La Stampa 21.2.16
Brunetto innamorato non merita l’Inferno
Chi fu davvero il raffinato intellettuale duecentesco condannato al girone dei sodomiti
di Maurizio Cucchi
È
un’emozione e un piacere tenere tra le mani il piccolo libro senza età
che raccoglie le Poesie di Brunetto Latini. E dunque il Tesoretto, ampio
poemetto in volgare incompiuto di quasi tremila versi, e poi il breve
Favolello (165 versi) e la canzone «S’eo son distratto inamoratamente»,
dove ser Brunetto si mostra anche poeta lirico. Tutti sappiamo che
Brunetto fu maestro di Dante, il quale lo colloca all’Inferno, nel canto
XV, benché ne riconosca «la cara e buona imagine paterna», quella di un
uomo e di un sapiente di centrale risalto, in quanto, aggiunge il
grande allievo, «m’insegnavate come l’om s’etterna».
Brunetto fu
un intellettuale di prim’ordine nella Firenze del suo tempo, nel cuore
del Duecento (nato verso il 1220, morì nel 1294), e rappresenta la
figura del poeta al suo livello più alto, vale a dire autore di versi ma
anche coltissimo letterato, oltreché studioso e uomo di pensiero. La
stima di cui poteva godere lo portò anche ad onori e viaggi: fu in
Spagna, ambasciatore ad Alfonso X re di Castiglia. Ma tornando da quel
viaggio, dopo la vittoria ghibellina a Montaperti (1260), fu costretto
all’esilio. Riparò allora in Francia, dove rimase sei anni e dove
scrisse, non in latino, ma in francese (lingua allora più avanzata,
strutturata e culturale rispetto al toscano), una delle sue opere
maggiori, o forse la maggiore in assoluto il Tresor, che riappare oggi,
con traduzione in italiano, nella bellissima edizione dei Millenni. Una
summa dell’intero sapere, nelle sue varie forme, fino al medioevo
dell’autore, un’opera di compilazione enciclopedica, anzi, una sorta di
prima enciclopedia in volgare, di evidente impronta e orientamento
etico-politico, dove troviamo filosofia teorica e pratica, logica,
retorica e appunto politica.
D’altra parte, anche nella sua
poesia, Brunetto non ebbe essenzialmente obiettivi estetici, ma
piuttosto di carattere didattico e pedagogico, come altri poeti
dell’epoca, e di provenienze diverse: al nord Bonvesin, Patecchio,
Giacomino, Uguccione. Come loro egli fu un precursore di Dante, nel
senso della costruzione di un viaggio morale attraverso le forme del
bene e del male nell’uomo.
Tornato a Firenze, dopo la vittoria dei
guelfi a Benevento, riprese la sua posizione di pubblico rilievo (fu
anche priore, nel 1287) e scrisse in volgare il Tesoretto e il
Favolello. Entrambi i poemetti sono composti in settenari monorimi e
l’intento essenziale è quello di dirigerne le coscienze, di ammaestrare.
Il che non esclude affatto esiti estetici, impennate poetiche, magari
all’interno di argomentazioni lineari o prosastiche e a tratti
riconoscibili come poetiche solo grazie alla versificazione e alla rima.
Questi felici stacchi avvengono in genere in sentenze quasi
epigrammatiche, in constatazioni del tipo: «E vidi [...] / che ogni
creatura / ch’avea cominciamento / veni’ a finimento», o in elencazioni
di elementi o figure della realtà naturale: «E vidi turba magna / di
diversi animali, / che non so ben dir quali: / ma omini e moglieri, /
bestie, serpent’e fiere, / e pesci a grandi schiere, / e di molte
maniere / uccelli voladori, / ed erbi e frutti e fiori, / e pietre e
margarite, / e altre cose tante».
Non secondario elemento a favore
di una lettura o rilettura di ser Brunetto è, appunto, l’importanza del
suo insegnamento a Dante, che, - lo rileva puntualmente Stefano Carrai,
ottimo e meritorio curatore di questo libro - presenta nella sua opera
non pochi riecheggiamenti del maestro. Già molto evidente da questi
versi: «Perdei il gran cammino / e tenni a la traversa / d’una selva
diversa». O da questi altri: «e io presi andamento, / quasi per
Aventura, / per una valle scura».
Ma un’indicazione forte era
venuta a Dante, per la forma prosimetro della sua Vita nova, dalla
Rettorica, dove Brunetto aveva tradotto Cicerone. Tutto questo,
trattandosi del grandissimo Dante, non fa che aumentare l’importanza
complessiva del suo maestro. A proposito del quale resta anche aperta la
questione del peccato per il quale viene cacciato nell’Inferno. Carrai
elenca le ipotesi in proposito, a partire dalla più semplice e
resistente, quella di omosessualità. Seguita peraltro da quella,
piuttosto cervellotica, di blasfemia, o dal suo mancato riconoscimento
della sacra autorità dell’Impero. E ancora: eterodossia religiosa, sesso
praticato con mogli contro natura. Ma quello che ci resta, per fortuna,
è l’opera, un’opera varia, con una cifra interna lirica, non sempre
visibilissima ma ben presente. Lo si vede nella canzone di endecasillabi
e settenari che chiude questa importante raccolta ma che anche la apre
in copertina con questi versi: «S’eo son distretto / inamoratamente / e
messo in grave affanno / assai più ch’io non possa soferire, / non mi
dispero né smago neiente, / membrando che mi danno / una buona speranza
di martire, / com’eo deggia guarire: / ché lo bon soferente / riceve
usatamente / buon compimento de lo suo desire». Ed è appagante
inoltrarsi nella selva della sua lingua, un volgare ancora antico,
fluido e ruvido insieme, e in prodigioso movimento.