La Stampa 29.2.16
A Roma rinascono gli ebrei di Tripoli
In 3000 scapparono dalla Libia in fiamme
In fuga dai pogrom del Dopoguerra, si stabilirono nel Quartiere Africano
Oggi sono una comunità unita, che ricorda l’esodo e la propria seconda vita
di Ariela Piattelli
A
Roma è rinata la Tripoli ebraica. Una cultura sommersa ha ricominciato a
vivere nella zona che oggi ospita gli ebrei fuggiti dalla Libia. Si
trova al nord del centro, il Quartiere Africano, che comprende vie
intitolate alle ex-colonie italiane, come viale Somalia, viale Etiopia,
viale Eritrea e, ironia della sorte, viale Libia: una zona tranquilla,
residenziale, abitata prevalentemente da famiglie italiane, con
strutture, parchi e servizi.
Nell’estate del ’67 piazza Bologna,
incastonata nel Quartiere Africano, era affollatissima, una rete di
comunicazione per ritrovarsi e connettersi. Trovare un familiare, un
contatto, un indirizzo. Intanto a Fiumicino atterravano i voli partiti
da Tripoli, carichi di profughi ebrei libici, fuggiti, scampati alla
morte e alle rivolte arabe che chiedevano la loro testa. In Libia dopo i
sanguinosi pogrom e un periodo di relativa calma, lo scoppio della
Guerra dei Sei Giorni diventò il pretesto per una nuova caccia
all’ebreo. A Roma sbarcarono in seimila, un gruppo proseguirà il viaggio
per Israele, gli altri, circa tremila, resteranno nella Città Eterna. E
piazza Bologna diventerà per molti anni terra di confronto, in cui come
in una terapia psicanalitica a cielo aperto, ognuno affrontava il
trauma della fuga, mentre i figli si rimboccavano le maniche e
diventavano nuovi italiani. Oggi questa zona è epicentro, insieme al
Vecchio Ghetto, di vita ebraica. Quattro sinagoghe di rito tripolino,
ristoranti caratteristici, negozi, macellerie kasher, vivono in armonia
con la città. La prima sinagoga di rito tripolino fu organizzata
all’indomani dell’arrivo in via Garfagnana, e visto che gli ebrei libici
sono religiosi, si è sentita l’esigenza di aprirne altre. Un vecchio
cinema rimesso a nuovo diventò la sinagoga Beth El, che adesso ospita
fino a settecento fedeli a funzione. Il leader è Shalom Tesciuba, nato a
Tripoli nel ’34. Tesciuba, insieme ad altri “padri”, ha guidato gli
ebrei tripolini di Roma fino ad oggi. «In questa zona viveva già qualche
nostra famiglia - spiega Tesciuba -, così è stato naturale stabilirci
qui». Alcuni passarono per campi profughi e altri alloggi, prima di
arrivare nel Quartiere Africano: una residenza temporanea fu una piccola
pensione a Trastevere, la Locanda Carmel gestita da Miriam Zard, una
signora ebrea tripolina, che fece la crocerossina durante il pogrom del
’46. Miriam era l’unica ad assicurare ai profughi un servizio kasher.
Insieme a lei tanti ebrei romani aiutarono i profughi. «Oggi - dice
Tesciuba - siamo perfettamente integrati nel quartiere. Rispettiamo i
nostri vicini e loro rispettano noi. Abbiamo ottimi rapporti con la
parrocchia accanto, ci facciamo gli auguri e ci scambiamo doni per le
feste». Nel corso degli anni Shalom ha ricoperto cariche nella comunità
ebraica di Roma. Lui bussa alle porte di chi ha bisogno per fare
«tzedakà», beneficenza (letteralmente significa «giustizia», per
bilanciare il mondo), ma ci tiene a ricordare che «questo è un principio
importante per tutti gli ebrei». A Tripoli c’era la tradizione del
«Mharma»: quando qualcuno aveva bisogno di soldi, si apriva un
fazzoletto, ognuno metteva un po’ del suo e si faceva una raccolta. Le
tradizioni tornano nei riti delle loro sinagoghe. È l’eco di una cultura
sommersa, riportata alla vita dai padri per consegnarla ai figli. Un
figlio, Hamos Guetta, è arrivato a piazza Bologna a 11 anni. È
imprenditore nella moda e ha trovato il modo di affrontare il trauma
della fuga da Tripoli raccontando la sua storia, preparando cene aperte
al pubblico, andando in tv. «La nostra fuga fu difficile, passammo per
le rivolte, per gli incendi, non ci fu alcuna pietà per gli ebrei -
racconta Hamos -. Arrivammo soltanto con i vestiti che indossavamo. A
Roma nulla ci ricordava Tripoli, se non noi stessi. Volevamo essere
italiani e staccarci da quel mondo che avevamo lasciato. Adesso i nostri
figli studiano all’università e lavorano, conoscono la nostra storia e
ci interrogano su essa». È l’elaborazione della memoria, che passa per
tre generazioni, contese tra la nostalgia e il taglio netto con il
passato. «Il trauma è stato molto profondo - spiega David Meghnagi,
psicanalista, fuggito da Tripoli a 18 anni -. All’inizio degli anni ’60
gli ebrei libici vivevano una breve pausa, dopo altre persecuzioni e
pogrom. Quindi ci troviamo davanti ad una catena cumulativa di traumi
non elaborati, ma dove funziona la resilienza, e dove l’arrivo in Italia
rappresenta una liberazione». Meghnagi dà un’interpretazione sulla
scelta del Quartiere Africano: «E’ il ritorno del rimosso, qualcosa da
cui sei fuggito ti insegue. La nostalgia del non vissuto emerge». Il
trauma segnò profondamente i bambini di allora, alcuni cancellarono la
vita precedente per rinascere in Italia. In viale Libia è arrivata ad
otto anni Claudia Fellus e adesso è vice presidente della comunità
ebraica di Roma. «Io credo che mio padre abbia scelto di vivere in viale
Libia per assonanza, per nostalgia. Io - racconta - non avevo alcun
ricordo di Tripoli. Era come se fossi nata a Roma. Solo le immagini
della guerra in ex Jugoslavia, le grandi migrazioni dal Kosovo, hanno
riportato alla mia mente la condizione di profuga: così sono andata in
analisi per ricordare la mia vita precedente. Il mio ultimo ricordo di
Tripoli è la fuga, la macchina di mio padre incendiata». La fuga degli
ebrei dai Paesi Arabi è avvenuta in silenzio. All’epoca furono in pochi a
parlarne. «La nostra storia - prosegue Fellus - insegna che non puoi
nasconderti dietro al tuo dramma, ma devi andare avanti. Qui in Italia
oscilliamo tra la volontà di respingere i nuovi profughi e l’accoglienza
tout court. Dovremmo invece esigere il rispetto dei valori per i quali
abbiamo combattuto nei secoli, lo dico da italiana. Valori che noi
abbiamo rispettato e condiviso, e lo dico da profuga. Ebrea libica».