo sistema di voto. Fu un disastro per la Dc. Da quel momento l’idea del doppio turno a livello nazionale fu abbandonata e venne fuori la legge Mattarella con i suoi collegi uninominali a un turno.
Il secondo caso riguarda Fini e Alleanza Nazionale. Gennaio del 1996. Antonio Maccanico era stato incaricato di esplorare la possibilità di formare un governo di larghe intese per fare la riforma costituzionale. Si stava discutendo una bozza che avrebbe introdotto in Italia un modello simile a quello francese, semi-presidenzialismo e maggioritario a due turni. Su questo modello c’era l’accordo tra Pds e Fi. Fu bocciato da Fini. Le elezioni regionali del 1995 e una tornata di elezioni locali nell’autunno dello stesso anno lo avevano rafforzato nella sua convinzione che An aveva la possibilità di scavalcare Forza Italia e diventare il primo partito del centro-destra. Una scommessa che avrebbe fatto di Fini il leader potenziale di questo schieramento. Così Maccanico non fece il governo. Invece di fare la riforma costituzionale si andò a votare nella primavera del 1996. Vinse Prodi e An finì dietro Forza Italia.
Le elezioni di giugno di quest’anno non avranno un impatto analogo sulla politica nazionale, anche se occorre dirlo stiamo attraversando una fase di destrutturazione-ristrutturazione non dissimile dal periodo 1993-1996. Ci daranno comunque informazioni preziose. I capoluoghi in cui si vota sono importanti. Tra questi spiccano: Milano, Torino, Bologna, Roma e Napoli. È troppo presto per farsi una idea precisa sull’esito del voto. L’offerta politica, cioè candidati e alleanze, non è ancora definita. E senza conoscere l’offerta è azzardato tentare previsioni. Si possono fare solo alcune osservazioni preliminari. Limitandosi ai cinque capoluoghi maggiori si può dire che il centro-sinistra si presenta molto disunito. Solo a Milano il Pd e la sinistra hanno trovato un’intesa. A Torino, Bologna, Roma e Napoli il Pd è da una parte e Sel-Si dall’altra. Paradossalmente il centro-destra sta meglio. Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia si presenteranno insieme, e senza il Ncd di Alfano. Dopo la scelta di Bertolaso a Roma resta da assegnare la casella di Bologna, ma sarebbe sorprendente che non si trovasse l’accordo anche lì. E poi c’è il M5s che, come al solito, corre da solo.
In questo quadro la cosa più interessante saranno i ballottaggi. Con un M5s che è ancora sopra il 20% dei voti è difficile che ci siano candidati vincenti al primo turno. Come è noto, la differenza tra l’Italicum e il sistema con cui si voterà a giugno è che nel primo caso la soglia per vincere al primo turno è il 40% mentre nel secondo è il 50%. È molto difficile che qualcuno la superi. E così i ballottaggi ci offriranno informazioni preziose sulle preferenze degli elettori in questa fase. Informazioni che altrimenti non avremmo. Intanto sarà interessante vedere chi andrà al ballottaggio. A Milano è scontato che saranno il candidato del centro-sinistra e quello del centro-destra. Ma negli altri capoluoghi è tutto ancora incerto.
Il caso più interessante è Torino. Qui si ripresenta Fassino. In tempi normali non ci sarebbero dubbi sulla sua rielezione. Di questi tempi non è così perché Chiara Appendino del M5s è una candidata competitiva. Se Fassino non vincerà al primo turno – esito possibile data la presenza del candidato di Sel-Si è molto probabile che sarà lei ad andare al ballottaggio. E allora si vedrà quali saranno le seconde preferenze degli elettori del centro-destra. Andranno a votare? E chi voteranno tra il sindaco uscente e la giovane sfidante? È la risposta a queste domande che rende questa tornata di elezioni amministrative molto significativa, aldilà dei confini comunali.

Il Sole 14.2.16
Uno spiraglio verso la verità
È il momento di ammettere una verità ineludibile
di Ugo Tramballi


Qualcuno ricorderà Mohammed Saeed al-Sahhaf, meglio conosciuto come Alì il Comico. Nel 2003 era il ministro dell’Informazione di Saddam Hussein. Gli americani erano già dentro Bagdad.
Ma lui continuava a raccontare alla stampa di tutto il mondo che le truppe irachene stavano respingendo e decimando il nemico. Riuscito miracolosamente a fuggire, fu scritturato nel talent di una tv degli Emirati dove ancora vive.
Senza volerlo, al-Sahhaf era riuscito a regalare qualche minuto quotidiano di comicità nella tragedia dell’inutile invasione americana dell’Iraq: voleva essere l’inizio della democratizzazione forzata del Medio Oriente ma fu l’inizio della fine del Medio Oriente. Se dimenticassimo per un istante l’arresto, le torture, l’agonia e la morte insensata di Giulio Regeni, anche i ministri, i generali di polizia e gli ambasciatori egiziani che sono intervenuti sul caso, sarebbero stati capaci di farci ridere.
La prima archiviazione poliziesca del caso come incidente stradale. Poi il ministro degli Interni «infastidito» dalle «insinuazioni» della stampa italiana sul coinvolgimento degli apparati dello Stato. La cosa apparentemente più comica è stata la promessa del ministro, un generale, di trattare il caso «come se Giulio fosse un egiziano». Voleva rassicurare. Invece, come poi dimostrato, era una minaccia. Il giovane italiano ha fatto la stessa fine di centinaia e centinaia di coetanei egiziani, spariti nelle carceri.
Poi c’è stato l’ambasciatore egiziano a Roma, minaccioso: continuando così voi italiani metterete a repentaglio le relazioni economiche con l’Egitto. Infine il ministro degli Esteri con la perla del paragone con le migliaia d’immigrati egiziani, vittime quotidiane della malavita italiana. «Se dovessi insinuare che ogni attività criminale è legata al governo italiano, sarebbe molto difficile condurre relazioni internazionali». Oltre ad essere offensivo con gli italiani, Sameh Shoukry, il ministro, lo è stato anche con i suoi connazionali. Chiunque la conosca, sa che al Cairo non c’è criminalità e che i pochi banditi di strada non torturerebbero la loro vittima, come è accaduto a Giulio. Nel caos creativo del traffico del Cairo si muore poco anche d'incidente stradale. Le principali cause di decesso sono i terroristi e l’uso indiscriminato della lotta al terrore che applica la polizia.
Poi sono arrivati gli americani a raccontarci come sono andate le cose. Ma per quanto il New York Times sia il primo giornale al mondo, i suoi segugi non avrebbero trovato tre ufficiali pronti a raccontare come sono andate le cose se qualcuno al governo – dove c’è ancora gente con il senso della giustizia – non glieli avesse fatti trovare.
E’ da qui che bisogna ripartire per avere giustizia e riprendere quella collaborazione politica, economica e culturale che fino alla tragedia di Giulio aveva distinto i rapporti fra Egitto e Italia. C'è ora un’ombra sui cinque miliardi d’interscambio, sulla grande scoperta del mega-giacimento di Zohr fatta dall’Eni e carica di opportunità future, sull’impegno di migliaia d’imprenditori italiani in Egitto. Non è difficile fugarla. Basta ammettere una verità scomoda ma ormai ineludibile. Come diceva qualche giorno fa Pier Ferdinando Casini, noi italiani «siamo pazienti ma non ingenui».

Il Sole Domenica 14.2.16
Dal New Hampshire
Bernie Sanders, Mr 27 dollari
È la donazione singola media che il democratico in corsa per la Casa Bianca ha ottenuto da oltre un milione di americani, grazie anche alla crociata anti-Wall Street. Uno stralcio dall’ultimo discorso
di Bernie Sanders


Grazie New Hampshire! Poco dopo la chiusura delle votazioni, il Segretario di Stato Clinton mi ha chiamato ed è stata molto gentile nel congratularsi. La ringrazio e mi felicito con lei e i suoi sostenitori per la campagna vigorosa che hanno portato avanti in New Hampshire.
Fatemi cogliere quest’opportunità per ringraziare le molte, molte migliaia di volontari qui nello «stato di granito», che hanno lavorato così incessantemente. Hanno lavorato notte e giorno, hanno fatto telefonate, e bussato a tante porte. Abbiamo vinto grazie alla vostra energia. Grazie a tutti di cuore. Abbiamo mandato un messaggio che riecheggerà da Wall Street a Washington, dal Maine alla California, il messaggio che il governo del nostro grande Paese appartiene a tutte le persone, e non solo a una manciata di ricchi contribuenti alle campagne e i loro Super PACs.
Nove mesi fa abbiamo cominciato la nostra campagna qui in New Hampshire. Non avevamo un’organizzazione, non avevamo soldi, e stavamo sfidando la più potente macchina politica degli Stati Uniti d’America. Stanotte, grazie a un’enorme affluenza, abbiamo vinto. Perché abbiamo sfruttato l’energia e l’entusiasmo di cui il Partito Democratico avrà bisogno per farcela a novembre. Questo è quello che è successo qui in New Hampshire: un elettorato entusiasta, persone che sono venute a votare in grande quantità. E questo è quello che succederà in tutto il Paese. Non dimentichiamoci mai che i democratici e i progressisti vincono quando l’affluenza è alta. I repubblicani vincono quando le persone sono demoralizzate, e l’affluenza è bassa. Stasera abbiamo notificato all’establishment politico ed economico di questo Paese che il popolo americano non continuerà ad accettare un sistema di finanziamento delle campagne corrotto, che sta danneggiando la nostra democrazia, e che noi non accetteremo un’economia taroccata nella quale gli americani comuni lavorano più ore per salari più bassi, mentre quasi tutto il nuovo reddito e la ricchezza vanno all’1% al vertice. (...)
Come tutti ricordiamo, l’ultima volta che i repubblicani hanno occupato la Casa Bianca, le loro politiche economiche di trickle-down ci hanno condotto alla peggiore congiuntura economica dalla depressione degli Anni 30. No, noi non consentiremo giganteschi sgravi fiscali per i miliardari, noi non consentiremo giganteschi tagli alla Social Security, ai bisogni dei veterani, al Medicare, al Medicaid e all’istruzione. No, noi non permetteremo che torni alla Casa Bianca un partito che è così indebitato con l’industria dei combustibili fossili da non poter neppure riconoscere la realtà scientifica del cambiamento climatico. Il popolo del New Hampshire ha mandato un messaggio profondo all’establishment politico, a quello economico, e a proposito, anche all’establishment dei media. Quello che le persone hanno detto qui è che, date le enormi crisi che il nostro Paese sta affrontando, è semplicemente troppo tardi per la solita vecchia politica dell’establishment.
Le persone vogliono un cambiamento reale. Quello che il popolo americano sta dicendo – e a proposito, lo sento dire non solo dai progressisti, ma anche dai conservatori e dai moderati – è che non possiamo più continuare ad avere un sistema di finanziamento delle campagne truccato in cui Wall Street e la classe dei miliardari siano in grado di comprare le elezioni. Gli americani, a prescindere da quale possa essere il loro orientamento politico, capiscono che questa non è la democrazia. Noi non lasceremo che continui. Io non ho un Super PAC, io non voglio un Super PAC. Sono travolto, sono profondamente commosso, molto più di quanto io possa esprimere con le parole, dal fatto che il sostegno finanziario per la nostra campagna venga da più di un milione di americani che hanno fatto oltre 3,7 milioni di donazioni individuali. Si tratta del maggior numero di singoli contributi che abbia mai ottenuto un candidato nella storia degli Stati Uniti d’America arrivato a questo stadio in un’elezione.
E sapete di quanto è stata la donazione media? 27 dollari. (...) Ora, quello che il popolo americano capisce è che il nostro grande Paese è costruito su un semplice principio, e che quel principio è la giustizia. Lasciate che io sia molto chiaro, non c’è giustizia quando oggi c’è più diseguaglianza di reddito e ricchezza in America che in ogni altro grande Paese della terra. E quando un decimo dell’1% al vertice in questo momento possiede quasi tanta ricchezza quanto il 90% al fondo. Non c’è giustizia. Siete pronti per un’idea radicale? Insieme possiamo creare un’economia che funzioni per tutti e non solo per l’1 per cento. Noi alzeremo il salario minimo a 15 dollari all’ora. Introdurremo l’equità nella paga per le donne. Dato che c’è bisogno della forza lavoro meglio istruita del mondo, sì, renderemo i college pubblici e le università gratuite. E per i milioni di americani che stanno lottando con un orrendo livello di indebitamento studentesco, noi alleggeriremo sostanziosamente quel fardello. In America le persone non dovrebbero essere rovinate finanziariamente per decenni per il crimine di cercare di ottenere un’istruzione più elevata. È assurdo.
Ebbene, i miei critici dicono: sai, Bernie, questa è un’ottima idea, vuoi tutte queste cose gratis. Come farai a pagarle? Ve lo dirò. Imporremo una tassa sulla speculazione di Wall Street. L’avarizia, la mancanza di scrupoli e il comportamento illegale hanno messo la nostra economia in ginocchio. Il popolo americano ha salvato Wall Street, ora è il turno di Wall Street di salvare la classe media. Quando noi parliamo di trasformare l’America, significa fermare la disgrazia di questo Paese che ha più persone in carcere che ogni altro Paese del mondo, e in modo sproporzionato si tratta di afroamericani e ispanici. Non solo lotteremo per porre fine al razzismo istituzionale, e a un sistema penale guasto, noi daremo lavoro e istruzione ai giovani, invece che prigioni e incarcerazioni.
E poi, fatemelo dire da membro della Commissione energia del Senato, e della commissione per l’ambiente: il dibattito è chiuso. Il cambiamento climatico è reale. È causato dall’attività umana, e ha già provocato problemi devastanti. Abbiamo la responsabilità morale di lavorare con i Paesi di tutto il mondo per riconvertire il nostro sistema energetico dai combustibili fossili alle energie rinnovabili e all’efficienza energetica. Ora, io sono stato criticato durante questa campagna per molte, molte cose. Ogni singolo giorno, e questo va bene. Mi stanno lanciando addosso tutto tranne il lavello della cucina, e mi pare che anche il lavello della cucina stia per arrivare abbastanza presto. Ma ciò che costituisce questa campagna è il pensare in grande, non in piccolo. È l’avere il coraggio di rigettare lo status quo. È dire che in un momento nel quale tutti i grandi Paesi della terra garantiscono le cure mediche al loro popolo, noi dovremmo fare lo stesso.
Secondo me, sotto la leadership del Presidente Obama, l’Affordable Care Act è stato un importante passo avanti, non c’è dubbio. Ma noi possiamo e dobbiamo fare meglio. Ventinove milioni di americani non dovrebbero rimanere senza assicurazione, e un numero anche più grande non dovrebbe essere sotto-assicurato con moltissimi deductibles e co-payments. Noi non dovremmo pagare, fino ad ora, il prezzo più alto del mondo per le medicine prescritte, in un momento nel quale le tre case farmaceutiche al vertice degli Stati Uniti hanno fatto 45 miliardi di dollari di profitti nello scorso anno. Questa è un’oscenità, e lasciate che vi dica una cosa: quando noi entreremo alla Casa Bianca, l’industria farmaceutica non continuerà a spennare il popolo americano.

