Corriere 22.2.16
Le donne sfuggite a Boko Haram? «Sono maledette»
L’odissea delle ex rapite. I figli chiamati «iene»
di Michele Farina
Il
nome dice tutto, il nome con cui nel Nordest della Nigeria vengono
bollate le ragazze che tornano a casa. Le chiamano «annoba», epidemia.
Dopo
il rapimento e le sevizie, dopo mesi o anni di lontananza. Se riescono a
lasciarsi l’orrore alle spalle, nei campi jihadisti della boscaglia,
tra le piante spinose della Sambisa Forest dove si racconta che neppure
gli elefanti provassero a penetrare, non ci sono fiori ad accoglierle ma
altri aculei. Non «sopravvissute», «fortunate», «salvate», pronte a
«ricominciare». Per la gente rimangono inchiodate al passato: sono «le
mogli di Boko Haram». Oppure «annoba», le donne del «contagio».
In
duemila negli ultimi anni sono state portate via dai villaggi. Comprese
le 200 studentesse «razziate» nella scuola di Chibok una notte di
aprile 2014. Con una vampata di indignazione «virale» sui social
network, al grido ritwittato di « bring back our girls ».
Le
«nostre ragazze» di Chibok: nessuno le ha «riportate» indietro. Sono
ancora cosa «loro», vendute per poche monete e disseminate come «mogli
di Boko Haram» anche nei Paesi vicini. Le campagne di sdegno
internazionale sono scomparse. Di «virale» adesso c’è soltanto quel
nomignolo locale, «annoba», a marchiare quante sono fuggite o sono state
liberate nei raid dell’esercito nigeriano. Vediamola in positivo? Se
sono percepite come «un’epidemia», vuole dire che sono tante. Sono un
segno che i guerriglieri guidati da Abubakar Shekau hanno subito colpi,
perdono terreno, che i rapimenti di massa non sono senza ritorno.
Ma
tornare è un conto, riprendere il proprio posto nella società è quasi
più difficile. E poi quale società? I raid di Boko Haram hanno fatto
quasi tre milioni di profughi nel Nordest. Molti vivono come appestati
in campi di fortuna, dove spesso manca quasi tutto. Secondo l’ultimo
rapporto delle Nazioni Unite, 223 mila bambini malnutriti in quell’area
potrebbero morire se non arriveranno aiuti immediati. Le pance vuote e
la rabbia, la diffidenza e la scarsità delle risorse non aiutano la
gente ad accogliere festosamente le «ex» mogli di Boko Haram.
Oltre
confine, nel vicino Camerun, la diffidenza è indirizzata a tutti i
profughi: dall’estate scorsa più di 40 kamikaze (sempre più donne) hanno
colpito quasi sempre obiettivi civili. A volte si nascondono tra i
profughi, per esempio nel campo di Minawao che ospita 53 mila nigeriani
in fuga. Particolare stigma è riservato alle ragazzine, ormai diventate
l’arma preferita dei jihadisti, che sfruttano gli abiti lunghi per far
passare inosservate le cinture esplosive.
Anche l’acconciatura
sotto il velo è diventata oggetto di attenzioni e paure. Le donne che si
fanno saltare in aria in genere non portano i capelli sulla fronte,
perché le regole sull’«ultimo viaggio» impongono il viso «pulito». L’ha
raccontato la ragazza che alcuni giorni fa ha rinunciato all’ultimo
momento a farsi esplodere in mezzo alla folla, perché tra i rifugiati
temeva ci fosse suo padre. Anche lei era a fronte scoperta, come le due
amiche che invece si sono immolate. Pronte a farsi dilaniare tutte, ma
con i capelli ben tirati all’indietro.
Il ritorno a casa di una
kamikaze pentita dev’essere ancora peggiore dell’accoglienza riservata
alle mogli sfuggite ai jihadisti. Per quest’ultime c’è anche il nodo dei
figli, che hanno partorito o che portano in grembo. Nel rapporto sulle
«donne epidemia», International Alert e Unicef riportano le parole di
una ragazza rimasta incinta in un campo di Boko Haram: «Quando ci penso
provo angoscia e mi chiedo: “Si comporterà come uno di loro?”». Nascerà e
troverà un nome usato per quelli come lui, i figli di Boko Haram: «Iene
tra i cani».