sabato 13 febbraio 2016

Repubblica 13.2.16
A sua immagine. L’eterna sfida dell’arte alla divinità
Le religioni monoteiste hanno tutte un fondo iconoclasta. Ma dall’epoca bizantina a oggi, la formula magica per aggirare il tabù c’è: l’astrattismo
di Silvia Ronchey

Testo estratto dalla lezione di Silvia Ronchey che inaugura un nuovo ciclo delle “ Lezioni di storia” a cura di Laterza, dedicate a Islam e Occidente L’incontro domani alle 11, alla Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della musica di Roma

L’archicidio, lo sterminio di statue e di templi cui stiamo assistendo, non è un evento nuovo nella storia. Si è già prodotto diciassette secoli fa, quando il cristianesimo prese ad affermarsi come religione di stato. In alcune zone del globo, peraltro curiosamente prossime a quelle in cui oggi infuria il sedicente stato islamico, la giovane chiesa si diede ad aggredire i simboli del molteplice culto ellenico che l’aveva preceduta. «Quegli uomini vestiti di nero», lamenta nel IV secolo Libanio, un intellettuale siriano
amico di Giuliano l’Apostata, «corrono contro i templi e portano legna per arderli, pietre e ferro per devastarli, e quelli che non ne hanno si accaniscono con le braccia e con i piedi, demoliscono i muri, abbattono le statue».
Quando nel marzo 2001, su ordine del Mullah Omar, i Taliban fecero esplodere le gigantesche statue dei Buddha di Bamyan, emanarono un decreto: «Quelle statue sono state e restano dei santuari di infedeli e gli infedeli continuano ad adorare e venerare le immagini. Allah onnipotente è l’unico vero santuario e tutti i falsi santuari devono essere fatti a pezzi». Da questo proclama nasce l’opinione diffusa sulla matrice iconoclasta delle distruzioni operate dall’Is verso intere architetture sacre, chiese, monasteri, siti come quello dell’antica città di Palmira.
La menzione dell’immagine, nel Corano, era legata alla lotta cultuale contro l’idolatria. È nel contesto della predicazione di un dio unico in una società politeista che va inquadrato il famoso versetto contro «le pietre idolatriche» (V, 90), considerate opera di Satana, la cui venerazione è accomunata ad altri comportamenti riprovevoli come il consumo di vino. Non c’è nel Corano una teoria dell’immagine né una posizione definita in proposito. La condanna delle immagini come “impure” si trova nei vari corpora degli hadith, che peraltro differiscono nella tradizione sunnita, più rigorista, e in quella sciita, alla cui maggiore libertà si attribuisce il grande sviluppo nella Persia musulmana di un’arte eminentemente figurativa, ancorché profana, come quella della miniatura. Nel XIII secolo l’imam di Cordova e grande esegeta Al-Qurtubi testimonia un’apertura degli ulema alle immagini, per di più tridimensionali, proprio sulla base di brani coranici.
La verità è che nell’islam la “questione dell’immagine” non è mai stata centrale, come invece nel cristianesimo. È stata anzi proprio la tolleranza islamica verso le immagini a preservare capolavori dell’arte figurativa cristiana come le icone preiconoclaste di Santa Caterina del Sinai. Anche le immagini sacre, secondo certe regole, sono presenti lungo la storia dell’arte islamica, come attestano ad esempio le rutilanti raffigurazioni del viaggio notturno di Maometto verso Gerusalemme, della sua ascesa ai cieli e della sua visita al paradiso e all’inferno. La tradizione iconografica del Profeta esiste da otto secoli e forse anche da prima, come ha dimostrato Oleg Grabar, e nella letteratura degli hadith non c’è divieto di raffigurare né Maometto né altri profeti, contrariamente a quanto si potesse credere all’inizio del 2006, durante la cosiddetta crisi delle caricature. Gli esperti avevano già all’epoca sottolineato la natura prevalentemente sociale e politica, non teologica, del problema: le caricature di Maometto investivano meno la sfera della rappresentabilità che quella della blasfemia; e provenivano da paesi, come la Danimarca o la Francia, con un’immigrazione musulmana problematica. Si sono visti gli esiti, purtroppo, all’inizio del 2015, con il martirio di Charlie Hebdo.