Internazionale 14.2.16
Stati Uniti
Bernie Sanders fa sul serio


“Nel New Hampshire hanno trionfato gli outsider”, scrive The Atlantic commentando il risultato delle primarie che si sono tenute in quello stato il 9 febbraio. “Nel Partito democratico Bernie Sanders, senatore del Vermont, ha vinto con più di venti punti di vantaggio su Hillary Clinton. Tra i repubblicani il miliardario Donald Trump ha vinto con ampio margine”. I dati più importanti riguardano i democratici: “Nel New Hampshire Sanders ha vinto tra i giovani, i bianchi, le donne, gli elettori più progressisti e quelli della classe operaia”, scrive The Nation. In questo modo ha reso più solida la sua candidatura e ha fatto emergere i limiti politici di Clinton. Per l’ex segretaria di stato l’elemento più preoccupante sta nel fatto che inora non è riuscita a conquistare il voto dei giovani. I sondaggi dimostrano che Sanders è il candidato più popolare tra gli elettori sotto i trent’anni, comprese le donne. “Le prossime primarie democratiche si terranno in Nevada e South Carolina il 20 e il 27 febbraio”, continua The Atlantic. In entrambi gli stati Clinton è nettamente favorita grazie al sostegno delle minoranze (gli ispanici in Nevada e gli afroamericani in South Carolina). Ma dopo il risultato del New Hampshire la sua vittoria inale non è più scontata e ora Sanders è convinto di poter guadagnare consensi anche tra le minoranze, soprattutto tra i più giovani. “Nella comunità nera potrebbe aprirsi una frattura tra le vecchie generazioni, schierate con Clinton, e gli attivisti del movimento Black lives matter, che potrebbero appoggiare Sanders”. Tra i repubblicani la situazione è sempre più incerta: il voto in New Hampshire ha riportato in corsa John Kasich, il governatore dell’Ohio considerato il candidato più moderato, e ha ridato qualche speranza all’ex governatore della Florida Jeb Bush, mentre Marco Rubio, il candidato sostenuto dell’establishment, ha ottenuto un risultato deludente. u

Pagina 99 14.2.16
L’ascesa dei senza dio nelle urne d’America
di Luigi Spinola


Per diventare presidente degli Stati Uniti, un candidato deve innanzitutto trovarsi un dio e pregarlo ad alta voce. O almeno così potrebbe lasciare intendere uno studio pubblicato a fine gennaio dal Pew Research Center, secondo il quale la maggioranza degli americani non avrebbe problemi a votare un candidato che ha avuto relazioni extraconiugali, guai finanziari, o anche un ex fumatore confesso di marijuana (hanno già eletto un candidato che aveva tutte e tre queste caratteristiche nel suo curriculum, anche se Bill Clinton giura di non aver mai aspirato), ma è poco incline (51%) a votare un candidato senza dio, o con un dio non meglio identificato. In una stagione di crescente islamofobia (vedi box) anche un candidato musulmano è considerato più accettabile di un uomo (o una donna) privo di un credo. La realtà però è un po’ più complessa.
La discriminante religiosa divide l’America su linee partitiche. Solo per il 41% dei democratici è importante che il presidente condivida i loro sentimenti religiosi, contro il 64% dei repubblicani. La stessa percezione che gli elettori hanno dei due grandi partiti evoca uno scontro tra Repubblicani sanfedisti e Democratici senza dio: metà degli americani pensa che i conservatori religiosi esercitino troppa influenza sul partito repubblicano, il 44% teme l’egemonia dei liberal laici sul partito democratico. Nel 2012 l’81% degli elettori dello sconfitto Romney erano bianchi e cristiani, solo il 39% quelli del vincitore Barack Obama.
Così se tra i democratici il discorso religioso ha perso importanza da quando – dopo la sconfitta del cattolico a rischio scomunica John Kerry nel 2004 si pensava che il partito avesse un “problema con dio”, tra i Repubblicani la partita per conquistare il voto evangelico rimane centrale nella corsa alla Casa Bianca. Ed è una partita sulla quale Ted Cruz ha puntato di più e meglio di tutti, sin da quando lo scorso marzo ha lanciato la sua candidatura dalla aula magna della Liberty University della Virginia, dove il pastore Jerry Falwell junior porta avanti la missione del padre, motore dei successi reaganiani negli anni ‘80 con la sua Moral Majority.
Al debutto in Iowa, dove due elettori Repubblicani su tre sono evangelici, la partecipazione al voto dei fedeli è stata determinante per la vittoria di Cruz, che ha battuto le 99 contee parrocchia per parrocchia. E dove non arrivava Ted, a mobilitare gli uomini di chiesa ci ha pensato il papà pastore Rafael – sorta di pastor-in-chief di una campagna elettorale che ai simpatizzanti offre anche un gruppo nazionale di preghiera. Uno schema di gioco che dovrebbe funzionare anche nella terza tappa che si svolge il 20 febbraio in South Carolina, dove il 60% degli elettori si dichiara evangelico. E come nell’Iowa, anche in South Carolina Ted Cruz ha organizzato sin dall’estate manifestazioni in difesa della libertà religiosa, mettendo nel mirino in primis la sentenza della Corte Suprema che a giugno ha sancito l’incostituzionalità dei divieti statali ai matrimoni gay.
Più importante, la mobilitazione religiosa a sostegno di Cruz avrebbe ottenuto un decisivo endorsement su scala nazionale dalla lobby conservatrice in cerca di un candidato unico a sostegno della causa. Stando a quanto scritto dalla National Review, un gruppo di maggiorenti religiosi convocati a metà dicembre in un hotel della Virginia da Tony Perkins, leader del potente Family Research Council, in prima linea contro Lgbt, aborto e altre presunte minacce alla famiglia americana, avrebbe deciso di puntare tutto su Cruz.
La prevista battuta d’arresto il 9 febbraio nelle primarie del New Hampshire (terzo posto, a una distanza siderale dal pluridivorziato Donald Trump) , dove un solo elettore repubblicano su cinque si professa evangelico, chiama però in causa la capacità di un candidato religioso di farsi ascoltare oltre il recinto per quanto ampio dei value voters.
Soprattutto, non è detto che la benedizione dal pulpito, seppur cruciale nella stagione delle primarie, faciliti l’accesso alla Casa Bianca. Perché è vero che la maggioranza degli americani considera poco attraente un candidato senza Dio, ma la percentuale dal 2007 è scesa dal 63% al 51%. E la “categoria religiosa” che è cresciuta di più in questo periodo è quella degli atei, agnostici o senza una religiosa precisa, (i “nones” nei questionari dei demografi) saliti dal 16 al 23%. Sono più numerosi tra i millennial (35%), ma la crescita si registra in tutti i gruppi demografici (baby boomer compresi) etnici e socio-economici. E votano perlopiù democrat (70% per Obama e 26% per Romney nel 2012).
Quanto contano? Meno degli evangelici certo, non solo perché meno assidui alle urne – ma anche perché chi è senza dio lo è per conto suo, seppure qualche tentativo di fare lobby c’è stato. Ma su alcuni temi decisivi, su cui nel passato i repubblicani hanno dichiarato – e vinto delle guerre culturali con fini elettorali, i cambiamenti in corso nella società americana ha cambiato le regole del gioco.
Nel 2004 lo stratega di Bush, Karl Rove, puntò con successo sui referendum anti-matrimoni gay per trascinare alle urne la christian nation in alcuni Stati decisivi. Ancora nel 2008 Barack Obama e Hillary Clinton preferivano non toccare il tema per non bruciarsi. Ma dal 2010, tutti i sondaggi registrano una maggioranza favorevole ai matrimoni gay.
Nel 2001 i contrari stavano al 57%, il sì al 35%. Le percentuali ora sono rovesciate (39% contrari; 55% favorevoli), sempre secondo rilevazioni del Pew. E sono percentuali che s’impennano tra i democratici (66%) e anche tra gli elettori indipendenti (61%), cruciali alle urne, ma scendono fino al 33 % circa tra i repubblicani.
Così oggi sono gli strateghi del Grand Old Party che preferirebbero ignorare il tema. E su questo come su altre questioni su cui da noi si ama invocare la libertà di coscienza, il candidato Repubblicano che uscirà vincente dalle primarie avrà bisogno di molta agilità per rivolgersi fuori dalla sua famiglia politica, senza restare schiacciato tra dio – o chi per lui e gli elettori.

Pagina 99 14.2.16
il mondo visto laicamente dalla cima di un colapasta
di Samuele Cafasso


