domenica 21 febbraio 2016

Il Sole 21.2.16
Verso il G-20
Le ambizioni di Pechino e le ragioni di Europa e Usa
di Domenico Lombardi

Cresce l’attesa per la prima riunione dei ministri delle finanze e dei banchieri centrali del G-20 a presidenza cinese prevista per il prossimo venerdì a Shanghai. Nei giorni scorsi anche l’Ocse, dopo l’Fmi lo scorso mese, ha certificato la fragilità dell’economia mondiale. Eppure, meno di due anni fa a Brisbane nel novembre 2014, i leader del G-20 si erano impegnati a traghettare l’economia mondiale verso un traguardo di crescita che prevedeva 2 punti percentuali aggiuntivi di Pil da raggiungere entro il 2018. Oggi, quel traguardo appare sempre più lontano divaricandosi la forbice fra le previsioni disponibili e quell’obiettivo apparentemente ambizioso.
La presidenza cinese è consapevole di questa tensione e da mesi sta riorientando le energie dei Paesi membri, che nell’insieme rappresentano oltre l’80% del Pil mondiale, su un’agenda centrata sull’espansione di investimenti e scambi internazionali. È interessante rilevare che questi due punti si sovrappongono perfettamente all’agenda politica interna del gigante asiatico.
Data la crescente sovracapacità del settore manifatturiero in Cina, le autorità di Pechino hanno bisogno di espandere i mercati di sbocco per la produzione domestica. A tale proposito, intendono far leva sul G-20 per creare una piattaforma catalitica attorno a grandi progetti infrastrutturali, molti dei quali nella regione eurasiatica, che aumentino il tasso potenziale di crescita dell’economia mondiale e, nel breve periodo, ne accrescano la domanda aggregata. In tal senso, la Cina ha anche predisposto un importante braccio operativo di questa strategia nella nuova Asian Infrastructure Investment Bank con sede proprio a Pechino, che, da poco, ha annunciato le nomine al vertice nel suo organigramma con Regno Unito e Germania in posizioni di preminenza tra i membri europei.
Nel sofisticato lavorio diplomatico che le autorità cinesi hanno messo in atto negli ultimi mesi figura la ricucitura dello strappo con Washington che i due rispettivi capi di stato hanno definitivamente messo da parte nell’ultimo vertice bilaterale dello scorso settembre a Washington. Come si ricorderà, in occasione della costituzione della neonata organizzazione, Pechino era riuscita a frantumare il G-7, i cui membri europei, Regno Unito e Germania in testa, a cui si accodavano poi Francia e Italia, aderivano alla nascente istituzione, lasciando gli Stati Uniti isolati e con qualche imbarazzo.
Dopo aver normalizzato il quadro diplomatico attorno alla nuova organizzazione, Pechino ne replica la strategia vincente, questa volta nell’ambito del commercio internazionale. Nonostante i membri del G-20 alimentino circa l’80% del commercio mondiale, esso non ha mai rappresentato un punto importante nell'agenda del G-20. Eppure, quasi tutti i suoi membri sono impegnati in negoziati commerciali importanti: basti pensare a quelli tra Ue e Stati Uniti per la Transatlantic Trade and Investment Partnership oppure quelli tra Cina, Australia, India, Giappone e Corea del Sud per la Regional Comprehensive Economic Partnership.
Nel breve termine, tuttavia, l’espansione dei mercati di sbocco per Pechino passa per il riconoscimento dello status di economia di mercato, obiettivo che aleggerà nei colloqui riservati a margine delle riunioni ufficiali. Lo ha già ottenuto da alcuni paesi con cui vanta strette relazioni diplomatiche ma all’appello mancano Stati Uniti e, naturalmente, i 28 Paesi della Ue che costituiscono, nell’aggregato, il più importante mercato estero per l’economia asiatica. A parte l’evidente forzatura dal momento che la Cina non è un’economia di mercato, tale riconoscimento priverebbe i Paesi importatori della possibilità di erigere barriere tariffarie a parziale protezione dei rispettivi mercati domestici minacciati dal dumping cinese in una fase in cui il contesto economico europeo è particolarmente asfittico e la sovracapacità dell'industria cinese in aumento.
Gli Stati Uniti hanno annunciato di essere fermamente contrari riservandosi, semmai, di utilizzare questo punto come elemento di pressione nell’agenda bilaterale fra i due Paesi. Anzi, tale pressione l’hanno appena intensificata con la firma di un nuovo accordo commerciale, quello per la Trans Pacific Partnership (Tpp) con altri 11 Paesi del Pacifico, che esclude la Cina.
Nella Ue, invece, dietro la Commissione, Regno Unito e Germania guidano (di nuovo) la carica a favore del riconoscimento. Il primo ha già ottenuto da Pechino la promessa che Londra ospiterà il maggior centro off-shore per le transazioni finanziarie in renminbi. La seconda otterrà per le sue imprese un accesso ancor più privilegiato a quell’enorme mercato.
Questa ennesima asimmetria rappresenta un ulteriore elemento di discussione che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, dovrà aggiungere nei bilaterali sempre più dialettici con il cancelliere tedesco e il presidente della Commissione europea. Nel frattempo, l’incontro tra i ministri del commercio estero del G-20 è stato già fissato per il prossimo luglio e il summit tra i capi di stato e di governo per i primi di settembre.