Repubblica 10.2.16
Il Premio Nobel per l’Economia racconta come
ha cominciato la sua ricerca. Mentre esce la raccolta dei suoi articoli
“La grande frattura”
Quando ho scoperto le disuguaglianze
di Joseph E. Stiglitz
Nessuno
oggi può negare che esista negli Stati Uniti una grande frattura tra i
super ricchi – a volte definiti l’1 per cento – e gli altri. La loro
vita è diversa: hanno preoccupazioni, aspirazioni e stili di vita
diversi. Gli americani comuni si preoccupano di come pagheranno il
college ai figli, di che cosa succederebbe se qualcuno in famiglia si
ammalasse seriamente, di come faranno quando andranno in pensione. Negli
abissi della Grande recessione, decine di milioni di persone si
chiedevano se sarebbero riuscite a conservare la loro casa. Milioni di
esse non ci sono riuscite.
Gli appartenenti all’1 per cento – e
ancor più i membri del primo 0,1 per cento – discutono di altre
questioni: che tipo di jet comprare, o il modo migliore per nascondere
il reddito al fisco («Cosa accadrebbe se gli Stati Uniti dovessero
premere per la fine del segreto bancario in Svizzera? Poi verrebbero le
Isole Cayman? E Andorra: è sicura? »). Sulle spiagge di Southampton, a
Long Island, si lamentano del rumore che fanno i vicini con l’elicottero
quando tornano da New York. Si preoccupano anche di che cosa
succederebbe se dovessero cadere dal piedistallo: significherebbe cadere
da una certa altezza, e in rare occasioni avviene.
Non molto
tempo fa, mi trovavo a una cena offerta da un brillante e preoccupato
membro dell’1 per cento. Consapevole della grande frattura, il nostro
ospite aveva radunato importanti miliardari, accademici e altri
personaggi allarmati dalla disuguaglianza. Dopo i primi convenevoli,
udii un miliardario – che si era affacciato alla vita ereditando una
fortuna – discutere con un altro del problema degli americani
scansafatiche che stavano cercando di vivere alle spalle degli altri.
Poco dopo, i due passarono senza soluzione di continuità a parlare dei
paradisi fiscali, apparentemente ignari dell’ironia. Più volte, quella
sera, i plutocrati riuniti evocarono Maria Antonietta e la ghigliottina
mentre si rammentavano reciprocamente i rischi di lasciar crescere
troppo la disuguaglianza: «Ricordati della ghigliottina» era il
ritornello. E ripetendo il ritornello concordavano implicitamente: il
livello di disuguaglianza in America non è inevitabile, non è il
risultato di leggi economiche inesorabili. È questione di politica e di
politiche. E possibile, sembrava che dicessero quei potenti, porvi
rimedio.
Questo è soltanto uno dei motivi per via dei quali i
timori riguardo alla disuguaglianza sono diventati materia urgente anche
tra l’1 per cento: sono sempre più numerosi gli appartenenti a questo
gruppo consapevoli del fatto che una crescita economica sostenuta,
condizione della loro stessa prosperità, non può aver luogo mentre la
grande maggioranza dei cittadini ha redditi stagnanti.
Nel 2014,
al raduno annuale dell’élite mondiale a Davos, Oxfam ha presentato con
ineludibile chiarezza la misura della crescente disuguaglianza globale
ricorrendo a un esempio: quell’anno, un autobus contenente 85 miliardari
del mondo avrebbe trasportato una ricchezza pari a quella della metà
inferiore della popolazione globale, qualcosa come tre miliardi di
persone. Nel giro di un altro anno l’autobus si sarebbe rimpicciolito:
sarebbero bastati 80 posti. In modo altrettanto drammatico, Oxfam rivelò
che il primo 1 per cento degli abitanti del pianeta possedeva quasi la
metà della ricchezza mondiale ed entro il 2016 ne avrebbe posseduta
tanta quanta il restante 99 per cento complessivamente.