Milano«Molte religioni spiegano il male nel mondo con giustificazioni molto deboli: se Dio è buono, perché il mondo che ha creato non è perfetto? Il Prodigioso spaghetto volante, invece, ha generato per prima cosa un vulcano di birra e, dopo essersi ubriacato, ha proceduto con la Creazione. Francamente, questa mi sembra la spiegazione più plausibile di tutti i guai». Vladimir è un artista di strada russo, trascorre ogni inverno in Italia e in Svizzera mentre in estate, solitamente, resta nel suo Paese, dove è Frescovo della Chiesa pastafariana di San Pietroburgo. Mi parla con un bicchiere di vino in mano, uno scolapasta agganciato al cappello calcato sulla testa e mai – assolutamente mai – mostra di non credere a quello che dice.
Ci sono otto persone a un tavolo d’angolo del pub Kapuziner, a Milano. Due hanno uno scolapasta in testa, uno un cappello da pirata, una quarta un berretto fatto a maglia raffigurante spaghetti e polpette. Età media molto bassa, scherzano e ridono in continuazione: è una riunione di pastafariani, una religione che può sembrare una burla, una goliardata, ma che in realtà sta cambiando il modo con cui alcune persone pongono il problema della laicità dello Stato nel quale vivono e che, ora, si prepara a chiedere anche all’Italia il riconoscimento ufficiale.
Oggi nel nostro Paese circa tremila persone hanno accettato di registrarsi online a un sito dove dichiarano di appartenere alla religione pastafariana mentre i simpatizzanti, secondo gli associati, sono circa 15 mila. Partecipano a manifestazioni per la laicità, ai Gay Pride, erigono simboli religiosi – il Liscafisso, una lisca di pesce – in cima alle montagne, accanto alle croci, salvo dirsi pronti a smontare tutto se anche i cattolici rimuoveranno i loro simboli. Dove vogliono arrivare i pastafariani? Manuel Guastella, fotografo, 38 anni, Frescovo della Pannocchia di Milano, sorride: «Abbiamo una lunga serie di rivendicazioni». Dopo la Polonia, l’Italia dove si sta riaccendendo su molti temi lo scontro tra laici e cattolici è uno dei Paesi dove il pastafarianesimo sta prendendo sempre più piede, attirando l’attenzione di media, associazioni e anche partiti, come i radicali. I pastafariani chiedono l’otto per mille, l’esenzione dell’Imu per le loro cucine e i pub che frequentano – dove mangiamo e beviamo sono luoghi di culto, dicono –, celebrano pastrimoni dove si possono unire anche più di due persone, di qualunque sesso, «purché maggiorenni e che si vogliano bene», parodiando le “Sentinelle in piedi” hanno fondato le “Tagliatelle in piedi”, manifestando con fumanti piatti di pasta e forchette in mezzo agli oltranzisti cattolici. In una di queste occasioni uno di loro, Giampietro Belotti, si è presentato vestito come la parodia di Hitler nel film il Grande dittatore, leggendo il Mein Kampf e sostenendo di essere «un nazista dell’Illinois» (altra citazione, da un film dei Blues Brothers). L’hanno portato in questura per accertare se non abbia commesso il reato di apologia del fascismo. A parte questo caso, mai ci sono stati problemi con le forze dell’ordine alle loro manifestazioni.
La storia del pastafarianesimo inizia nel 2005, negli Stati Uniti, quando un fisico americano scrive una lettera al consiglio superiore dell’istruzione del Kansas che doveva decidere se bisognasse insegnare nelle scuole, accanto all’evoluzionismo, anche la teoria del disegno intelligente, per rispetto alle convinzioni religiose di parte della popolazione. Bobby Handerson, da allora definito il profeta del pastafarianesimo, nella lettera sosteneva di credere, lui e altre persone, che il mondo fosse stato creato da «un Prodigioso spaghetto volante» e di aspettarsi, quindi, che tale teoria venisse insegnata nelle scuole. Di fatto, la lettera era la versione scherzosa della metafora della teiera di Bertrand Russel che, in chiave anti-religiosa, scrisse nel 1952 un articolo ipotizzando di sostenere che, tra Marte e la Terra, si muovesse su un’orbita ellittica una teiera di porcellana, troppo piccola per essere avvistata. «Se io dicessi che, giacché la mia asserzione non può essere smentita, dubitarne sarebbe un’intollerabile presunzione da parte della ragione umana, si penserebbe giustamente che stia dicendo fesserie». Eppure, sosteneva Russel, è quello che succede con le religioni dove, anzi, è considerato eccentrico chi dubita.
La differenza tra la metafora della teiera e lo Spaghetto volante è che gli adepti del pastafarianesimo hanno costruito intorno a quella lettera tutta una loro cosmologia e fede fatta di condimenti al posto dei comandamenti, riti, officianti, paramenti “pirateschi”. Chiedono, per la propria religione, gli stessi diritti riconosciuti a tutte le altre. Oppure, niente a nessuno, riducendo la fede a questione privata. A capo dell’associazione italiana c’è un ricercatore universitario che ha vissuto per lungo tempo in Messico, Marco De Paolini. Si fa chiamare Pastefice Massimo, o Pappa: «I miei figli sono entusiasti del mio pastafarianesimo. Mia moglie dipende, va a periodi: dubita che questo sia il modo giusto per portare avanti battaglie sui diritti civili». Problema confermato da uno dei partecipanti alla riunione milanese: «I miei genitori dicono: non vi prenderanno mai sul serio».
Gli adepti del Prodigioso spaghetto volante in effetti non hanno sedi (almeno in Italia), si incontrano soprattutto per mangiare e bere assieme, manifestano vestiti da pirati tra urla e scherzi. Come prenderli sul serio? La formula però fa breccia, soprattutto tra i giovani, nelle università ma anche nelle scuole superiori dove i pastafariani vengono invitati durante le autogestioni e dando così nuovo smalto a un movimento anticattolico che raramente, nella storia italiana, si è mostrato disposto a usare l’arma dell’ironia e del sorriso, Vernacoliere escluso. In più, qui c’è l’elemento del paradosso portato al suo estremo.
«Qualcuno dice che noi non siamo una religione: la verità è che nel mondo è forte la Pastafarianofobia. La fede pastafariana non è sindacabile», conclude un altro associato, Carlo Ferretti e alza la sua birra, o quel che ne rimane. «Imbecilli», li apostrofa qualcuno per strada durante le manifestazioni. Molti sorridono e alzano le spalle. Ma in Polonia, dove già i pastafariani hanno presentato la domanda per il riconoscimento come religione, sui giornali e anche nei tribunali la questione è diventato dibattito nazionale. Cosa succederà quando, presto, faranno lo stesso anche in Italia? In attesa di saperlo, il mese scorso il russo Andrei Filin è riuscito a farsi riconoscere dal proprio Paese il diritto a mettere sulla patente di guida la foto con in testa lo scolapasta. Prima di lui l’impresa era riuscita solo ad altri quattro adepti in tutto il mondo. A fare da apripista, nel 2011, era stato l’austriaco Niko Alm.

Internazionale 14.2.16
Pechino usa la forza
Con il rallentamento dell’economia, scioperi e proteste sono aumentati.
E negli ultimi mesi c’è stata un’ondata di arresti
di Jacobin, Stati Uniti


Il 3 dicembre quattro organizzazioni di lavoratori dei poli manifatturieri di Guangzhou e Foshan, nel sud della Cina, sono inite nel mirino delle autorità. Decine di lavoratori e di loro familiari e colleghi sono stati interrogati, e sette sono rimasti in prigione per più di un mese. Quattro sono stati incriminati formalmente, tre per “adunata inalizzata alla sovversione dell’ordine sociale” e uno per “peculato”. Di loro non si sa molto di più. Un gruppo di sessanta avvocati si è oferto di rappresentare gli attivisti, ma gli è stato proibito di incontrarli. Nel frattempo, i mezzi d’informazione di stato hanno scatenato una campagna di difamazione per distruggere le reputazione personale e professionale degli attivisti e legittimare la repressione.
Questo giro di vite non è arrivato all’improvviso. In Cina le associazioni dei lavoratori e i militanti sono sistematicamente vittime della repressione e delle persecuzioni dello stato. La diferenza rispetto al passato è che oggi le organizzazioni dei lavoratori (chiamate anche ong del lavoro) e i singoli attivisti presi di mira sono più numerosi, e i capi d’accusa più gravi. L’obiettivo di Pechino è stroncare questi gruppi umiliandoli e intimidendoli.
Ma perché lo stato si sente minacciato da queste organizzazioni? Che ruolo hanno avuto nell’alimentare il malcontento dei lavoratori, aumentato negli ultimi anni? E che signiicato ha questo giro di vite per la crescita e lo sviluppo del movimento sindacale nel paese?
In Cina il monopolio della rappresentanza dei lavoratori è nelle mani della Federazione dei sindacati cinesi (Fsc), mentre l’attività sindacale indipendente è vietata. Le ong del lavoro, però, si sono ritagliate un minimo spazio di manovra, contribuendo alla proliferazione di sigle e di iscritti. Le organizzazioni prese di mira nella recente ondata di arresti sono tra le più attive in Cina. La più nota è il Centro Panyu Dagongzu di Guangzhou, un gruppo antico e consolidato a livello nazionale. Il direttore, Zeng Feiyang, ex avvocato, è il leader di una rete di movimenti e non è nuovo a persecuzioni e aggressioni.
Tra gli arrestati ci sono anche diversi lavoratori migranti diventati attivisti del Dagongzu: Meng Han, che ha guidato uno sciopero delle guardie di sicurezza ospedaliere e ha pagato con il carcere; Zhu Xiaomei, rappresentante dei lavoratori, che ha vinto una causa contro la sua azienda da cui era stata licenziata quando aveva provato a farsi pagare i contributi (il 1 febbraio è stata rilasciata).
Tra le altre persone prese di mira c’è He Xiaobo, che ha lasciato il Dagongzu per fondare una nuova organizzazione dei lavoratori a Foshan chiamata Nanfeiyan. Il direttore del Centro per il lavoro Haige, Chen Huihai, è stato fermato e poi rilasciato. Deng Xiaoming, un altro militante dell’Haige, è stato rilasciato all’inizio di gennaio e scortato al suo paese d’origine, come Peng Jiayong, del Gruppo di mutuo soccorso dei lavoratori.
Lotte e contrattazione
Questi gruppi sono la cosa che si avvicina di più a delle organizzazioni dei lavoratori. I primi, come il Dagongzu, sono stati fondati alla ine degli anni novanta per rispondere alle istanze dei milioni di lavoratori arrivati nelle città industriali dalle campagne. Queste persone non conoscevano le leggi sul lavoro e subivano palesi violazioni dei loro diritti. Sfruttando il nuovo clima di apertura e il crescente dibattito nella società civile, sono spuntate ong attive su diversi temi: dal lavoro all’ambiente, dalle questioni di genere alla sanità. Ma l’esistenza di questi gruppi è precaria, devono registrarsi come organizzazioni non proit e sottoporsi a un attento scrutinio da parte delle autorità. Oggi ce ne sono decine in tutta la Cina, quasi tutte concentrate nelle zone manifatturiere. Mentre la maggior parte si occupa esclusivamente di assistenza legale e si tiene alla larga dalle dispute collettive, alcuni gruppi (tra cui quelli presi di mira) hanno capito i limiti delle strategie individuali e delle cause singole portate in tribunale e sono passati a forme collettive di lotta e di contrattazione con le dirigenze aziendali.
Duplice strategia
L’ultima ondata di arresti coincide con l’intensiicarsi delle proteste nel settore manifatturiero in declino. Dal 2014 al 2015 il numero degli scioperi documentati è raddoppiato. Se una fabbrica chiude, gli operai sono informati solo quando i macchinari vengono portati via, e non ricevono alcun indennizzo. I lavoratori hanno avviato azioni collettive per chiedere l’indennità di cessazione dell’attività e protestare contro l’insuicienza dei contributi versati.
Il recente giro di vite è legato proprio a queste proteste, alcune durate mesi, che hanno ostacolato i tentativi di Pechino di isolare le battaglie dei lavoratori. Anche se non organizzano direttamente scioperi o proteste, gruppi come il Dagongzu mettono a disposizione dei lavoratori competenze legali e strategiche. La Fsc non ha preso bene le iniziative delle ong del lavoro e le ha attaccate pubblicamente nei discorsi rivolti ai lavoratori in sciopero.
La repressione delle nuove organizzazioni è parte di una duplice strategia in cui da una parte lo stato seleziona e integra alcuni gruppi “comprando” il loro consenso e dall’altra sopprime quelli che non collaborano. Tuttavia, bisogna ammettere che anche i più impegnati tra questi gruppi sono tutt’altro che inappuntabili. Nella maggior parte dei casi rilettono la personalità e le scelte politiche dei fondatori, e raramente sono democratici o trasparenti. Questa opacità è anche il frutto delle circostanze in cui nascono, oltre che dello spazio limitato di crescita di cui dispongono. Inoltre, non sono autorizzati a raccogliere fondi in Cina perché non possono costituirsi come organizzazioni non proit, quindi dipendono in larga misura dai finanziamenti stranieri. E il governo sta preparando una legge ad hoc che regolerà e controllerà le attività delle ong internazionali che operano in Cina.
La repressione dell’attivismo sindacale e delle organizzazioni dei lavoratori è aumentata negli ultimi anni. Nel 2012 alcune organizzazioni di Shenzhen sono state prese di mira dalle autorità e da allora gli abusi si sono moltiplicati. Nel 2013 l’attivista Wu Guijun è stato arrestato e condannato a cinque anni di carcere per aver organizzato una manifestazione. Ha fatto ricorso e nel 2014 è stato rilasciato.
Leggi strumentali
La vicenda di Wu Guijun è la spia della nuova strategia di Pechino per contrastare queste nuove forze sociali: sanzioni durissime non solo per i dissidenti politici ma anche per persone e organizzazioni più moderate. La repressione è una risposta deliberata alle side economiche e sociali con cui il Partito comunista deve fare i conti: gestire un’economia sempre più gravata dalla crisi (come si è visto nel crollo della borsa del 2015, nonostante i fortissimi controlli pubblici), salvare il partito da una crisi di legittimità che ha portato all’espulsione di decine di migliaia di dirigenti istituzionali e burocrati, e contenere i movimenti sociali.
Le autorità stanno facendo di tutto per dare una veste di legalità al recente giro di vite. Invece che perseguitare e arrestare arbitrariamente gli attivisti come in passato, lo stato cerca di costruire accuse solide contro di loro. Questo cambio di strategia rischia di stabilire un pericoloso precedente giuridico, che non solo criminalizza attività legali, ma normalizza questa criminalizzazione. L’uso strumentale delle leggi sul lavoro si aggiunge a una campagna di difamazione sui mezzi d’informazione di stato, che rappresenta un nuovo livello di repressione.
La campagna di difamazione di dicembre 2015, veicolata attraverso il canale principale della tv di stato e rivolta in particolare contro Zeng Feiyang del Dagongzu, parla di “comportamenti moralmente scorretti”, “irregolarità inanziarie” e “secondi fini di carattere politico”. A tutto questo si è aggiunta la censura dei post che sui social network criticavano la retata e difendevano gli attivisti: così le uniche voci dissidenti nel paese sono state ridotte al silenzio. Ma il signiicato di questo giro di vite va al di là delle singole organizzazioni e degli attivisti coinvolti. Se gli arrestati saranno condannati, il rischio è che si apra la strada a future persecuzioni ai danni delle organizzazioni che tutelano il lavoro, scoraggiando così i lavoratori e i loro sostenitori.
Solidarietà internazionale
Fortunatamente a livello internazionale ci sono state molte campagne di solidarietà per il rilascio degli attivisti arrestati. Accademici, altri attivisti, organizzazioni per il lavoro e sindacati di tutto il mondo hanno irmato petizioni, e c’è stata una grande manifestazione di protesta a Hong Kong.
In Cina un gruppo di addetti alle pulizie che aveva ricevuto il sostegno di uno degli attivisti arrestati negli ultimi mesi ha chiesto il suo rilascio. Queste manifestazioni di solidarietà non sono cosa da poco in uno stato autoritario. E se il movimento crescerà e maturerà, i lavoratori cinesi non dovranno aspettare molto per avere una vera rappresentanza. u fas
QUESTO ARTICOLO
Gli autori sono attivisti di Solidarity with chinese worker’s struggle, un gruppo statunitense che sostiene i lavoratori cinesi.