Ma che cos’è realmente la cosiddetta iconoclastia religiosa? Eikones, immagini, klastia, dal greco klao, “rompere”: “rottura dell’immagine”, o “con l’immagine”. Fin dal pensiero greco, da Platone, la funzione dell’immagine, dell’eikone, era, nel mondo sensibile che le dava supporto, fornire una proiezione approssimativa dell’intelligibile puro, del mondo delle idee. Nel mito della caverna, alla fine del VII libro della Repubblica, Platone spiega che il mondo sensibile è un’immagine effimera e imperfetta del mondo delle idee, che è invece il mondo vero. L’unico rapporto tra i due piani è quello della mimesis, l’imitazione. Platone condanna dunque l’arte figurativa o “imitativa” perché allontana dalle idee: produce copie di copie, immagini di immagini, e per questo possiede il valore conoscitivo più basso.
Nella cristianizzazione del pensiero platonico e neoplatonico si affaccia fin da subito la consapevolezza che il sovramondo — l’iperuranio di Platone, il regno dei cieli di Cristo — non può rappresentarsi se non per approssimazione. Ne emerge un problema di irrappresentabilità: del divino come dell’idea. Ma, al di qua delle vette filosofiche greche, l’aniconismo era già ebraico (pensiamo a tutta la polemica biblica contro l’idolatria) e di qui era passato all’”eresia giudaica” cresciuta per due secoli all’ombra delle sinagoghe: il cristianesimo. Sono tipicamente aniconici i simboli cristiani primitivi: la figura geometrica del pesce, quella ancora più astratta della croce. La letteratura cristiana primitiva e anche l’azione della chiesa delle origini è dominata dalla lotta contro gli idoli: gli apologeti e poi, a partire dalla seconda metà del III secolo, alcuni dei più celebri e autorevoli padri della chiesa (come Origene ma anche Eusebio di Cesarea o Clemente di Alessandria) si scagliarono contro il culto delle eikones.
Ed ecco convergere le due tradizioni — la condanna filosofica dell’immagine, la condanna religiosa dell’idolo — quando a partire dal IV secolo la teologia cristiana si costituisce all’interno di una struttura sostanzialmente platonica. Dall’iconoclastia primitiva ereditata dal giudaismo e motivata dalla lotta ai culti pagani — la stessa che accomuna anche l’islam — si passa a un’iconoclastia filosofica che proviene da Platone. La filosofia di riferimento del cristianesimo è e rimane quella platonica fino al cosiddetto iconoclasmo, un nuovo statuto dell’immagine. L’icona non sarà assimilabile all’idolo solo se non intenderà rappresentare naturalisticamente la figura sacra, ma promuovere la riflessione teologica sulla sua essenza sovrasostanziale.
L’iconoclasmo bizantino segna una svolta. L’immagine non è più vietata né permessa. Cambia, diventa un’altra cosa, che ci porterà dritti al Novecento. Il dibattito dell’VIII e IX secolo bizantino, nel sancire la non figuratività dell’immagine sacra, apre la via all’astrattismo. Alla teologia dell’icona formulata allora si richiameranno apertamente i teorici russi (Florenskij, Trubeckoj) sulla cui base l’arte astratta, in Russia e poi in Francia, si costituirà dichiaratamente «sul modello dei pittori di icone» (Matisse). L’iconoclastia, la rottura “con” l’immagine, ha permeato un’ampia quota della nostra arte: non ha nulla a che fare con la guerra alla quale assistiamo, che distrugge, invece, l’arte.
Le azioni di guerra dei terroristi radicali islamici non hanno a che fare con una dottrina immanente alla religione islamica, ma con quella che di recente viene descritta come “iconoclastia politica”, propria delle azioni rivoluzionarie e diretta alla distruzione dei simboli dell’ordine cui si oppongono. L’archicidio cui stiamo assistendo non ha a che fare con la teologia né con la filosofia dell’immagine, ma con la brutale volontà di cancellare non solo e non tanto l’archeologia ma, letteralmente, il passato.