La Stampa 23.2.16
“Faccio causa allo Stato che ci ha abbandonati”
Nancy Mensa, figlia di un’infermiera uccisa dal marito: “Perché non siamo considerati come le vittime di mafia?”
di Grazia Longo
Per
Nancy Mensa, come per la maggior parte dei coetanei ventenni, «sono i
sogni a dare forma al mondo». Solo che i suoi fanno a pugni con l’incubo
di essere due volte orfana. Sua madre, Antonella Russo, infermiera,
venne uccisa a 48 anni, il 12 agosto 2013, mentre aveva in braccio il
figlio più piccolo di appena 4 anni. A sparare, nell’afa opprimente di
quella sera ad Avola in provincia di Siracusa, fu il padre di Nancy,
Antonio Mensa, 55 anni, gommista che subito dopo si tolse la vita con la
stessa arma.
Trenta mesi dopo Nancy, brillante studentessa di
giurisprudenza a Ferrara, con battagliera determinazione (grazie anche
all’assistenza dell’avvocato Emanuele Tringali), cerca di dare un senso
alla propria vita e a quella di chi, come lei, si ritrova senza
famiglia.
«Ma sia chiaro una volta per tutte: io non mi sento una
vittima del femminicidio. Io mi sento e sono una vittima dello Stato. E
non solo perché mia madre aveva denunciato mio padre per stalking ma non
era stata ascoltata».
E allora perché?
«Il delitto che si è
consumato a casa mia, e di cui non voglio ricordare i dettagli perché
ancora troppo acuta è la sofferenza che ha sconvolto me, mia sorella
Desirée che oggi ha 24 anni e il mio fratellino, non può essere
circoscritto a un privato caso di femminicidio. Sullo sfondo della morte
di mia madre c’è una situazione socio-culturale complessa di cui lo
Stato non può non farsi carico. E invece contro gli orfani come me
esiste una specie di pregiudizio che non tutela i nostri diritti».
Quali diritti crede non le vengano riconosciuti?
«Non
mi vengono garantite pari opportunità rispetto agli altri ragazzi
vittime di attentati terroristici, mafiosi o anche di attentati contro
l’ambiente come l’inquinamento d’amianto. Io sinceramente non mi spiego
perché chi ha perso i genitori in una faida mafiosa o in una fabbrica
divorata dall’amianto possa essere aiutato economicamente dal nostro
Paese e io no».
Che cosa si aspetta dalle istituzioni?
«Un
sostegno concreto. Come per esempio sovvenzioni economiche per
proseguire gli studi. Perché io, in fondo, sono fortunata: grazie a una
borsa di studio posso studiare a Ferrara, dove abito con altre
studentesse, e coronare il mio sogno di laurearmi in legge. Ma non le
nascondo che ogni volta che do un esame sono terrorizzata dal prendere
un voto non altezza delle aspettative per mantenere la borsa di studio.
Alle spalle ho anche la famiglia del mio fidanzato, che mi vuole bene e
mi appoggia. Ma chi non ha nessuno come fa?».
Insieme al suo
avvocato Tringali ha presentato la richiesta un disegno di legge, sia in
Parlamento, sia al governatore della Sicilia Crocetta, per
l’istituzione di un fondo per le vittime di femminicidio: come vi hanno
risposto?
«Che era un bel progetto, ma non ci sono i soldi. Eppure
per le vittime dell’amianto, la recente legge di stabilità ha previsto
un fondo di 30 milioni di euro. Perché noi dobbiamo continuare ad essere
abbandonati? Nessuno può immaginare il travaglio interiore di sapere
tua madre uccisa per mano di tuo padre: occorrono anche costose
psicoterapie. Perché lo Stato non ci aiuta? Faccio una fatica enorme a
cercare di condurre un’esistenza comune a quella di tante mie compagne
d’università. Cerco di condurre una vita normale: raggiungere quando
posso il mio fidanzato a Milano, studio per poter diventare magistrato e
contribuire a evitare che tragedie come quella di mia madre non si
verifichino più. Ma non basta».
Dunque non si arrende?
«No, anzi con l’avvocato faremo causa allo Stato per ottenere un risarcimento».