Il Sole 14.2.16
Rischio Cina, l’industria protesta a Bruxelles
di Matteo Meneghello

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Il Sole 14.2.16
No all’euro-suicidio
di Adriana Cerretelli

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Il Sole Domenica 14.2.16
Dialogo tra culture
Un arco tra Occidente e Oriente
di Anna Li Vigni


A tenere insieme un arco non sono le singole pietre che lo compongono, ma la tensione dell’una verso l’altra. È questa linea invisibile che sostiene tutta la struttura. Ed è proprio a questa immagine che rinvia il titolo del saggio di Marcello Ghilardi, The line of the arch. Intercultural issues between asthetics and ethics: l’arco quale metafora di interculturalità. Il volume si inserisce all’interno di un progetto dell’editore “Mimesis International” che, con un catalogo interamente in lingua inglese, mira a un ripensamento radicale dell’idea tradizionale di cultura e di identità.
La proposta è quella di una visione aperta delle culture, quali processi dinamici in relazione costante con l’altro da sé, che rinegoziano perennemente i propri confini. Si tratta di ridefinire l’essenza stessa dell’idea di dialogo tra culture – un tema assai urgente nel panorama storico contemporaneo ritornando all’etimologia greca della parola (diá–lógos): si tratta, cioè, di pensare al dialogo non più come a un banale “scambio” di contenuti, ma di rivalutare, come suggerisce François Jullien, ciò che sta “in mezzo” (diá, entre), ovvero il campo intermedio che espone i dialoganti alle contaminazioni reciproche. Con parole di Nishida Kitar?: «Un vero mondo culturale si forma solo quando varie culture, pur mantenendo i loro punti di vista individuali, si evolvono attraverso una mediazione col mondo». Secondo quest’ottica, Ghilardi trova diversi punti di contatto tra la cultura occidentale e il pensiero filosofico cinese e giapponese: per esempio tra lo stesso Nishida Kitar? e Meister Eckhart relativamente a una certa visione del divino, oppure tra Maurice Merleau-Ponty e l’etica-estetica della visione propria del pensiero orientale ispirato al buddhismo Zen. In Fenomenologia della percezione e ne Il Visibile e l’Invisibile, Merleau-Ponty mette a punto una critica profonda del dualismo cartesiano presente nella tradizione filosofica occidentale, giungendo a concepire una metafisica non più della sostanza bensì della relazione, metafisica nella quale il soggetto non è più concepito come separato dal mondo che egli percepisce, ma invero dissolto/desoggettivizzato nel suo relazionarsi al mondo: «Io sono tutto ciò che vedo, io sono un campo intersoggettivo» (Merlau-Ponty).
Nel cinese classico antico, ad esempio, non si trova alcun carattere che esprima la nozione di “oggetto”, inteso come ob-jectum separato dal soggetto: perché, per la filosofia zen, la percezione perfetta del mondo è “senza soggetto”, è quella in cui l’io senziente prende parte al movimento circolatorio dell’energia vitale (qi) senza ostacolarla. La grande arte orientale della pittura di paesaggi a inchiostro è emblema di un’estetica che è anche un’etica della visione: il pittore non ritrae le forme esteriori del paesaggio che contempla, pena la “morte” stessa delle figure che appariranno statiche; ciò cui mira il pittore è invece esprimere la vita delle figure, è dare forma all’invisibile nel visibile, è far emergere nella forma il respiro vitale del mondo. Il gesto del pennello diviene così parte del continuum energetico universale: e le immagini, lungi dall’essere finte, sono fenomeni veri alla stregua di quelli naturali. Il carattere del cinese classico xiang significa, infatti, sia «immagine» sia «fenomeno»: perché, diversamente da quanto non accada nella filosofia platonica che tiene separato il mondo delle vere idee da quello delle immagini false -, nella cultura orientale l’immagine è sempre viva e vera ed esprime la continuità di quel movimento invisibile di trasformazione continua cui è soggetto l’universo e cui prende parte lo stesso pittore. Ecco cosa afferma il maestro Shitao nel suo Della Pittura: «Il paesaggio è generato da me così come io sono generato dal paesaggio (…). Montagne e fiumi incontrano il mio spirito. Le loro tracce mi cambiano, mi trasformano». Come non pensare alle riflessioni di Merleau-Ponty sulla pittura di Cézanne, l’artista che si è reso capace di manifestare l’invisibile nel visibile. Come non pensare al modo sempre diverso con cui Cézanne sentiva il suo Mont Saint Victoire.
Marcello Ghilardi, The line of the arch. Intercultural issues between asthetics and ethics , Mimesis International, Milano-London-Paris, pagg. 140, € 15

Il Sole Domenica 14.2.16
L’ultima verifica sperimentale
Sull’onda di Einstein
di Vincenzo Barone


Nel centenario della relatività generale, due giganteschi rivelatori hanno captato per la prima volta le onde gravitazionali, i sussulti dello spazio-tempo
Le indiscrezioni si susseguivano da settimane, e finalmente giovedì scorso è arrivata la comunicazione ufficiale. A un secolo esatto dalla predizione teorica, dovuta ad Albert Einstein, due giganteschi rivelatori hanno captato per la prima volta i sussulti dello spazio-tempo, le onde gravitazionali. Il risultato, di importanza epocale, è il frutto di un’analisi effettuata congiuntamente dalla collaborazione americana Ligo, responsabile degli strumenti che hanno rivelato le onde, e dalla collaborazione europea Virgo (cui partecipa, in posizione di primo piano, il nostro Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), che ha il proprio rivelatore a Cascina, vicino a Pisa. Vengono le vertigini (e i brividi) a pensare che ciò che è stato osservato non è, come è sempre successo finora, qualcosa che si propaga nello spazio-tempo, ma lo spazio-tempo stesso, che si increspa come la superficie di uno stagno quando vi gettiamo un sasso.
Nel caso delle onde gravitazionali, i sassi sono rappresentati da eventi cosmici estremi, che coinvolgono oggetti incredibilmente massicci. L’onda scoperta da Ligo è stata prodotta dalla fusione di due buchi neri a più di un miliardo di anni luce dalla Terra. In questo evento, una massa pari a quella di tre Soli si è convertita (sempre Einstein!) in una quantità inimmaginabile di energia di radiazione gravitazionale, diluitasi poi in tutto l’universo e giunta fino a noi come un impercettibile refolo.
A immaginare per primo le «onde gravifiche» (così le chiamava) fu, nel 1905, il fisico matematico francese Henri Poincarè, che però le inserì in un contesto sbagliato, quello della teoria oggi nota come relatività ristretta. Le vere onde gravitazionali furono previste da Einstein come conseguenza della «seconda» relatività, la relatività generale, nel giugno del 1916. Per molto tempo, tuttavia, il loro status teorico rimase dubbio (l’illustre astrofisico britannico Arthur Eddington diceva che viaggiavano «alla velocità del pensiero»).
Lo stesso Einstein, tornando nel 1936 sulla questione, ebbe un ripensamento e si convinse che le onde gravitazionali non esistessero. Spedì il lavoro che conteneva questa conclusione a una rivista americana, la Physical Review, la quale lo sottopose, come di consueto, al giudizio di un revisore anonimo, che diede parere negativo alla pubblicazione, segnalando un errore nel ragionamento. Einstein, non abituato alla peer review, si indispettì per la procedura . Scrisse al direttore della rivista dicendo di non averlo autorizzato a mostrare il lavoro ad altri. «Non vedo alcuna ragione – aggiunse – per replicare ai commenti, comunque erronei, del vostro esperto. A causa di questo incidente preferisco pubblicare l’articolo altrove». Ma il revisore – che era probabilmente Howard Percy Robertson, uno dei massimi specialisti di relatività aveva ragione, e quando Einstein corresse l’errore, le onde gravitazionali tornarono a esistere (su un’altra rivista). Fu evidente fin dall’inizio, tuttavia, che dovevano essere debolissime e molto difficili da osservare, e per alcuni decenni nessuno se ne occupò più.
Ci vollero, negli anni Sessanta, l’ingegno e l’ostinazione di un fisico americano, Joe Weber, per aprire la via alla ricerca sperimentale delle onde gravitazionali. Weber ideò delle «antenne» costituite da grandi cilindri di metallo che avrebbero dovuto vibrare all’arrivo di un’onda. Fu un’invenzione importante, ma nel 1969 Weber incappò in un infortunio opposto a quello di Einstein: sostenne di aver visto in abbondanza, per di più delle onde che non c’erano (si trattava di falsi segnali). Le antenne di Weber hanno comunque svolto un ruolo notevole, lasciando poi il posto a una nuova generazione di rivelatori molto più sensibili, gli interferometri laser, sviluppati a partire dagli anni Ottanta negli Stati Uniti da Rainer Weiss e Ronald Drever, fondatori di Ligo, e in Italia da Adalberto Giazotto, il “padre” di Virgo.
Deformando lo spazio-tempo, un’onda gravitazionale modifica le distanze e le dimensioni degli oggetti. L’effetto è minuscolo, dell’ordine di un miliardesimo del diametro atomico. Per osservare distorsioni spaziali così piccole, gli interferometri usano due fasci laser perpendicolari, che vengono inviati su e giù, in tubi a ultra-vuoto lunghi alcuni chilometri; se un’onda gravitazionale modifica le distanze percorse nelle due direzioni, i fasci vanno fuori fase e producono una figura di interferenza. È come misurare la distanza della Terra da Sirio con una precisione pari allo spessore di un capello: per quanto sembri incredibile, gli interferometri Ligo e Virgo sono in grado di farlo.
Una conferma indiretta dell’esistenza delle onde gravitazionali era già venuta nei decenni scorsi dallo studio della pulsar binaria PSR 1913+16, un sistema costituito da due stelle di neutroni che ruotano l’una attorno all’altra, il cui periodo orbitale varia a causa dell’emissione di energia sotto forma di radiazione gravitazionale. Ma la rivelazione diretta delle onde gravitazionali, inaugurata dal lavoro delle collaborazioni Ligo e Virgo, oltre a rappresentare il coronamento sperimentale della relatività generale, apre prospettive astrofisiche e cosmologiche esaltanti. Finora l’universo è stato esplorato soprattutto per mezzo delle onde elettromagnetiche (luce, radiazione infrarossa, raggi X, ecc.). Le onde gravitazionali spalancano una nuova importantissima finestra sugli aspetti più misteriosi del cosmo e sui suoi primi vagiti.
Nel 1931 Einstein visitò l’osservatorio di Mount Wilson in California, dove ebbe modo di ammirare il telescopio da due metri e mezzo (all’epoca il più grande al mondo) con cui Edwin Hubble aveva scoperto l’espansione dell’universo. Alla moglie Elsa che lo accompagnava, qualcuno disse che gli astronomi usavano quello strumento per svelare i segreti del cosmo. «Mio marito lo fa su un pezzo di carta», rispose candidamente lei. Era vero, ma le teorie devono essere convalidate dagli esperimenti.
Ci sono voluti cento anni, due rivelatori lunghi chilometri e un immenso sforzo scientifico e tecnologico per verificare la predizione delle onde gravitazionali fatta nel 1916 su un pezzo di carta. Ma ne è valsa la pena, e nessuno avrebbe potuto immaginare una festa di compleanno più bella per la teoria einsteiniana.

