La Stampa 25.2.16
L’Italia vieta la tortura ma non la punisce
di Vladimiro Zagrebelsky
Mentre
è profonda la pena e l’indignazione per la fine che ha trovato Giulio
Regeni in Egitto, arriva la sentenza della Corte europea dei diritti
umani che ha condannato l’Italia per violazione del divieto di tortura,
omissione di punirne i colpevoli, violazione illegale della libertà
personale in danno di Abu Omar. Menzionare insieme le due vicende, senza
dimenticare ovviamente le profonde differenze, è consentito dal fatto
che si tratta in entrambi i casi di torture (e di torture in Egitto). La
sentenza della Corte europea riguarda l’aiuto dato dai servizi segreti
italiani nel 2003 ad agenti della Cia americana per l’illegale sequestro
e trasferimento di Abu Omar in una prigione segreta in Egitto, per
esservi sottoposto a interrogatori e tortura. Il sequestro ebbe tra
l’altro l’effetto di sottrarre Abu Omar alle indagini della procura
della Repubblica di Milano per i suoi legami con organizzazioni
terroristiche islamiste. Sul sequestro e sul trasferimento in Egitto le
indagini e i processi svolti in Italia hanno accertato i fatti e i reati
che sono stati commessi. Ma i responsabili sono rimasti impuniti per
effetto, prima del segreto di Stato che i vari successivi governi hanno
imposto coprendo gli attori italiani e la Corte costituzionale ha
convalidato, e poi delle grazie presidenziali che hanno giovato ai
funzionari americani condannati. Poiché il divieto di tortura, per avere
effetto, implica il dovere degli Stati di individuare e punire i
colpevoli e invece le varie istituzioni politiche italiane hanno
impedito alla magistratura di farlo, la sentenza della Corte europea dei
diritti umani era più che prevedibile (la Corte europea espressamente
rende omaggio al lavoro della magistratura italiana contrapponendolo
all’intervento politico teso a vanificarlo). In una vicenda molto simile
la Macedonia aveva tenuto un comportamento analogo a quello italiano e
anch’essa era già stata condannata, cosicché le autorità italiane
sapevano bene a che cosa l’Italia sarebbe andata incontro sul piano
europeo.
L’Italia, come tutti i paesi europei, è legata da
convenzioni liberamente accettate, che vietano in ogni e qualsiasi
circostanza la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. E un simile
divieto si trae naturalmente anche dalla Costituzione. Ma, come si sa e
non si deve cessare di ricordare, l’Italia tuttora evita di darsi una
legge che punisca adeguatamente la tortura, dopo oltre trent’anni dalla
firma della Convenzione dell’Onu contro la tortura e infiniti richiami
internazionali. La conseguenza è che torture accertate, come ad esempio
quelle avvenute nel carcere di Asti o quelle compiute dalla polizia in
coda alle giornate del G8 di Genova, sono rimaste impunite (altre
condanne dell’Italia sono perciò venute e verranno ancora).
Nessuna
sorpresa dunque per la sentenza della Corte europea e forse poca
speranza che governo e Parlamento riflettano e non facciano finta di
niente. Non può però anche esserci troppa sorpresa per l’orribile
vicenda di Giulio Regeni. Sono centinaia le persone arrestate,
torturate, scomparse in Egitto, sotto questo regime forse più ancora nel
precedente. E’ una situazione nota e denunziata da tempo da serie
organizzazioni indipendenti: una situazione che non ha impedito
all’Italia di intrattenere ottimi rapporti con quei governi. Tuttavia in
questo caso la vittima è un italiano. E’ giusto che il governo pretenda
chiarezza e punizione dei responsabili, sia perché è dovere dei governi
operare per proteggere i propri cittadini, sia perché la lotta contro
la tortura passa anche attraverso la punizione di chi la pratica. Ma non
si dovrebbe essere indifferenti alla violazione dei diritti
fondamentali di chi ha la ventura di non essere un connazionale.
A
partire dall’immediato dopoguerra il rispetto dei diritti fondamentali
delle persone (tutte, indipendentemente dalla nazionalità) è inteso come
un obbligo internazionale per gli Stati, che non possono più opporre il
principio di non interferenza in un dominio riservato. E l’individuo ha
trovato strumenti internazionali per far valere i suoi diritti nei
confronti degli Stati. Dalla Dichiarazione universale dei diritti umani
del 1948, fino alla Convenzione europea dei diritti umani del 1950 e
alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000 gli
Stati che liberamente vi hanno aderito hanno accettato sia l’obbligo di
rispettare tutti i diritti che quelle Carte elencano, sia il controllo
esterno da parte della comunità internazionale e dei suoi organi. E in
particolare hanno accettato che il divieto di praticare o consentire che
si pratichi la tortura è assoluto.
Lo storico rivolgimento
rappresentato dall’entrata in campo della persona umana individuale e
della comunità internazionale (per noi, in primo luogo, europea)
incontra tuttavia un ampio margine di omaggio ipocrita e di concreta
reticenza. Un carattere proprio dei diritti umani fondamentali è quello
di (pretendere di) essere universali e indivisibili. Si tratta di un
ideale, una tendenza, ma certo non una realtà. Lo scarto tra ciò che è
scritto nelle Convenzioni e nelle Costituzioni, oltre che nei libri, e
ciò che si pratica è grande. Basta pensare alle diverse concezioni dei
diritti individuali, che al mondo occidentale oppongono le ampie aree
dell’Asia e dell’Africa, alle caratteristiche di molti paesi islamici,
fino a differenze che dividono l’Occidente nella cui storia siamo
immersi. Persino in Europa ed anche nel più ristretto club dei 28 Stati
membri dell’Unione europei emergono profonde divergenze sul modo di
riconoscere e proteggere i diritti fondamentali. Però, in Europa, almeno
nelle dichiarazioni ufficiali e nelle leggi, non viene messo in
discussione il divieto assoluto di tortura.