La Stampa 21.2.16
Berlino, Orso d’oro a Rosi
“Il mio pensiero ai profughi mai arrivati a fine viaggio”
Vince il documentario “Fuocoammare” girato a Lampedusa
“Ho filmato la realtà più dura nella speranza di cambiarla”
Il regista: ho anche scoperto il grande cuore dell’isola
intervista di F. Cap.
Basta
un attimo, e la tensione si scioglie in pura felicità. Regista schivo e
poco amante dei riflettori, Gianfranco Rosi aggiunge alla sua lunga
lista di trofei (il penultimo è il Leone d’oro alla Mostra di Venezia
per Sacro G.R.A.), un premio destinato a risvegliare le coscienze del
pubblico e dei governanti d’Europa, un premio alla gente di Lampedusa,
ma soprattutto ai disperati che, per raggiungerla, si giocano la vita,
sperando in un futuro migliore.
«Fuocoammare» è un film d’autore, ma è anche un film profondamente immerso nell’aria del tempo. Un film che oggi è necessario.
«Quando
ho iniziato a girarlo la situazione era diversa, quello dei migranti
veniva considerato un problema che l’Italia doveva risolvere da sola.
Adesso tutto è cambiato, i vari Paesi coinvolti hanno iniziato a
reagire, e il film è diventato politico al di là delle mie stesse
intenzioni».
Alcune reazioni sono di totale chiusura e, per questo, in Europa e altrove, si stanno verificando fratture e divisioni.
«Se
l’Europa non riesce a fare i conti con questa vicenda internazionale,
allora crolla tutto. Non può succedere che le persone continuino a
morire in mare scappando da una tragedia. Sarebbe già tanto se il film
servisse a creare consapevolezza».
A quale rappresentante politico vorrebbe farlo vedere?
«Lo dovrebbero vedere tutti, soprattutto quelli più tosti, cioè Salvini».
In
alcune immagini di «Fuocoammare» si vedono i cadaveri di chi non ce
l’ha fatta. Perché, secondo lei, è giusto filmare i morti?
«Era la
grande sfida del film, sarei stato ipocrita a non affrontarla. Sono
scene che riportano alla mente l’orrore delle camere a gas, si vedono
persone morte asfissiate, a venti miglia dalla Libia, durante una
navigazione che dura sei ore. La morte mi è venuta incontro, e ho scelto
di mostrarla solo nell’ultima parte del film, dopo oltre un’ora di
proiezione, in modo che gli spettatori ci arrivino in qualche modo
preparati».
C’è anche chi dice che, a questo punto, bisognerebbe
dare le macchina da presa ai profughi e farli diventare registi di se
stessi.
«È un problema che non esiste, molti dei migranti, già da
tempo, filmano quello che stanno vivendo con i cellulari e noi siamo
abituati a vedere le loro immagini. E poi la mia intenzione era diversa,
ero partito dall’idea di raccontare l’isola di Lampedusa, e mi sono
trovato davanti a un dramma».
Per anni il genere documentario è
stato trascurato, relegato nel settore del cinema noioso. Da qualche
tempo la tendenza è cambiata, e i documentari vincono ovunque.
«È
vero, non è più un genere considerato punitivo. Non potrò mai
dimenticare la sera in cui, in un negozio di New York dove si
affittavano film in cassetta, sentii una madre spazientita dire alla
figlia che non si decideva sul titolo da scegliere “basta, se non la
smetti, ti prendo un documentario”».
Quali sono le regole d’oro del documentarista Gianfranco Rosi?
«Prima
di tutto il più assoluto rigore, che vuol dire girare per rafforzare la
realtà. E poi non amo il cinema che prima spiega e poi si lagna, e non
mi piace martellare la gente, preferisco il silenzio tra le note,
raccontare piccole storie che iniziano e finiscono». [F. CAP.]