Il Sole Domenica 14.2.16
Aristotele uomo dell’anno
I 2400 anni del filosofo
di Dorella Cianci


Il 2016 per l’Unesco è l’anno di Aristotele e già si annunciano iniziative nel mondo, fra cui spicca quella dell’Università di Salonicco, che terrà un grande convegno in Maggio. Com’è noto Aristotele è stato ed è un pilastro della cultura occidentale che si è consolidato lungo il Medioevo,soprattutto per l’aspetto etico e religioso, ma anche per tutto il Rinascimento, divenendo un autore canonico nella formazione pedagogica. Nonostante il ritorno di Platone nel Quattrocento, lo Stagirita non perse mai, per i giovani di diverse epoche, il ruolo di richiamo alla scienza, ma anche alle possibilità dell’uomo, poiché aveva inquadrato il suo punto di vista sulla terra, togliendolo esclusivamente a una dimensione celeste.
A differenza di Platone, Aristotele aveva compreso che l’educabilità dell’uomo sente spesso l’esigenza di confrontarsi con il tribunale della realtà, senza dover necessariamente delegare tutto al cielo ed è qui che nasce il concetto del “guardando s’impara” teorizzato nella Poetica, perché – per il filosofo – più degli insegnamenti è opportuno affidarsi alla consuetudine.
Nel volume Aristotele fatto volgare, a cura di David Lines (University of Warwick) e Eugenio Refini (John Hopkins University), pubblicato nella collana diretta da Claudio Ciociola e scaturito da un convegno tenutosi nella Normale di Pisa, è riportato un passo della Prefazione dell’Etica Nicomachea nella tradizione latina medievale di Concetto Marchesi dove si comprende la centralità di Aristotele per la storia: «La storia dell’aristotelismo è ancora da farsi: e sarà una storia grandiosa. Ricercare le vie per cui il pensiero umano si lasciò condurre nella successione di molti secoli è rivelare la genesi, lo sviluppo, la lotta giovanile e il trionfo finale di una civiltà nova che procede alla conquiste del vero» (1904).
Magistrali si rivelano, anche oggi, le parole di Garin sul ritorno dei filosofi antichi inteso come il ritorno di un mondo mai scomparso e resistente ai soprassalti del tempo, allora come oggi. Il ritorno dell’antico non è una curiosità da musealizzare, non è un surplus del sapere da utilizzare a effetto, ma è un corredo genetico che di autore in autore porta alla riconquista delle origini.
Veniamo dunque alla peculiarità di Aristotele, tanto da dover pensare di dedicare proprio a lui l’anno in corso, nonostante i trend interpretativi della società contemporanea ci appaiano molto diversi. Già nel nono, nel dodicesimo e nel tredicesimo secolo, le traduzioni si occuparono sempre più di Aristotele, non di Platone e, pian piano, dall’Aristotele “morale”si passò all’Aristotele “logico” della Poetica, figlio dei tempi moderni, maestro nel vero, inventore di ogni riflessioni scientifica sul teatro teorico di ogni produzione artistica. L’anno di Aristotele ci invita ad alcune riflessioni incardinate sull’importanza delle azioni più che dei tipi umani (i caratteri). Aristotele è stato il primo a teorizzare l’ineluttabilità: ciò che accade deve accadere. Quando si parla del dolore però per l’uomo, nella tragedia come nella vita, è consigliabile mettersi a guardare, imparando dal dolore (proprio e altrui), ma di certo l’azione non si può bloccare, né si può intervenire sull’evento.
L’ineluttabilità tuttavia non vuol dire lasciarsi trasportare senza agire. L’agire umano è sorretto dal volere, poiché, nella tragedia e nella vita, i personaggi assumono dignità più dell’autore. L’autore lentamente scompare e l’azione dei personaggi è protagonista sulla scena, senza il bisogno di scusarsi delle nefandezze compiute, poiché Aristotele ci insegna che l’uomo può scegliere di compiere azioni terribili, anche quando è stato educato al bene. Come ha affermato Taplin nel 1996 le azioni tragiche non hanno bisogno della «parabasi», come accade nella commedia, cioè le azioni terribili non hanno bisogno di un’apologia, poiché è nella natura umana l’ineluttabilità del eventi peggiori. Siamo personaggi in cerca di autore? No. Siamo personaggi il cui autore è un doppiatore, dove il venticello dell’ineluttabilità ci passa accanto, ma l’azione ha il centro della scena.
Aristotele è il maestro di Pirandello e anche di Borges nelle sue riflessioni sull’autore-doppiatore. Non è un caso che maschera e volto, nel mondo greco, siano la stessa parola, poiché entrambi costituiscono ciò che “offriamo agli altri” tramite la vista. Siamo maschere non “addomesticate” dall’autore, né lo cerchiamo; sappiamo che egli esiste e doppia le nostre stesse azioni. Per capire questo è interessante una miniatura di un codice Vaticano Urbinate 355 dell’Hercules furens di Seneca,conservato nella Biblioteca Vaticana, dove ci sono sopra i personaggi, sotto il coro e in un cantuccio l’autore che legge, anzi doppia ciò che accade in un modo senza «parabasi», in un mondo senza giustificazioni.
Aristotele fatto volgare. Tradizione aristotelica e cultura volgare nel Rinascimento , a cura di David Lines ed Eugenio Refini, Ets edizioni, Pisa 2015, pp. 357, €35.Info sui 2400 anni di Aristotele : http://aristotleworldcongress2016.web.auth.gr/?q=en

Il Sole Domenica 14.2.16
Piero Gobetti a 90 anni dalla morte
Il valore dell’intransigenza
Il sacrificio come testimonianza politica in un Paese contrassegnato dal conformismo intellettuale e morale
di Emilio Gentile


«Era un giovane alto e sottile, disdegnava l’eleganza della persona, portava occhiali a stanghetta, da modesto studioso: i lunghi capelli arruffati dai riflessi rossi gli ombreggiavano la fronte». Così un amico degli anni giovanili, lo scrittore e pittore Carlo Levi, descriveva la figura di Piero Gobetti, molti anni dopo la sua morte prematura, avvenuta dopo una breve esistenza vissuta con febbrile attività di intellettuale militante della cultura e della politica.
Nato a Torino il 19 giugno 1901, da genitori di origine contadina che in città si erano dedicati al piccolo commercio, Gobetti aveva compiuto da poco diciassette anni, quando, ancora studente di liceo, il 1° novembre 1918 fondò una rivista quindicinale «Energie Nove», «scritta da giovani e diretta specialmente ai giovani», come egli stesso la definiva in una lettera. Gobetti non aveva ancora compito 21 anni quando, conclusa nel 1920 l’esperienza della prima rivista, il 12 febbraio 1922 avviava la pubblicazione di una rivista settimanale, «La Rivoluzione Liberale», presto affiancata da una casa editrice e due anni dopo anche da una rivista di critica letteraria, «Il Baretti».
E non aveva ancora compiuto 25 anni Gobetti, quando morì esule a Parigi, il 15 febbraio 1926, dopo aver lasciato l’Italia per sottrarsi alle persecuzioni fasciste e proseguire nella capitale francese la sua attività di editore.
Durò dunque appena otto anni l’esperienza culturale e politica del giovane intellettuale torinese. Ma in quegli otto anni il suo pensiero e la sua attività, pur nella rapidità di uno svolgimento precocemente stroncato dalla morte, lasciarono un segno originale nella cultura politica dell’Italia contemporanea, soprattutto per il valore etico della sua rigorosa e intransigente opposizione al fascismo trionfante nei primi anni di Mussolini al potere.
L’opposizione di Gobetti era motivata fin dall’inizio dalla convinzione che il fascismo fosse, per usare le sue parole, «l’autobiografia della nazione», cioè «un’indicazione di infanzia perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’entusiasmo», un espediente «attraverso cui l’inguaribile fiducia ottimistica dell’infanzia ama contemplare il mondo semplificato secondo le proprie misure».
Nel peculiare giudizio di Gobetti sul fascismo è compendiata la ragione principale del suo impegno militante di intellettuale politico, che lo spinse a bruciare in pochi anni la sua esistenza con un ardore e una dedizione idealistica, congiunti tuttavia a una realistica consapevolezza della gravità della situazione in cui operava e dei rischi che il suo antifascismo intransigente avrebbe comportato per la sua persona. Gobetti affrontò i rischi con una ascetica volontà di sacrificio, senza alcuna ottimistica illusione di vittoria, ma convinto che la stessa testimonianza del sacrificio fosse una affermazione di valore politico in un Paese dove la grande maggioranza della gente era propensa al compromesso piuttosto che al rigore, ed era portata all’unanimità del conformismo piuttosto che all’eresia della critica. Bisogna concepire il nostro lavoro – scriveva Gobetti il 23 novembre 1922, poche settimane dopo la “marcia su Roma” – «come un esercizio spirituale, che ha la sua necessità in sé, non nel suo divulgarsi. C’è un valore incrollabile al mondo: l’intransigenza e noi ne saremo, per un certo senso, in questo momento, i disperati sacerdoti». Siamo sinceri fino in fondo, aggiungeva Gobetti, «c’è chi ha atteso ansiosamente che venissero le persecuzioni personali perché dalle sofferenze rinascesse uno spirito, perché nel sacrificio dei suoi sacerdoti questo popolo riconoscesse de stesso».
Questo ideale di intransigenza derivava dalla convinzione che «la vita è tragica» e questa convinzione, più che essere frutto di una personale esperienza prima dell’avvento del fascismo al potere, era certamente maturata attraverso le sue letture giovanili, attraverso i filosofi e gli intellettuali che avevano maggiormente contribuito a formare la sua visione della vita, come Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Alfredo Oriani, Giuseppe Prezzolini, Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi, Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, Carlo Cattaneo, Karl Marx, oltre agli scrittori del suo Piemonte, come Vittorio Alfieri, cui dedicò la sua tesi di laurea, al quale si sentiva affine per l’odio verso la tirannide e l’amore per la libertà.
Nell’opera di rigenerazione nazionale alla quale l’adolescente Piero si sentiva chiamato fin dagli anni del liceo, era esplicito il riferimento al lavoro delle generazioni precedenti la sua, che avevano aperto la strada e preparato il terreno, pur senza esser riusciti a portare l’impresa a compimento, perché travolti dall’esperienza della Grande Guerra. Si trattava di un compito molto ambizioso, coltivato con giovanile entusiasmo, attraverso una formazione culturale varia, con una intelligenza vivacissima e molto acuta nell’osservazione della realtà ma nello stesso tempo condizionata da un intellettualismo astratto e un po’ libresco, che spesso portava il giovane Gobetti a tradurre in formule perentorie complessi problemi di indagine storica e di valutazione politica, mosso dall’urgenza etica, prima che politica, di accelerare i tempi di attuazione della sua rivoluzione liberale. Egli vedeva soprattutto nel movimento operaio una genuina forza di emancipazione capace di svolgere una funzione autenticamente liberale, nonostante «il primo movimento laico d’Italia, capace di recare alla sua ultima logica il significato rivoluzionario moderno dello Stato e di concludere in una nuova etica e in una nuova religiosità la lotta contro le morte fedi».
Libertà, autonomia, disciplina volontaria, religiosità laica, disponibilità al sacrificio: erano questi i concetti e gli ideali fondamentali della rivoluzione liberale che Gobetti voleva promuovere in Italia operando per la formazione di una nuova classe dirigente nelle quale quei concetti e quegli ideali fossero qualità del carattere, virtù essenziale della sua azione e dei suoi obiettivi. Contro il fascismo che esaltava l’autorità e la gerarchia totalitaria, Gobetti replicava che «il problema italiano non è di autorità, ma di autonomia: l’assenza di una vita libera fu attraverso i secoli l’ostacolo fondamentale per la creazione di una classe dirigente».

Il Sole Domenica 14.2.16
Quei 114 titoli ora riediti
di Cesare De Michelis


«L’Editore deve essere un iniziatore di cultura, un organizzatore di lavoro spirituale», e quindi, sprezzante, si faceva beffe della maggior casa editrice italiana del momento, quella del mitico Emilio Treves da poco scomparso, che in copertina dei suoi libri aveva una lucerna sempre accesa, ora bollata come specchio dell’«incultura nostra», capace di inventare le «più basse gonfiature e cialtronerie», priva di «ogni carattere, ogni fuoco interiore, ogni anima, ogni originalità»: quando scriveva questi giudizi severi Piero Gobetti aveva appena diciott’anni e si nascondeva sulle pagine di «Energie nove» (5 maggio 1919) dietro lo pseudonimo di Rasrusat (in russo drasticamente «distruggere»), ma già nutriva ben più grandi ambizioni, nella convinzione che si poteva fare «in questo campo d’altro e di meglio» seguendo le tracce di chi già aveva intrapreso un diverso cammino, da Formiggini alla Voce, da Carabba a Laterza.
Era un ragazzo, ma sapeva dove voleva arrivare e guardava avanti, gli occhi fermi sotto gli occhialini coi quali lo ritrarrà Casorati e la mano sinistra sul cuore a garantire il suo impegno: «Penso un editore come un creatore», scriverà qualche anno dopo, disegnando come in un autoritratto il suo editore ideale, sempre più convinto di dover «rappresentare un intero movimento di idee», anzi di esserne «addirittura l’iniziatore», senza pregiudizi però e anche senza ortodossie, aperto a una pluralità di contributi che desse conto della vitalità del dibattito e del fervore della ricerca.
«Ho additato la via da percorrere concludeva trionfante -. Bisogna buttarvisi senza paura», perché, se «un editore deve essere tutt’altro che uno speculatore o un mercante», «il progresso culturale rappresenta sempre anche un buon affare», in quanto «gli aderenti al suo gruppo di idee» diventano il pubblico stabile e fedele dei suoi libri.
C’è qualcosa di febbrile ed eccitato nei gesti e nei pensieri di questo ragazzo cresciuto in fretta negli anni drammatici e convulsi del primo dopoguerra e costretto a misurarsi con la più radicale crisi della democrazia europea: si descrive come un ribelle con «l’anima e l’inquietudine di un barbaro» che si esalta alle notizie della rivoluzione bolscevica, interpretandola paradossalmente come «la negazione del socialismo e un’affermazione di liberalismo», una straordinaria occasione per «ricreare un’anima» al popolo, opponendosi a qualsiasi materialismo.
La battaglia comincia con dei fogli periodici ispirati dalla lezione della «Voce», ma non ci vorrà molto per rendersi conto che a sostegno di quegli interventi tempestivi e immediati sono necessari opuscoli e libri i primi all’insegna della «Rivoluzione liberale» usciranno nel ’22 che costruiscano un pensiero solido e duraturo: già l’anno dopo col suo nome in copertina Piero Gobetti è un editore, di se stesso certo ma anche di autori come Prezzolini e Salvatorelli, che non si fermerà più: 15 titoli nel ’23, 25 nel ’24 e addirittura 53 l’anno dopo, poi, all’inizio del ’26, va in Francia, dove morirà il 16 febbraio di novant’anni fa; ciò nonostante in quel tragico anno usciranno ancora 15 titoli scelti da lui.
In tutto i titoli di Gobetti sono 114 usciti in cinque anni o poco più, che ora il Centro Studi intitolato al suo nome con le Edizioni di Storia e Letteratura sta riproponendo in edizioni anastatiche arricchite da preziosi apparati critici sotto la direzione di Bartolo Gariglio; dal 2011 ne sono usciti più di quaranta e un’altra decina ne uscirà quest’anno, tutti con in copertina il simbolo disegnato come un ovale di caratteri greci da Casorati, «cosa ho a che fare con gli schiavi» (Ti moi sun doùloisin ).
Il catalogo testimonia la lungimirante intelligenza di un editore che è stato «fondamentalmente uomo di biblioteca e di tipografia, artista e commerciante» e ha saputo spaziare dalla politica alla storia, dalla letteratura alle arti, per affermare con le parole l’urgenza di un cambiamento profondo della società e di un rinnovamento morale che mai si è davvero compiuto.
Il candore di Gobetti è persino struggente, mentre il suo entusiasmo ancora ci travolge e ci ammalia, e che questa straordinaria avventura dello spirito sia stata interrotta, schiacciata dalla violenza omicida di avversari feroci, riaccende ogni volta uno sconsolato rimpianto e una rabbia furiosa, perché allora si consumò un delitto del quale continuiamo a pagar care le conseguenze.
Le Edizioni di Storia e Letteratura hanno sede a Roma in via delle Fornaci 38, tel. 0639670307, www.storiaeletteratura.it.

