lunedì 22 febbraio 2016

La Stampa 22.2.16
Nella sconfitta quel sapere utile nella vita
di Marco Belpoliti

Hogonbiiki è una parola giapponese che indica un atteggiamento diffuso in quel Paese che potremmo rendere in italiano con: «La simpatia per il perdente». Nella nostra cultura occidentale è diffusa piuttosto la virtù opposta: la simpatia per il vincente. Ma vincere non è sempre possibile, come mostrano le vite di uomini più o meno illustri viste a distanza e in modo prospettico. Anche per i vincenti viene sempre il momento in cui subentra la sconfitta.
La nobiltà, così insegnavano i saggi dell’età ellenistica, voci orientali nella nostra tradizione ultraoccidentale, consiste nell’accettazione di entrambi gli stati. Ivan Morris, studioso del Giappone, ha spiegato in un piccolo classico, La nobiltà della sconfitta (Guanda), che non c’è solo il nostro mondo violento e feroce, con il suo culto spasmodico per il successo, ma esistono eroi che rovesciano questa etica e si consacrano con coraggio alla sconfitta. L’eroe è bello per proprio questo: di fama e di sventura.
L’intera storia degli ultimi settant’anni comprende almeno due grandi Paesi, il Giappone e la Germania, che hanno saputo accettare la sconfitta e seppur in mezzo a grandi contraddizioni, sensi di colpa e grandi vergogne, nazioni che hanno saputo trasformare la sconfitta nel suo opposto. Senza attendere la palingenesi d’intere nazioni, si fa strada anche presso di noi l’idea che non ci si addestra solo a essere dei Winners, ma ad accettare e a valorizzare la sconfitta. Lo si fa in alcune scuole, dove questo insegnamento sembra sovrapporsi, se non sostituirsi, a quello della vittoria a tutti i costi, della competizione da cui occorre uscire con vistoso vantaggio. La celebre frase di Andy Warhol, che ciascuno può essere famoso per almeno quindici minuti nel corso della sua vita, è diventato un mantra così da apparire contemporaneamente vero e falso. Quando accade quel fatico quarto d’ora? Nell’attesa del proprio turno, che non si sa quando né come arriverà, almeno una generazione si è consumata, come accade ai personaggi nel teatro di Beckett, votati per l’eternità ad aspettare qualcosa che non arriverà mai. E le precedenti generazioni dei padri e dei nonni non aveva forse un’altra attesa, quella del sorgere del Sol dell’avvenir? Invece, come sappiamo bene sono venute sonore sconfitte, disastri immani, sebbene nella promessa socialista e comunista ci fosse, insieme all’attesa della vittoria mondiale del nuovo ordine sociale, anche quella di una sconfitta continua e latente, di derivazione senza dubbio cristiana. Veniva chiesto il martirio e il sacrificio, così come accade oggi a una giovane generazione di musulmani ingannati dalle parole di predicatori nelle moschee di tutto il mondo: vincere sacrificandosi. Anche nello sport l’etica del vincente ha finito per diseducare uomini e donne, spingendo verso il traguardo e il podio del numero uno milioni di persone, là dove l’etica di Pierre de Coubertin era quella de «l’importante è partecipare non vincere».
La scuola in verità ha sempre insegnato nelle figure dei grandi pedagoghi questa idea della sconfitta come realtà da non temere e, se non proprio da coltivare, almeno da accettare senza troppo ritegno o repulsa. In fondo in noi abitano sia l’una che l’altra, e ci conosciamo, o riconosciamo, solo quando sperimentiamo dentro di noi entrambe. C’è un personaggio, protagonista di una graphic novel, di nome Jeff Kinney, noto come La Schiappa, che con le sue continue sconfitte è diventato un eroe in cui s’identificano milioni di ragazzi tra i 9 e il 16 anni, adolescenti e pre-adolescenti che sperimentano la terribile e continua esperienza di passare di scacco in scacco; non le grandi sconfitte, ma quelle sottili umiliazioni quotidiane cui siamo stati tutti sottoposti, e che hanno segnato la sofferenza di quell’età. La sconfitta, s’impara da adulti, se non si è stupidi o superficiali, non ha solo il sapore dell’amarezza, ma contiene anche un sapere che è utile nella vita, e che non è così masochistico assaggiare a piccoli morsi per abituarsi a quella sconfitta che prima o poi ci attende tutti, e che non è così terribile come sembra, se ci saremo allenati nel corso del tempo.