La grande
frattura incombeva da tempo. Nei primi decenni successivi alla Seconda
guerra mondiale la crescita nel nostro paese tenne un passo mai visto
prima, e interessò l’intera popolazione. Tutti i segmenti della società
videro aumentare il proprio reddito: era una prosperità condivisa. I
redditi di chi stava in basso crescevano più velocemente di quelli di
chi stava in cima.
Fu un’età dell’oro in America, ma i miei
giovani occhi vi scorgevano già qualche ombra. Mentre crescevo – sulla
sponda meridionale del lago Michigan, in una delle città industriali
simbolo del paese, Gary, nell’Indiana – vedevo intorno a me povertà,
disuguaglianza, discriminazione razziale e a volte disoccupazione,
mentre una recessione dopo l’altra colpiva la nazione. I conflitti
sociali erano all’ordine del giorno, perché i lavoratori lottavano per
ottenere una giusta parte della meritatamente acclamata prosperità
americana. Ascoltavo la retorica della società statunitense quale
società della classe media, ma perlopiù la gente che vedevo occupava i
livelli più bassi di quella presunta società della classe media, e le
loro voci non erano fra quelle che incidevano sulla realtà del paese.
Non
eravamo ricchi, ma i miei genitori avevano adeguato il loro stile di
vita al reddito che percepivano, il che alla fine fa molto. I miei
vestiti erano quelli che mi passava mio fratello e che mia madre
comprava sempre durante i saldi [...]. Insieme a molti miei
contemporanei, anelavo a un cambiamento. Ci veniva detto che cambiare la
società era difficile, che ci voleva tempo. Anche se non avevo patito
il genere di difficoltà che tanti miei amici affrontavano a Gary (a
parte un po’ di discriminazione), mi identificavo con loro. Mancavano
decenni al giorno in cui avrei esaminato nei dettagli le statistiche sui
redditi, ma sentivo che l’America non era la terra di opportunità che
dichiarava di essere: esistevano grandi occasioni per alcuni, ma poche
per altri. I racconti di Horatio Alger, almeno in parte, erano favole:
molti americani che lavoravano duramente non ce l’avrebbero mai fatta.
Eppure fui uno dei fortunati ai quali il paese offrì un’opportunità: una
borsa di studio nazionale al merito presso l’Amherst College. Più di
qualunque altra cosa, quell’opportunità apriva un mondo di altre
opportunità nel corso del tempo. [...] Purtroppo, a causa della
crescente disuguaglianza, il modello economico statunitense non ha
funzionato per ampie fette della popolazione: la tipica famiglia
americana oggi sta peggio di come stava venticinque anni fa, tenendo
conto dell’inflazione. La percentuale dei poveri è aumentata. Benché
l’espansione della Cina sia anch’essa caratterizzata da elevati livelli
di disuguaglianza e da un deficit di democrazia, la sua economia
funziona meglio per la maggior parte dei suoi abitanti, avendone fatti
uscire dalla povertà qualcosa come 500 milioni nello stesso periodo in
cui la stagnazione imprigionava la classe media americana.
Un
modello economico che non serve alla maggioranza dei suoi cittadini
difficilmente può assumere il ruolo di modello da emulare per altri
paesi.[…] Di fatto, la crisi non è stata il frutto di un volere divino,
come un diluvio o un terremoto che capita un’unica volta in un secolo. È
stata una cosa che ci siamo procurati da soli: al pari della nostra
smisurata disuguaglianza, è stata il risultato delle nostre politiche e
della nostra politica.
© 2015 Joseph E. Stiglitz. All Rights Reserved.
Published
by arrangement with Agenzia Letteraria Santachiara Pubblichiamo parte
dell’introduzione a La grande frattura in uscita da Einaudi
IL LIBRO La grande frattura (Einaudi, trad. di D. Cavallini e M. L. Chiesara pagg. 435 euro 22)