il manifesto 10.2.16
Trucco dell’India: cresce più della Cina
India.
Il Pil cresce al 7,5% ma potrebbe trattarsi di un «ritocco
metodologico» per aumentare l’ottimismo. Narendra Modi, al secondo anno
di mandato è proiettato verso mete ambiziose di espansione
di Matteo Miavaldi
NEW
DELHI Nella serata di lunedì 8 febbraio il Central Statistics Office
del governo federale indiano ha pubblicato i dati di crescita
dell’ultimo trimestre del 2015, che ha segnato un incremento del 7,3 per
cento. In lieve ribasso, considerando i risultati del resto dell’anno,
ma abbastanza per restituire un dato finale esaltante per il governo di
Narendra Modi e gran parte di India Inc.: il Pil indiano nel 2015 è
cresciuto complessivamente del 7,5 per cento. E per la stampa
internazionale torna quel prurito ai polpastrelli, quel moto interiore
incontenibile che si riflette nel titolone: «L’India cresce più della
Cina!».
La tentazione, quando carta canta e la memoria è corta, è
enorme, soprattutto quando la locomotiva cinese sta attraversando una
crisi sistemica con la crescita ferma al 6,9 per cento – «Cina mai così
lenta», si titola – in quella che Pechino descrive ottimisticamente come
la «Nuova normalità» di transizione da «fabbrica del mondo» trainata
dall’export a «economia matura» basata sui servizi: un quadro che vuole
essere rassicurante dentro e fuori la Muraglia, ma che continua ad
angosciare investitori cinesi e mercati internazionali, come dimostrano
le montagne russe finanziarie dello scorso anno a Shanghai e Shenzhen.
In
mezzo c’è l’India di Narendra Modi, al secondo anno di mandato,
proiettata verso mete ambiziose di espansione esemplificate dal progetto
«Make in India», il biglietto da visita di NaMo nel mondo: un’enorme
campagna di marketing internazionale accoppiata a promesse di
semplificazione burocratica e incentivi all’investimento per attrarre
quegli agognati Foreign direct investments (Fdi) dei quali il
subcontinente ha disperato bisogno, per ridurre l’abisso
infrastrutturale che lo divide dal resto delle cosiddette «economie
emergenti». E per attrarre investitori stranieri tanto fa l’ottimismo e
il «packaging», come si dice: vendere una nazione giovane e dinamica che
«già» cresce più della Cina è più facile che vendere un gigante
dall’enorme potenziale, ma fermo a uno stadio di evoluzione
infrastrutturale che lascia alquanto a desiderare (strade, centrali
elettriche, fabbriche, competenze della manodopera).
Per questo i
tecnici dell’Ufficio di statistica indiano il 30 gennaio del 2015
(settimo mese di mandato dell’Era Modi) hanno operato un «ritocco
metodologico» destinato ad aumentare ottimismo e confusione dentro e
fuori i confini: se fino a quel momento le variazioni del Pil si erano
calcolate tenendo come base l’anno fiscale 2004-05 – quando l’India pre
crack globale del 2008 cresceva eccome – dal 31 gennaio le variazioni
sarebbero partite dall’anno fiscale 2011-12, in piena gestione
fallimentare della crisi da parte del governo Manmohan Singh (Indian
National Congress, Inc).
Allo scoccare della mezzanotte del 30
gennaio 2015, l’economia indiana sulla carta aveva guadagnato ben 5,2
punti percentuali di Pil, trasformando con un colpo di spugna la
preoccupante crescita ferma al 4,7 per cento del 2013-14
nell’entusiasmante crescita al 6,9 per cento del medesimo 2013-14. Senza
che sul campo, ovviamente, cambiasse una virgola. Per dirla con De
Gregori: «Diminuzione dei cavalli, aumento dell’ottimismo».
La
fantasia al potere nel calcolo statistico ha permesso un racconto
algebricamente entusiastico della crescita indiana, ma il raffronto
dell’incremento del Pil con altri indicatori economici sensibili sta
generando non pochi grattacapi di coerenza scientifica agli analisti,
che chiamati a commentare l’alba dell’avvenire indiano faticano a far
quadrare il cerchio dell’economia reale del subcontinente.
Mentre
il Pil galoppa, infatti, le esportazioni sono generalmente in calo
rispetto al 2014, crollano verso i paesi Asean (-25 per cento
all’aprile-novembre 2015 rispetto allo stesso periodo nel 2014) e verso
Cina, Giappone e Corea del Sud (-20 per cento, media tra i tre). Stesso
discorso per l’agricoltura (-25 per cento) e per l’export petrolifero,
per la verità entrambi in parte azzoppati dal crollo del prezzo del
greggio a livello globale. Cifre messe in fila in un editoriale
allarmante – «Unprecedented Decline» – pubblicato lo scorso gennaio
dall’autorevole Economic & Political Weekly, che denuncia
l’incapacità del governo Modi di sostenere le esportazioni nazionali con
politiche ad hoc promesse in campagna elettorale e ancora ferme nel
pantano parlamentare di New Delhi.
Al netto della sindrome
renziana dei «gufi» – che in Bengala e Orissa portano anche bene, parte
dell’iconografia della dea della prosperità Lakshmi – l’economia indiana
sta sì procedendo verso una crescita stabile, vantando un enorme
margine di miglioramento tutto da svelare, ma considerando i giochi
d’ombre della statistica e le variabili meno galvanizzanti dell’economia
reale, la strada da fare è ancora molta. E non è una cattiva notizia.