La Stampa 8.2.16
La lunga corsa di Marchini,
il figlio del partito comunista che salva la destra nella capitale
Famiglia trasversale tra D’Alema , gesuiti e palazzinari
di Fabio Martini
Sono
anni che studia da sindaco e ora che è ad un passo della nomination, si
avvicina un contrappasso memorabile: la destra “salvata” da un figlio
del Pci, dal rampollo di una delle famiglie più comuniste di Roma. Lui è
Alfio Marchini e ad un passo dall’investitura da parte del centrodestra
come candidato sindaco, non rinuncia alla sua identità: «Serve una
politica che sia alla destra di Storace e alla sinistra del Pd. Una
politica liberale in economia, ma anche di solidarietà nei confronti di
chi è in difficoltà. Disabili, disoccupati, ma anche imprese». Un
programma che appare concepito da una società di comunicazione, per
pizzicare un po’ di qua e un po’ di là, ma che sicuramente è nelle corde
di Alfio Marchini.
Il nonno Alvaro, partigiano e amico di Palmiro
Togliatti, costruì nel 1944 il palazzo delle Botteghe Oscure e lo donò
poi al Pci, che ne fece per 50 anni il suo “Cremlino”. In quegli anni di
guerra fredda nonno Alvaro e suo fratello Alfio erano chiamati i
Marchini «calce e martello»: comunisti ma anche palazzinari, che
nell’immaginario di quegli anni significava padroni poco apprezzabili.
Ma i due pragmatici fratelli seppero emanciparsi da quella etichetta,
intrecciando rapporti trasversalissimi con tutti i poteri forti - la
Chiesa, Mediobanca, Giulio Andreotti - e loro nipote, l’Alfio di oggi,
ha ereditato e moltiplicato quei rapporti trasversali. Dunque, è vero
che Alfio è l’ultimo erede di una famiglia che è stata comunista, ma il
vero tratto che lo connota è un altro: con lui torna sulla scena
l’eterno «partito romano», il trasversalissimo partito unico del potere,
quello che con un filo invisibile connette interessi interclassisti e
interpartitici. Cinquantuno anni, cinque figli con due mogli, alle
ultime Comunali il 9,5% presentandosi da solo, Alfio dice di sé: «Sono
un figlio di Roma. Nemico dei poteri marci». Mai sfiorato da ombre nella
sua attività di imprenditore e manager, Alfio Marchini è però in ottime
relazioni con tutti i poteri forti. A Roma non si è mai fatta molta
strada con la Chiesa contro. Lo aveva capito nonno Alfio e fu lui a
raccontare che durante la guerra del Vietnam, grazie alla mediazioni dei
Marchini, il Pci iniziò una trattativa con Paolo VI, per favorire
l’incontro tra esponenti del Vietnam del sud e di quelli del nord dentro
il Vaticano. E lui, il giovane Alfio fu mandato a scuola dai Gesuiti
del Massimo, la stessa del giovane Mario Draghi. Ha buoni rapporti con
l’Opus Dei, diede una mano a don Giussani che gli chiese di salvare il
settimanale “Il Sabato”. La leggenda racconta che D’Alema, proprio
grazie a Marchini, conobbe Enrico Cuccia, il gran patron di Mediobanca e
in queste ore qualcuno ipotizza un fantasioso scenario: quel che resta
delle truppe dalemiane (e dintorni) potrebbe optare per il voto
disgiunto, uno ai candidati nelle liste Pd e uno per Marchini come
sindaco.
E d’altra parte Alfio ci sa fare con tutti: grazie ai
buoni uffici di Irene Pivetti, presidente leghista della Camera, nel
1994 il giovane Marchini entra nel Cda della Rai. Uno dei tanti consigli
di amministrazione della sua vita. Bipartisan anche all’estero. Scrive
Alfio su suo sito: «Sono tra i soci fondatori, nonché Presidente del
Board Italiano, dello Shimon Peres Center For Peace. Sono tra l’altro il
promotore del progetto della Casa della Pace nel 1997, fortemente
voluta da Yasser Arafat e dallo stesso Peres». Marchini è uomo di mondo,
ma non mondano: raramente compare nei salotti romani. E ora alla
vigilia dell’appuntamento della vita, confida il suo cruccio: «Detesto
le etichette». Le detesta perchè il suo inconfessabile obiettivo è
quello di raccogliere consensi tra tutti gli elettori che non voteranno
Pd e Cinque Stelle. Potenzialmente la maggioranza dei romani.