Il Sole Domenica 14.2.16
L’esilio, un mondo
di David Bidussa

«Io sento che i miei avi hanno avuto questo destino di sofferenza, di umiltà: sono stati incatenati a questa terra che maledirono e che pure fu la loro ultima tenerezza e debolezza. Non si può essere spaesati». Così scrive Piero Gobetti nel suo ultimo testo, non destinato a essere pubblico e che la sua rivista «il Baretti» pubblica postumo nel marzo 1926 con il titolo Commiato. Il testo chiude la raccolta Avanti nella lotta, amore mio!, a cura di Paolo Di Paolo che Feltrinelli ha mandato in libreria in questi giorni.
Sullo sfondo di quelle parole il timore è quello dello spaesamento. È probabile che nella malinconia della fuga non sia estraneo a Piero Gobetti lo stato d’animo che ha incrociato pochi mesi prima, nell’agosto 1925, quando si reca a Parigi, prima ricognizione, per prender confidenza con il luogo che ormai già si profila come la méta per ricominciare daccapo.
In quell’occasione vede Ernesto Rossi e percepisce quale potrebbe essere il suo destino. Rossi non glielo nasconde e glielo racconta con le stesse parole con cui in quei giorni scrive a Gaetano Salvemini, il suo maestro: «Qui non sto a far niente. Non arricchisco neppure il mio spirito di nuove impressioni, di nuove sensazioni. Non so guardare intorno a me: mi manca ogni curiosità. Mi pare di essere continuamente in un torpore da idiota».
Nel 1926 le loro strade si incroceranno nei due sensi: Gobetti all'inizio di febbraio si muove verso Parigi dove morirà poco dopo (il 16 febbraio) e Rossi verso l’Italia, deciso a uscire da quella terra di nessuno che percepiva essere l’esilio che gli regalerà una breve libertà. Nel 1930 entrerà in carcere e ne uscirà solo nel 1943 con la caduta del regime.
Ma è probabile che quel timore – «essere continuamente in un torpore da idiota» – non sia estraneo nella dichiarazione di radicamento che Gobetti enuncia partendo e sapendo di intraprendere un viaggio lungo, comunque inaugurando una nuova fase della propria vita. Patria non è solo lì dove si nasce, ma anche laddove si può provare a ricominciare daccapo, perché a casa le porte sono chiuse. Una condizione che tiene a mente i luoghi propri, ma non li trasforma in idoli, ma nemmeno li considera perduti, perché temporaneamente in mano al tiranno.
Il ritorno – se e quando sarà possibile – non è la restaurazione di un ordine precedentemente infranto. Perché si dia continuità, non è sufficiente tornare: è indispensabile fare i conti con il passato.
È vero che nell’esilio volontario, come in quello coattivo è insita l’idea di una pena. Tuttavia la storia dell’esilio non è solo coltivare la sconfitta. È anche guardarsi intorno, fare proprio il mondo e così prepararsi al ritorno. Un percorso che vive del senso dei propri luoghi di origine, e connette quel sentimento con le opportunità che l’esilio fornisce, con la curiosità di appropriarsi dei mondi umani, culturali che offre quella nuova condizione. Se solo si è disponibili all’ascolto.

Il Sole Domenica 14.2.16
L’editore ideale di Piero
di Giorgio Dell’Arti


Signorina. «Gentilissima Signorina, Era proprio ineluttabile che nell’autunno del 1918 io dovessi armarmi di tutta l’impertinenza di cui sono dotato per turbare la tranquillità e gli ultimi riposi estivi di tutti gli amici che ho conosciuto e conosco o no. Si rassegni anche lei alla sorte cui tutti si sono adattati e s’accontenti di mandare un sospiro di soppiatto! Forse non le è ignota la ragione di questa mia lettera. Ad ogni modo eccogliela in due parole. (Due veramente sono un po’ poche!) Dunque... Ho deciso di fondare un periodico studentesco di cultura che s’occuperà di arte, letteratura, filosofia, questioni sociali etc... È fatto da soli giovani. Titolo «Energie Nove» quindicennale, L. 0,30 il numero. Abbonamento alla prima serie di 10 numeri L. 3,00. Sostenitore L. 10. Scopi: destare movimenti d’idee in questa stanca Torino, promuovere la cultura, incoraggiare studi tra i giovani etc. Il primo numero è ormai interamente redatto: uscirà ai primi di novembre. Vedo che la noia si disegna sul suo viso a tante notiziette; ma se Dio vuole sono finite. Quando uscirà il giornale troverà non più notiziette ma pensiero...» (Gobetti diciottenne scrive la sua prima lettera ad Ada Prospero, che vive con la famiglia nel suo stesso palazzo, 14 settembre 1918).
Salvemini. «Salvemini è un genio. Me lo immaginavo proprio così. L’uomo che sviscera le questioni, che la fa smettere agli importuni e ti presenta tutte le soluzioni in due minuti, definitive. [...] Un’altra persona di cui sono entusiasta è Prezzolini col quale ci si trova quasi sempre insieme a pranzo e a spasso, franco, semplice, pratico. Editore propriamente come lo pensavo io. L’editore più intelligente d’Italia come t’avevo detto. E insieme uno spirito libero, un capo ameno
che si mette a cantare le canzoni popolari per Firenze. Faremo con Prezzolini parecchie cose insieme. La sua libreria della Voce sarà meravigliosa [...]» (Piero ad Ada, Firenze, 17 aprile 1919).
Bilancio. «[...] Sono, non dirò un buon combattente per ragioni di ironia, ma certo un degno soldato e il mio spirito rude non ha mai avuto bisogno di esasperate confessioni; i cimenti estremi coincidevano senz’altro con la psicologia cotidiana. Ora sono passati venti anni, e mi sembra di aver vissuto due vite. È l’ora di un bilancio, che non sia un arido elenco di risultati intellettuali, ma la scoperta delicata e terribile di una responsabilità. Le ragioni del pessimismo e dell’ottimismo [...]»
(Piero Gobetti, 1921).
Editore. «Ho in mente una mia figura ideale di editore. Mi ci consolo, la sera dei giorni più tumultuosi, 5, 6 per ogni settimana, dopo aver scritto 10 lettere e 20 cartoline, rivedute le terze bozze del libro di Tilgher o di Nitti, preparati gli annunci editoriali per il libraio, la circolare per il pubblico, le inserzioni per le riviste, litigato col proto che mi ha messo un errore nuovo dopo 3 correzioni, mandato via rassegnato dopo 40 minuti di discussione il tipografo che chiedeva un aumento di 10 lire per foglio, senza concederglielo; aiutato il facchino a scaricare le casse di libri arrivate troppo tardi quando ci sono solo più io ad aspettarlo, schiodata io stesso la prima cassa per vedere i primi esemplari e soffrire io solo del foglio che è sbiancato in una copia, e consolarmi che tutto il resto va bene [...] Quattordici ore di lavoro al giorno tra tipografia, cartiera, corrispondenza, libreria e biblioteca (perché l’editore dev’essere fondamentalmente uomo di biblioteca e di tipografia, artista e commerciante) non sono troppe anche per il mio editore ideale. L’importante è ch’egli non debba aver la condanna del nostro pauperismo, non debba vivere di ripieghi tra le persecuzioni del prefetto, il ricatto della politica attraverso
il commercio [...]» (1925).
Notizie tratte da: Piero Gobetti,, Ada Prospero, La forza del nostro amore, a cura di Pietro Polito e Pina Impagliazzo, Passigli , Bagno a Ripoli, pagg. 232, € 28

Il Sole Domenica 14.2.16
Valori orientali
Confucio, ritorno alle virtù cinesi
di Gian Carlo Calza


Pare ormai definitivamente assodato che i guai principali della Cina nella sua crescita vertiginosa degli ultimi anni siano in gran parte dipendenti dal degrado morale serpeggiante nello stato. Qualcuno potrebbe obiettare che non si tratta certo di un’esclusiva nazionale del Paese di Mezzo, come viene tradizionalmente chiamato. Ma esso è in particolare significativo ed è probabile faccia venire, più che altrove, i brividi ai politici che la guidano. Il fatto è che da sempre la Cina è stata retta da governanti la cui caratteristica fondamentale è l’essere interpreti della volontà del Cielo ed esprimere la virtù che, dall’imperatore in giù, li rendeva degni di reggere la cosa pubblica.
In Cina il compito di regnare e di amministrare lo Stato non discende, come da noi, da un diritto divino o dalla volontà di un popolo. È piuttosto la virtù umana posseduta dal sovrano a rendere lui e i suoi collaboratori degni della considerazione del Cielo che conferisce il proprio mandato al fondatore di una dinastia e ai successori. La conservazione di tale virtù e del buon governo che ne discende è la sola garanzia di quel diritto al mandato che cessa di esistere al momento stesso della scomparsa della virtù nel governante più alto.
Questa dottrina, antichissima, fu impersonata e per così dire codificata dal Maestro Kong (Kongzi), cioè Confucio, vissuto per la tradizione fra il 551 e il 479 avanti la nostra era. Da lui nacque il sistema di pensiero che influenzò l’amministrazione della cosa pubblica in Cina per oltre duemila anni. Oggi, dopo un’interruzione di circa mezzo secolo dovuto alle strategie della rivoluzione culturale, esso sta tornando in auge. Però come?
Il Confucianesimo è stato un formidabile strumento di controllo ideologico politico per secoli. Addirittura esso è stata la forza attraverso la quale gli invasori della Cina sono stati assorbiti e sinizzati dai Tuoba-Wei nell’alto medio evo ai mongoli di Qubilai ai Mancesi di Nurhachi. Ed è straordinario come esso sia stato plasmato e riplasmato per adattarlo alle esigenze dei mutamenti dinastici e politici dei venticinque secoli dall’insegnamento originario. L’ultima trasformazione, quella in corso del Nuovo Confucianesimo, è fortemente sostenuta dallo stesso premier Xi Jinping (se ne parlò nel numero del 20 settembre scorso a p. 23).
Tuttavia non bisogna pensare che l’insegnamento di Confucio sia essenzialmente uno strumento politico, tutt’altro. Diventa uno strumento politico perché è una forza sociale assai flessibile fuorché nei principi fondamentali a sostegno dei valori umani. È una forza sociale non per maturazione di diritti acquisiti o “geneticamente” ricevuti, ma per costante, indefettibile, conquista personale.
In sostanza, il confucianesimo è potenzialmente una disciplina di vita per il singolo e il suo gruppo, quali possono ovviamente essere e a volte sono anche cristianesimo, islam, induismo e ogni forma religiosa del pianeta.
Tuttavia questa disciplina dell’incarnare la virtù va non solo conosciuta, ma deve essere manifestata concretamente per primo nell’esistenza dell’autorità massima, l’imperatore, che deve mostrare ai sudditi di possederla ed esercitarla. E addirittura la tradizione vuole che Confucio stesso fu nella sua dura esistenza esempio di tale esercizio “confuciano” quando il suo buon governo e correttezza assoluta come ministro lo fecero cadere in disgrazia e allontanare dallo stato che stava risanando.
Confucio e il confucianesimo sono ovviamente da sempre oggetto di studio da noi dove il maestro cinese fu fatto conoscere già dai gesuiti nel Seicento. Di recente i suoi testi sono stati oggetto in Italia di una notevole opera di nuove traduzioni e riletture interpretative come per molte delle grandi figure filosofico-religiose dell’epoca cinese classica.
E però bisogna spendere una parola particolare per il volume di Maurizio Scarpari Confucianesimo, appena uscito per la Morcelliana di Brescia, in quanto si pone su un piano a sé. Anzitutto va detto che il libro, scritto dal principale filologo cinese classico italiano, si avvale di un apparato critico ineccepibile, ma questo è il meno a parere di chi scrive. Il fatto è che Scarpari, pur mantenendo sempre l’approccio accademico il più alto, si è speso in un modo che rarissimamente gli accademici osano, ma che è più frequente nella tradizione filosofico religiosa dell’Asia. Mi riferisco all’interpretazione dei grandi classici ad uso di lettori meno attrezzati per facilitare la comprensione del messaggio spirituale ivi contenuto al fine della propria auto-formazione.
Nel sotto-capitolo dove illustra La figura del saggio (2.3), per esempio, citando i Dialoghi di Confucio (2.1): «Chi governa tramite l’eccellenza morale può essere paragonato alla stella polare, fissa al suo posto mentre tutte le stelle attorno le rendono omaggio... La maestosità del saggio è sintetizzabile in queste parole, attribuite a Confucio. Così come l’universo si basa su leggi eterne che regolano i ritmi naturali e i cicli stagionali, il sovrano illuminato governa il mondo in virtù della forza morale di cui il Cielo l’ha dotato, irradiando sull’intera umanità i suoi benefici influssi. Si tratta di un dono divino, concesso a pochi per il vantaggio di molti, che, derivando dall’intima intesa tra uomo ed entità divine, rende possibile trasferire alla società l’ordine superiore che regola il movimento armonico dei corpi celesti, il ciclo delle stagioni e l’alternarsi inarrestabile del giorno e della notte».
Il libro è ricchissimo di suggestioni come questa. Esse non riguardano ovviamente solo i saggi o gli imperatori illuminati, entrambe figure rarissime. Ciascuno è chiamato nella grande crisi attuale a elevare la propria condizione spirituale prima di ogni altra. Senza di che non potrà realizzarsi neppure il risanamento della politica o dell’amministrazione né di ogni altro settore sociale della Cina. E come della Cina anche di noi e dei nostri Paesi.
Maurizio Scarpari, Confucianesimo , Brescia, Morcelliana, pagg. 148, € 18

