La Stampa 21.2.16
Il ritorno della Guerra fredda
di Marta Dassù
Le
due grandi potenze della vecchia Guerra fredda sono tornate a dividersi
sulla sorte dell’Europa. O meglio: divise lo erano già, anzitutto
sull’allargamento verso Est della Nato e dell’Unione europea. La crisi
ucraina ha drammatizzato un problema che ha la sue origini nel modo
(opposto) in cui Mosca e Washington hanno vissuto – subíto nel caso
russo – l’evoluzione dell’assetto europeo dopo il crollo del Muro di
Berlino. Ma il gioco è ormai più complicato di così; e non riguarda più
soltanto i fianchi, o le periferie, del Vecchio Continente. Arriva al
cuore.
L’America, nella fase finale della presidenza Obama, vuole
un’Unione europea più integrata e più forte: per questo ha tifato per il
Brexin, la permanenza di Londra nell’Unione – e avrà quindi brindato
all’accordo in extremis di Bruxelles. Spiegando con «crudezza» la
posizione di Washington, Richard Haass, presidente del Council on
Foreign Relations, ha sottolineato che un’Europa senza Gran Bretagna
sarebbe ancora più dominata, di quanto già non sia, dalla Germania.
Esito non auspicabile, secondo Haass, perché la preponderanza tedesca
dividerebbe politicamente il Continente, segnerebbe il successo di una
visione economica «mercantilista» e ridurrebbe la già scarsa propensione
europea a svolgere un ruolo internazionale attivo. Un’Europa (troppo)
tedesca – questa la tesi – sarebbe in realtà un’Europa più debole. Al
tempo stesso, una Gran Bretagna disancorata dall’Ue conterebbe poco e
sarebbe quindi meno utile anche agli Stati Uniti come alleato un tempo
«speciale». Si può essere o meno d’accordo con tesi del genere, tagliate
con l’accetta. Segnalano, in ogni caso, che dal punto di vista di una
potenza in fase di parziale ripiegamento – come gli Stati Uniti di oggi e
forse ancora più di domani – un’Europa forte significa essenzialmente
un’Europa «atlantica» ma meno dipendente dalla tutela americana. E
confermano l’esistenza di una distanza sensibile da Berlino sulle
strategie di politica economica: distanza emersa chiaramente di fronte
alla crisi del 2008 e confermata dal difficile dibattito tedesco sul
Ttip, il nuovo Trattato transatlantico in eterna discussione.
La
Russia, nella fase dominante della presidenza Putin, punta invece – per
definizione, direi – su un’Europa debole: per questo appoggia partiti
euro-scettici, entusiastici ammiratori di Mosca; e dopo avere tracciato a
metà dell’Ucraina il limes invalicabile (per l’Europa) verso Est, sta
muovendosi con spregiudicatezza sul fronte Sud. Dal Baltico al Mar Nero e
oltre, la Russia sembra avere una visione unitaria, che manca invece al
Vecchio Continente. In Siria, l’intervento di Mosca ha tenuto in vita
Assad, nel vuoto conflittuale creato dalle difficoltà americane nel
post-l’Iraq. Da una guerra che è fatta di molte guerre diverse,
emergono, dopo centinaia di migliaia di vittime, il peso crescente degli
attori regionali (Turchia, Arabia Saudita, Iran) e quello declinante
dei paesi europei. D’altra parte, una delle conseguenze dell’assedio di
Aleppo è la nuova ondata di rifugiati siriani: per Mosca, il vantaggio è
di indebolire la Turchia – sua rivale diretta sul fronte siriano – e di
accentuare gli ingredienti della crisi più grave che sta dividendo
l’Europa. Nella vecchia politica russa del divide et impera, per anni
realizzata coi gasdotti, si aggiunge ormai un elemento di «politics»: la
sponda offerta a Putin dai populisti e nazionalisti europei, in parte
affascinati dal modello neo-autoritario e in parte interessati a usare
la Russia contro Bruxelles. Due esempi recenti: la visita a Mosca di
Viktor Orbán, il più vocale dei premier nazionalisti (anti) europei; il
sostanziale appoggio economico che Marine Le Pen, leader del Fronte
nazionale francese, sta ricercando da banche russe. Si aggiunge la
tradizionale rilevanza della Russia sull’asse balcanico-ortodosso, dalla
Grecia e Cipro in su, con la sua centralità nelle rotte migratorie.
Mentre
si moltiplicano i Consigli europei, le decisioni sull’Europa cominciano
ad essere prese altrove. Sul fronte Est, la Casa Bianca pianifica un
aumento sensibile delle spese militari americane, per rafforzare – in
appoggio ai nuovi membri della regione – le capacità dissuasive della
Nato. Che, sul fronte Sud, ha invece appena approvato una missione di
pattugliamento nell’Egeo; il rischio principale, collegato di nuovo alla
Siria, è che la tensione fra Russia e Turchia (membro dell’Alleanza
atlantica), possa sfuggire di mano. Sembrerebbe un ritorno al futuro,
non proprio una guerra fredda ma quasi, sui due fianchi esposti
dell’Europa allargata e divisa, sia sull’asse Ovest/Est che su quello
Nord/Sud. Ma non è solo questione di fianchi, dicevo. Il punto è che il
«cuore» europeo soffre tutto l’impatto delle multiple crisi cui l’Ue si
trova di fronte e a cui non riesce a rispondere se non con estrema
fatica e con grande lentezza: la ri-nazionalizzazione attraversa le
capitali e non è solo il risultato della pressione di partiti populisti,
di destra o sinistra che siano. Questa Europa che non riesce ad essere
potenza finisce così per tornare ad essere uno spazio: un incrocio
pericoloso, che gli europei non sembrano riuscire a governare. Né
insieme né separatamente.