La Stampa 21.2.16
Anche i cristiani compravano schiavi
Venivano rapiti da corsari occidentali e turchi furono usati come paggi, concubine, ortolani
di Alessandro Barbero
C’erano
 schiavi nell’Italia del Rinascimento, nella Spagna del siglo de oro, o 
nella Francia del Re Sole? C’erano schiave in casa dei mercanti del 
Boccaccio, nei palazzi dei patrizi veneziani, nelle botteghe di 
Michelangelo o di Raffaello? Molti, senza dubbio, risponderebbero di no.
 Semmai, si dirà, c’erano schiavi dall’altra parte del Mediterraneo, nel
 mondo musulmano: incatenati ai remi sulle galere del sultano, 
incarcerati nei bagni di Algeri, venduti nei mercati di Damasco o di 
Marrakesh. Che questa schiavitù diffusa sul versante islamico del mare 
nostrum fino al XIX secolo, e di cui ci ricordiamo grazie a secoli di 
martellante propaganda, avesse il suo riscontro sul versante cristiano, è
 qualcosa che abbiamo dimenticato. Solo da poco gli storici hanno 
riscoperto la persistenza della schiavitù nel Mediterraneo cristiano; 
questa sintesi di Salvatore Bono permette di apprezzare, con stupore, la
 vastità del fenomeno.
Perché la documentazione non lascia dubbi. 
Nelle città costiere, la guerra permanente fra corsari cristiani e 
corsari musulmani riversava un flusso ininterrotto di schiavi, da una 
parte e dall’altra. Il fenomeno è rilevantissimo nel Cinque e Seicento, 
quando Siviglia è il più grande mercato di schiavi d’Europa, e a Napoli 
si trovano da 10 a 20.000 schiavi. Va calando nel XVIII secolo, perchè i
 tempi cambiano, lo zelo religioso si raffredda, la navigazione 
mediterranea s’impoverisce, in un mare che non è più il centro del 
mondo. Ma è ben lontano dallo scomparire: centinaia di schiavi sono 
ancora impiegati dai Borboni nella costruzione delle reggia di Caserta 
(ma, per par condicio, ricordiamo che a Cagliari sotto i Savoia ancora 
nel 1812 erano sfruttati per i lavori pubblici un centinaio di schiavi 
turchi, «quasi nudi» e «morti dalla fame»).
Attraverso 
innumerevoli storie individuali Bono fa emergere i destini collettivi. 
Gli schiavi sono quasi tutti catturati con violenza, dai corsari 
barbareschi o dai cavalieri di Malta; il destino più duro è quello di 
chi viene incatenato al remo sulle galere, ma la maggior parte sono 
venduti a terra (in Spagna l’IVA sugli schiavi è al 20%). Ci sono mille 
motivi per comprarsi uno schiavo: la principessa vuole un paggetto moro,
 il mercante può finalmente permettersi una concubina, l’artigiano ha 
bisogno di un garzone, al possidente occorre un pastore. Schiavi e 
schiave vivono e lavorano accanto ai padroni, fra la casa, la bottega, 
l’orto; le testimonianze sono abbastanza concordi sul fatto che sono 
meno maltrattati di quello che potremmo credere, a Tunisi come a 
Palermo. Non tutti, anzi forse una minoranza, finiscono la vita in 
schiavitù. In patria, i governi e le famiglie si mobilitano, cercano di 
ritrovarli, raccolgono i soldi del riscatto. In questo la società 
cristiana è più efficiente, perchè è più articolata, suddivisa in corpi 
organizzati, in concorrenza fra loro: accanto ai governi c’è la Chiesa, e
 nella Chiesa ordini religiosi specificamente vocati al riscatto degli 
schiavi: trinitari, mercedari... Così, accade più spesso ai «nostri» 
prigionieri in Oriente di veder arrivare gli zecchini del riscatto e 
ritornare a casa.
L’altro modo per non finire la vita in schiavitù
 è di convertirsi e sperare nella liberazione da un padrone generoso; e 
anche questo è un fenomeno di massa, su entrambe le sponde. Farsi 
cristiano, o farsi «turco», non garantisce la libertà: sulle galere del 
re di Spagna o nei cantieri di Roma, lo schiavo che si è fatto cristiano
 si garantisce solo qualche colloquio col cappellano. Però da tutt’e due
 le parti si predica che liberare gli schiavi è un’opera buona, e i 
primi candidati, ovviamente, sono i convertiti (non per niente qualche 
padrone impedisce ai suoi schiavi di convertirsi, a bastonate). Per un 
nobile, è una bella occasione di mettersi in vista: a Bergamo il conte 
Silvio da Porcia, governatore veneziano della città, dà un gran pranzo 
per festeggiare due schiavi turchi che ha catturato a Lepanto e che ha 
deciso di liberare dopo il battesimo, e scrive alla moglie: «è vero 
ch’io farò una spesa di venticinque a trenta ducati, ma con onor mio non
 posso certo far di mancho». Gli schiavi liberati lavorano e si sposano,
 fra loro o con altri, si perdono nella gran massa della popolazione, e 
tutti noi portiamo qualche traccia dei loro geni nel nostro DNA.
Non
 era un mondo pacifico, il Mediterraneo dell’età moderna: il mare, 
portatore di ricchezza, era anche il luogo della violenza e della 
sopraffazione, dove ogni viaggiatore rischiava d’essere rapito e 
venduto, e se protestava si sentiva rispondere, in lingua franca: «Stare
 usanza del mare». Non è stato un mondo pacifico neppure dopo: anzi, il 
gesto di forza con cui un’Europa ormai sicura della sua superiorità 
morale mise fine alla lunga storia della guerra di corsa, l’occupazione 
francese di Algeri del 1830, non fece altro che aprire un’altra storia 
maledetta, di cui paghiamo il conto ancor oggi. Ma il libro di Salvatore
 Bono dimostra che la storia non distribuisce patenti d’innocenza a 
nessuno: e si capisce l’impazienza dell’autore verso chi ancor oggi 
agita il ricordo dei corsari barbareschi e delle loro razzie di schiavi 
per propagandare unilateralmente lo scontro di civiltà.