il manifesto Alias 14.2.16
Spettri ideologici infieriscono sulle rovine senza tempo
Beni culturali. Paolo Matthiae offre una cronaca ragionata delle devastazioni tra Oriente e Occidente: da Ninive a Cartagine dai santuari di Afrodite alla biblioteca Bayt al-Hikma
di Valentina Porcheddu


Sono spesso eventi catastrofici e violenti a «congelare» nei depositi archeologici resti di civiltà multiformi. Affinché il suo lavoro di ricostruzione storica abbia senso, l’archeologo deve dunque augurarsi di trovare nella terra impronte vigorose del passato. È questo l’amaro paradosso da cui parte Paolo Matthiae – studioso di archeologia del Vicino Oriente – per scrivere Distruzioni, Saccheggi e Rinascite Gli attacchi al patrimonio artistico dall’antichità all’Isis (Electa, pp. 263, euro 24,90). A lui – che con la scoperta di migliaia di tavolette cuneiformi riconsegnò alla luce la regale Ebla (Tell Mardikh, Siria) – spetta l’ingrato compito di analizzare distruzioni recenti e «agghiaccianti», che dissipano il patrimonio dell’umanità in nome di ideologie solo apparentemente nuove.
Il libro è denso e a tratti ostico, perché pagina dopo pagina si accumula il numero impressionante di monumenti e opere da rimpiangere, perdite doppiamente insopportabili quando la cancellazione di una memoria è frutto della scelleratezza degli uomini e non dell’implacabile furia della natura. L’Isis, afferma Matthiae, è un aberrante fenomeno contemporaneo, nel quale si possono ravvisare, tuttavia, istinti «umani» comuni a tutte le epoche trascorse. L’annientamento del nemico, considerato altro da sé e condannato alla perdita definitiva di ogni identità, non è prerogativa dei «soldati» del Califfo Al-Baghdadi.
Gli jihadisti che combattono i «falsi idoli» per tornare alla purezza dell’Islam, sono la malvagia proiezione di spettri ideologici che già si manifestarono nel passato. Con un linguaggio all’altezza di un pubblico di specialisti ma accessibile a tutti, Matthiae redige una cronistoria ragionata delle devastazioni tra Oriente e Occidente, non senza far trapelare i sentimenti che lo animano e che oscillano tra rabbia e costernazione più ci si avvicina al presente. «La città e le sue case, dalle fondazioni ai fastigi, distrussi, devastai, diedi alle fiamme. La cinta muraria interna ed esterna, i templi degli dèi, le torri templari di mattoni e di terra, quanti ve ne erano, io rasi al suolo»: recitano così gli Annali di Sennacherib d’Assiria nel rievocare la distruzione di Babilonia del 689 a.C.
Anche Ninive scomparve nel 612 a.C. per mano di Nabopolassar di Babilonia e del medo Ciassare: gli scavatori ottocenteschi del sito riconobbero gli sfregi nei volti di pietra dei re d’Assiria. Gerusalemme subì un assedio di oltre diciotto mesi. Del palazzo reale, del tempio di Yahweh e delle mura della città, Nabucodonosor II fece macerie: era il 586 a.C. Duecento anni dopo, come racconta Arriano nell’Anabasi di Alessandro, il grande condottiero macedone sentì l’impulso di schiacciare Persepoli. Vendetta fu compiuta per la sofferenza dei Greci, che videro cadere i templi di Atene sotto l’orda dei barbari d’Asia.
Dalle rovine di Cartagine cosparse di sale dai Romani nel 146 a.C. non nacque niente. Il tempio di Salomone depredato da Nabucodonosor II rifiorì, invece, durante il Rinascimento quando Francesco Borromini traspose ciò che di Gerusalemme andò perduto nella tortile Roma del barocco. All’epoca del Califfato degli Abbassidi, nel vero medioevo, la Bayt al-Hikma era la più magnificente biblioteca del tempo e raccoglieva manoscritti non solo arabi ma anche persiani e greci, siriaci, ebraici, copti e sanscriti. Il nipote di Gengis Khan diede Baghdad alle fiamme e una leggenda tramanda che il Tigri si tinse d’inchiostro, visto che l’esercito mongolo non risparmiò neppure il sapere.
La conquista e la distruzione totale di grandi centri del mondo antico avvenne, per Matthiae, in un quadro di opposizione frontale tra culture ostili ma, precisa lo studioso, accanimenti gravissimi si sono verificati nella storia anche nell’ambito di una medesima cultura. Basti pensare alla devastazione dei luoghi sacri ai pagani durante la Tarda Antichità, dopo che l’editto di Milano del 313 aveva «liberato» la religione cristiana. L’imperatrice Eudossia finanziò Giovanni Crisostomo affinché si scagliasse contro Afrodite, i cui santuari erano culle per riti licenziosi mentre gli apologeti infierirono su Mitra, Zeus e Asclepio allo stesso modo in cui i militanti dell’Isis hanno abbattuto gli dèi semitici della cosmopolita Palmira.
Fanatismo religioso e ideologia politica impugnano facilmente le armi, sembra dirci Matthiae, che non fa mai confronti diretti fra passato e presente ma fornisce al lettore gli strumenti per riflettere. La storia è percorsa frammento per frammento dall’autore. Non si tralasciano le vicende della Rivoluzione Francese del 1789, perché persino l’oblio della monarchia venne pagato con la distruzione di cinquantuno tombe di reali nella cattedrale di Saint-Denis e le ceneri dei cuori imbalsamati a Val-de-Grâce.
Arrivata al XX secolo, l’analisi dovrebbe cedere il passo a qualche risposta ma Matthiae preferisce porre a se stesso e agli altri una domanda che rincorre la sua eco. Come è possibile che dopo i micidiali bombardamenti della Seconda guerra mondiale, le cui vittime non furono superiori alle perdite di opere dell’ingegno umano – quattrocentodiciasette solo i capolavori di pittura italiana bruciati nella Flakturm Friedrichshain di Berlino – la storia si sia ripetuta? Coventry, Dresda, Hiroshima. Terrorizzare una popolazione attraverso la minaccia di una distruzione totale, umiliare l’orgoglio e la memoria di un popolo cancellando i simboli della sua eredità culturale, distruggere un’intera città e i suoi abitanti per costringere alla resa un popolo ostinato, sono pratiche che tornano tristemente d’attualità. Ad esse si aggiungono depredazioni e scavi clandestini che finanziano il jihad.
Eppure, all’indomani del 1945 l’Europa sembrava avere preso coscienza della universalità del patrimonio, che aveva favorito con la pace la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, le Scienze e la Cultura (Unesco). Il compito di salvaguardare il patrimonio dell’umanità sancito nell’articolo 1 della convenzione venne rafforzato in seguito ai conflitti in Medio Oriente con la Convenzione dell’Aja del 1954 ma le distruzioni perpetrate nel 2015 dallo Stato Islamico in Iraq e Siria e il business connesso al traffico di reperti archeologici, dimostrano l’inefficacia dei trattati internazionali. Se l’intangibilità del patrimonio culturale è una sfida dell’oggi, le rinascite – da Bamyan a Palmira – sono vincolate al superamento di altre utopie.

Il Sole Domenica 14.2.16
La Chiesa & la loggia
Cari fratelli massoni
Al di là della diversa identità, non mancano i valori comuni: comunitarismo, beneficenza, lotta al materialismo
di Gianfranco Ravasi s.j.


Leggevo qualche tempo fa su una rivista americana che la bibliografia internazionale sulla massoneria supera i centomila titoli. A questo interesse contribuisce certamente l’aura di segretezza e di mistero che, più o meno a ragione, avvolge in una sorta di nebula le varie “obbedienze” e i “riti” massonici, per non parlare poi della stessa genesi che secondo la storica inglese Frances Yates, «è uno dei problemi più discussi e discutibili in tutto il campo della ricerca storica» (curiosamente il saggio della studiosa era dedicato all’Illuminismo dei Rosa-Croce, tradotto da Einaudi nel 1976). Non vogliamo ovviamente addentrarci in questo arcipelago di “logge”, di “orienti”, di “arti”, di “affiliazioni” e di denominazioni, la cui storia spesso si è intrecciata – nel bene e nel male – con quella politica di molte nazioni (penso, ad esempio, all’Uruguay ove ho partecipato recentemente a vari dialoghi con esponenti della società e della cultura di tradizione massonica), così come non è possibile tracciare linee di demarcazione tra l’autentica, la falsa, le degenere, o la para-massoneria e i vari circoli esoterici o teosofici.
Arduo è anche disegnare una mappa dell’ideologia che regge un universo così frammentario, per cui forse si può parlare di un orizzonte e di un metodo più che di un sistema dottrinale codificato. All’interno di questo ambito fluido si incontrano alcuni crocevia abbastanza delineati, come un’antropologia basata sulla libertà di coscienza e di intelletto e sull’uguaglianza dei diritti, e un deismo che riconosce l’esistenza di Dio lasciando però mobili le definizioni della sua identità. Antropocentrismo e spiritualismo sono, quindi, due percorsi abbastanza scavati all’interno di una mappa molto variabile e mobile che non siamo in gradi di abbozzare in modo rigoroso.
Noi, però, ci accontentiamo solo di segnalare un interessante volumetto che ha una finalità molto circoscritta, quello di definire il rapporto tra massoneria e Chiesa cattolica. Intendiamoci subito: non si tratta di un’analisi storica di questa relazione né delle eventuali contaminazioni tra i due soggetti. È, infatti, evidente che la massoneria ha assunto modelli cristiani persino liturgici. Non si deve dimenticare, ad esempio, che nel Seicento molte logge inglesi reclutavano membri e maestri tra il clero anglicano, tant’è vero che una delle prime e fondamentali “costituzioni” massoniche fu redatta dal pastore presbiteriano James Anderson, morto nel 1739. In essa, tra l’altro, si affermava che un adepto «non sarà mai un ateo stupido né un libertino irreligioso», anche se il credo proposto era alla fine il più vago possibile, «quello di una religione su cui tutti gli uomini sono d’accordo».
Ora, l’oscillazione dei contatti tra Chiesa cattolica e massoneria ebbe movimenti molto variegati, giungendo anche a palesi ostilità, contrassegnate da anticlericalismo da una parte e scomuniche dall’altra. Infatti, il 28 aprile 1738 papa Clemente XII, il fiorentino Lorenzo Corsini, promulgava il primo documento esplicito sulla massoneria, la Lettera apostolica In eminenti apostolatus specula in cui dichiarava «doversi condannare e proibire... le predette Società, Unioni, Riunioni, Adunanze, Aggregazioni o Conventicole dei Liberi Muratori e des Francs Maçons o con qualunque altro nome chiamate». Una condanna reiterata dai successivi pontefici, da Benedetto XIV fino a Pio IX e Leone XIII, che affermava l’incompatibilità tra l’appartenenza alla Chiesa cattolica e l’obbedienza massonica. Lapidario era il Codice di Diritto Canonico del 1917 il cui canone 2335 recitava: «Chi si iscrive alla setta massonica o ad altre associazioni dello stesso genere che tramano contro la Chiesa o le legittime autorità civili, incorre ipso facto nella scomunica riservata simpliciter alla Santa Sede».
Il nuovo Codice nel 1983 temperò la formula, evitando il riferimento esplicito alla massoneria, conservando la sostanza della pena sia pure destinata in senso più generale a «chi dà il nome a un’associazione che complotta contro la Chiesa» (canone 1374). Ma il testo ecclesiale più articolato sull’inconciliabilità tra l’adesione alla Chiesa cattolica e alla massoneria è la Declaratio de associationibus massonicis emanata dalla Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede il 26 novembre 1983, a firma del Prefetto di allora, il cardinale Joseph Ratzinger. Essa precisava appunto il valore dell’asserto del nuovo Codice di Diritto Canonico ribadendo che rimaneva «immutato il giudizio della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, perché i loro principi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l’iscrizione ad esse rimane proibita».
Il volumetto a cui ora rimandiamo è interessante perché allega – oltre a un’introduzione dell’attuale Prefetto della Congregazione cardinale Gerhard Müller – sia due articoli di commento a questa Declaratio pubblicati allora dall’«Osservatore Romano» e dalla «Civiltà Cattolica», sia due documenti di altrettanti episcopati locali, la Conferenza episcopale tedesca (1980) e quella delle Filippine (2003). Si tratta di testi significativi perché affrontano le ragioni teoriche e pratiche dell’inconciliabilità tra massoneria e cattolicesimo come i concetti di verità, di religione, di Dio, dell’uomo e del mondo, la spiritualità, l’etica, la ritualità, la tolleranza. In particolare è significativo il metodo adottato dai vescovi filippini che articolano il loro discorso attraverso tre traiettorie: la storica, quella più esplicitamente dottrinale e quella degli orientamenti pastorali. Il tutto è scandito secondo il genere catechetico delle domande-risposte: esse sono 47 e permettono di entrare anche nei particolari, come la cerimonia di iniziazione, i simboli, l’uso della Bibbia, il rapporto con le altre religioni, il giuramento di fratellanza, i gradi gerarchici e così via.
Queste varie dichiarazioni di incompatibilità tra le due appartenenze alla Chiesa e alla massoneria non impediscono, però, il dialogo, come è esplicitamente affermato nel documento dei vescovi tedeschi che già allora elencavano ambiti specifici di confronto come la dimensione comunitaria, la beneficenza, la lotta al materialismo, la dignità umana, la conoscenza reciproca. Si deve, inoltre, superare quell’atteggiamento di certi ambienti integralistici cattolici che – per colpire alcuni esponenti anche gerarchici della Chiesa a loro sgraditi – ricorrevano all’arma dell’accusa apodittica di una loro appartenenza massonica. In conclusione, come scrivevano già i vescovi di Germania, bisogna andar oltre «ostilità, oltraggi, pregiudizi» reciproci, perché «rispetto ai secoli passati sono migliorati e mutati il tono, il livello e il modo di manifestare le differenze» che pure continuano a permanere in modo netto.
Congregazione per la Dottrina della Fede. Dichiarazione circa le associazioni massoniche (23 novembre 1983) , Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, pagg. 73, € 10

Il Sole 14.2.16
La posizione della «Gran Loggia Regolare d’Italia» sui rapporti con il «Grande Oriente d’Italia»
«Non ci sono trattative per unificare la Massoneria»
Avv. Giuseppe Bentivegna


Scrivo la presente, in nome e per conto del dott. Fabio Venzi, legale rappresentante dell’Associazione “Gran Loggia Regolare d’Italia”, a seguito della pubblicazione in data 9 febbraio u.s. sul quotidiano Il Sole-24Ore (pag. 8), nonché sui siti web facenti capo alla medesima testata, di un articolo, a firma di Roberto Galullo, dal titolo «La massoneria marcia verso la loggia unica».
L’intero articolo, infatti, risulta profondamente errato e riportante notizie non rispondenti a verità, oltreché gravemente lesive per l’Istituzione rappresentata dal dott. Venzi, per i motivi che seguono, e più segnatamente:
1) è falsa l’affermazione secondo cui il Consiglio delle Proposte Generali della G.L.R.I. avrebbe approvato una «raccomandazione per instaurare un rapporto di amicizia con il Grande Oriente d’Italia»; nessuna risoluzione in tal senso è mai stata votata (o anche solo discussa) in seno all’organo direttivo della G.L.R.I.;
2) è parimenti falsa la circostanza secondo cui la Gran Loggia Unita d’Inghilterra avrebbe «richiesto», (rectius preteso), la stipula di un «trattato di amicizia» tra le due Istituzioni massoniche;
3) non è vero che «la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, secondo i suoi regolamenti generali, non può riconoscere due obbedienze massoniche: se assegnasse il riconoscimento al G.O.I. dovrebbe toglierlo alla G.L.R.I.». È sufficiente, sul punto, leggere gli statuti della Gran Loggia inglese (reperibili sul sito internet della stessa), per verificare che la stessa ha la piena facoltà di riconoscere anche più Istituzioni massoniche sul medesimo territorio, purché ritenute parimenti regolari;
4) In ultimo, è del tutto fantasiosa la circostanza secondo cui il succitato fantomatico “trattato di amicizia”, dovrebbe costituire un mero espediente di transizione, tale da consentire alle due Istituzioni massoniche (G.L.R.I. e G.O.I.) di «trovare un accordo sulle condizioni da attuare per una storica unificazione», la cui «prima conseguenza sarà il passaggio dei fratelli dalla G.L.R.I. verso il G.O.I. (o viceversa, anche se appare più improbabile)».
Tale affermazione, oltre che falsa e destituita di qualsiasi fondamento, risulta anche gravemente lesiva dell’immagine e della onorabilità della G.L.R.I., ipotizzandosi, secondo la tesi dell’autore, la futura definitiva chiusura della Gran Loggia Regolare d'Italia.
Non esiste, infatti, alcuna trattativa per pervenire ad una unificazione tra le due Istituzioni massoniche,e tantomeno risulta pianificato, neanche in ipotesi, un “passaggio di fratelli” dall'una all'altra struttura.
Si prende atto ma, lungi da volontà di creare tensioni interne al Grli e rifiutando analisi mai fornite, si fa presente che le notizie del servizio nascono da fonti e atti interni alle obbedienze massoniche.

Internazionale 14.2.16
Il modernismo nell’era di Tito
Una mostra a Belgrado ricostruisce l’epoca in cui il design doveva trasmettere l’idea di una Jugoslavia unita
Radmila Stanković, Nin, Serbia


Gli organizzatori della mostra Design per un nuovo mondo, inaugurata al museo della storia della Jugoslavia a Belgrado (ino al 29 maggio), hanno lavorato a stretto contatto con i designer che verso la ine degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, ancora molto giovani, fecero la loro comparsa sulla scena nazionale. La mostra dedica particolare attenzione alle aree marginali del design grafico, ovvero quelle non legate alla propaganda politica, e soprattutto al lavoro del club degli studenti di tecnica(Kst) di Belgrado, che fu particolarmente innovativo e diede vita a un’identità visiva che oggi potremmo deinire un brand.
La caratteristica di questi lavori – per la maggior parte sono manifesti – è che sono “originali”, un elemento che è di per sé una critica al concetto di comunicazione di massa: initi tutti in collezioni private, furono realizzati in un solo esemplare. La selezione delle opere esposte è stata curata da Ivan Manojlović, del museo della storia della Jugoslavia, e da Koralka Vlajo, del museo dell’arte e dell’artigianato di Zagabria.
Oltre ai manifesti sono esposti anche più di duecento pubblicazioni provenienti dalla biblioteca nazionale della Serbia, cento francobolli del fondo del museo della storia della Jugoslavia, ottanta scatolette di fiammiferi della collezione del museo dell’arte e dell’artigianato di Zagabria e trecento stemmi di organizzazioni operaie provenienti dal fondo del museo delle arti applicate e da collezioni private. Visitando la mostra risulta chiaro che i designer e gli architetti impegnati nei grandi progetti statali si erano battuti in dagli anni quaranta per introdurre nel paese i valori estetici del modernismo.
La funzione del manifesto, in quanto principale mezzo di comunicazione di massa (soprattutto prima dell’arrivo della televisione, ma anche in seguito), era rinsaldare la iducia nella lotta di liberazione nazionale e nella rivoluzione, il senso di fratellanza e unità, e il culto della personalità del maresciallo Tito.
I manifesti invitavano a prendere parte a iniziative, difondevano un’immagine di benessere, suggerivano come usare il tempo libero e spingevano (in modo a volte abile e a volte impacciato) ad acquistare prodotti jugoslavi. Vlajo sottolinea il fatto che “i simboli statali svolgevano un ruolo fondamentale nella deinizione dell’identità nazionale”. Può sembrare strano ma anche le scatole di iammiferi e i calendari erano fondamentali in questo senso.
Vlajo spiega anche il signiicato dei simboli ufficiali della Federazione socialista jugoslava, come la bandiera a tre colori, la stella rossa a cinque punte e l’emblema nazionale: “Lo stemma della federazione (disegnato da Antun Augustinčić e Đorđa Andrejević Kun nel 1943) è un insieme di signiicati traslati. Come quelli di molti altri paesi socialisti, era ispirato in modo particolare all’emblema dell’Unione Sovietica e quindi comprendeva la tradizionale corona di fasci di grano, la stella a cinque punte, i raggi di sole (simbolo irrinunciabile di un futuro migliore) e la data di nascita dello stato (il mito della fondazione)”.
Le sei fiaccole dell’unione
Nello stemma le fiaccole (passate da cinque a sei negli anni sessanta) “rappresentavano le singole repubbliche e insieme formavano una iamma comune con un chiaro riferimento alla fratellanza e all’unità. Lo stemma era onnipresente: appariva sui documenti uiciali, anche quelli riservati, così come le emissioni di obbligazioni e, naturalmente sulle monete e le banconote”.
Questa mostra fa vedere con chiarezza come i simboli statali fossero sottoposti a un controllo molto severo. Il loro uso non era mai lasciato al caso o all’interpretazione dei singoli artisti. I francobolli e le cartoline, all’epoca molto difuse, erano considerati anche un’ottima occasione per difondere simboli e miti rassicuranti: dal ritratto di Tito ino ai leggendari combattenti della resistenza e alla potenza della classe operaia. Lo stato sfruttava i suoi simboli anche per gli appelli elettorali, per promuovere il piano quinquennale, per incoraggiare alla partecipazione nelle brigate di lavoro giovanili e per celebrare le ricorrenze statali.
Nella sfera culturale, che era meno irreggimentata dallo stato, il design assunse negli anni cinquanta e sessanta un carattere estetico modernista, impiegando forme astratte che si usavano di rado nella propaganda statale. I mezzi di comunicazione di massa continuarono per un certo tempo a nascondersi dietro un modernismo politicamente neutrale, ma alla ine degli anni sessanta emerse una nuova generazione di designer che si raggruppavano intorno alle riviste per i giovani di Lubiana, Zagabria e Belgrado e sperimentavano sulla base di nuovi principi estetici o tecniche innovative. Le copertine di queste riviste non risparmiavano critiche allo stato e al partito.
All’inizio degli anni settanta la censura politica mise temporaneamente a tacere questi canali, ma l’identità visiva delle mostre d’arte e delle rappresentazioni teatrali ha continuato a essere uno strumento per un design sovversivo che altrove non trovava più spazi.
Era evidentemente più facile far approvare dalla censura piccole dosi di trasgres-
sione destinate a un pubblico intellettuale di nicchia. A partire dalla ine degli anni settanta la scena della stampa giovanile visse una nuova primavera grazie a riviste come Polet, Mladina, Omladinske novine, Mladost che in copertina prendevano in giro i simboli uiciali.
“Negli anni ottanta, con l’avvento della Neue slowenische Kunst, la nuova arte slovena, che prendeva in prestito il vocabolario della propaganda totalitaria, fu creato un universo simbolico capovolto. Lo scopo di questi artisti era mettere in ridicolo il sistema esistente usando proprio i metodi iconograici ormai abusati che erano stati deiniti durante l’era della ‘ediicazione dello stato’”.
Artisti come Tomislav Gotovac e Marijan Molnar, per esempio, organizzavano performance artistiche imprimendosi simboli comunisti sul corpo.
Il settimanale Danas, fondato nel 1982, usò i simboli dello stato nelle sue copertine illustrate da Mirko Ilić per presentare in modo critico la situazione politica del paese. Questa breve rassegna dei cambiamenti di senso dati ai simboli dello stato jugoslavo si conclude inevitabilmente con un’immagine di distruzione.
“Nel 1989”, racconta la curatrice, “Danas scelse di raigurare il crollo della Repubblica federale socialista di Jugoslavia con un’immagine dell’emblema del paese che andava in iamme”.